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GKN, STORIA DI UNA MOBILITAZIONE, intervista a Dario Salvetti

GKN, STORIA DI UNA MOBILITAZIONE, intervista a Dario Salvetti

📢 LE MALETESTE 📢

3 giu 2023

"Non trovo resistenza, non trovo grossi difensori del sistema, dal momento che la sua inefficienza è sotto gli occhi di tutti; e al contempo mai come oggi la confusione su qualsiasi alternativa possibile regna sovrana a tutti i livelli."
di VALERIA FINOCCHIARO e VITTORIO RAY

GKN, STORIA DI UNA MOBILITAZIONE – INTERVISTA A DARIO SALVETTI

pubblicato giovedì, 1 Giugno 2023

di Valeria Finocchiaro e Vittorio Ray


Inizialmente non eravamo sicuri che fare questa intervista, in questo momento, fosse una buona idea. Con la lotta GKN ancora nel pieno del suo corso, 20 mesi di occupazione e fatica alle spalle, una raccolta fondi aperta e già oltre i risultati auspicati, un recupero e un piano industriale ancora tutti da realizzare, avevamo paura di “personalizzare” una lotta così naturalmente collettiva.

Dopo due ore di chiacchiera, la ragione di questa precauzione è stata disinnescata e ribaltata. Di Dario Salvetti, uno dei portavoce del collettivo di fabbrica, sorprende la natura sinceramente, perfettamente, incredibilmente duplice. Interamente uomo politico e interamente operaio. Retorica raffinatissima, lucidità e cultura politica introvabili, e poi l’umiltà, la tenerezza, la capacità di tenere il megafono in mano e di urlarci dentro che solo un tifoso del Livorno montatore metalmeccanico può avere. È impossibile personalizzare una lotta se la personalità stessa è convinta di non avere alcun ruolo eccezionale. “Penso che il 95% sia dovuto alle condizioni oggettive, e il 5% alla persona che si trova a essere lì”, risponderà alla domanda su cosa ne pensa del ruolo del carisma nella storia.

Sembra quasi che quel discorso pasoliniano sulla mentalità proletaria che è stata spazzata via dal microborghesismo di massa, dal desiderio di arricchirsi, dal ciascuno di noi che vuole mettere a frutto i propri talenti per il proprio successo, e tutte quelle cose in cui crediamo sentendoci in parte disperati ma innanzitutto giustificati – perché nel mal comune c’è innanzitutto il mezzo gaudio: tutto questo, ascoltando DS, sembra quasi che non sia stato così inoppugnabilmente universale, non abbia attecchito ancora ovunque. Sembra quasi che esista un proletariato che non si risolve in desideri individualisti, che quello che fa e smuove in ambito politico, anche con doti e talenti fuori dal comune, non è per tornaconto personale ma è per la causa comune, il collettivo di fabbrica. Non sappiamo quanto sia statisticamente rilevante, ma da qualche parte esiste.



Cosa c’è di strano in questa fabbrica? Perché non potete fallire come tutte le altre fabbriche che falliscono? Al di là del capitalismo, della sofferenza dei lavoratori e dell’avidità dei capitalisti, sei d’accordo che nella Storia alcuni prodotti diventano obsoleti, non richiesti e/o non remunerativi e quindi gli imprenditori possono decidere di chiudere?

Nel caso specifico il nostro prodotto non è diventato né obsoleto né non remunerativo. Noi abbiamo fatto scalpore anche perché chiudendo la nostra fabbrica i responsabili della vicenda hanno fatto un disastro industriale e capitalistico, come tante e tanti hanno avuto modo di vedere attraverso gli studi che sono stati fatti. Il semiasse è un prodotto che, ad oggi, va anche sulle cosiddette auto elettriche, fino a prova contraria. Detto questo, non soltanto io penso che alcuni prodotti possano diventare obsoleti, io penso che alcuni prodotti debbano diventare obsoleti (come ad esempio nel caso di tutta l’industria bellica).

Il punto è invece che (soprattutto nel caso in cui non si tratta di qualche piccola officina che per qualche ragione familiare dell’imprenditore che la possiede fallisce) quando una dismissione coinvolge interi settori sociali che influenzano, volenti o nolenti, lo sviluppo di un mondo – o se non altro di un paese -, la decisione sulla conversione (e sul come farla) deve essere sociale. Di conseguenza non può essere lasciata unicamente alle decisioni dei privati, visto che tra l’altro esiste una distanza ormai abissale tra la concentrazione delle decisioni e della ricchezza e invece decine di migliaia di persone, territori, che vengono influenzate da quelle decisioni.

Quindi il tema è che ci sono alcune industrie che un certo punto devono essere riconvertite, ma proprio perché è un fatto sociale, questo fatto sociale va accompagnato con un lavoro di pianificazione sociale.



Come ti piacerebbe che chiudessero le aziende? C’è un modo più giusto di quello che state vivendo voi?

Una transizione industriale rischia di essere un’enorme spreco di risorse, di competenze, di tempo. Questo perché dentro un’industria, dentro un’impresa, dentro un’attività umana, c’è tutto il tempo accumulato precedente.

Di conseguenza, la decisione di chiudere un’azienda o un’impresa (ovviamente, non stiamo parlando della merceria dietro l’angolo, che merita comunque tutto il nostro rispetto, ma ha una dimensione numericamente e socialmente irrilevante per il tema in questione) considerando il suo peso specifico, deve essere presa insieme alla società.

Uno dei criteri principali per effettuare una transizione è quello di garantire che questa avvenga cercando di preservare il massimo delle competenze e delle risorse, ovvero cercando di evitare che tutto ciò che si è fatto fino a quel momento venga sprecato. Se guardiamo per esempio al quartiere dove si trova GKN vediamo una fabbrica dell’automotive (noi), mentre invece dall’altra parte della strada c’è il più grosso centro commerciale della Toscana, e di fianco un’enorme multisala. Quest’ultimo era uno spazio verde: qua agli inizi degli anni Novanta, quindi non chissà quando, in nome del lavoro si è distrutto il polmone verde di un territorio. Oggi non è possibile distruggere questi agglomerati produttivo-commerciali, se non con decisioni politicamente e socialmente ordinate che magari li sostituiscano con qualcosa di più avanzato; qualsiasi altra cosa sarebbe puro spreco anche dal punto di vista economico, non solo sociale.



Nel documentario su di voi fatto da Filippo Maria e Lorenzo Gori “E tu come stai?” a un certo punto dici una frase molto suggestiva: “i posti di lavoro appartengono al territorio”. L’idea che ci sia un legame tra lo spazio fisico e il lavoro, che la difesa di un territorio debba passare per la difesa dei suoi posti di lavoro, che il lavoro non possa essere spostato da un posto all’altro a piacimento, è uno degli argomenti più efficaci contro la delocalizzazione. Puoi approfondire questo concetto?

In realtà anche in questo caso io penso che sia giusto partire da come già oggi funziona l’economia: se esistono dei distretti, se esistono delle concentrazioni di competenze in alcuni luoghi, è perché alcuni territori producono una divisione del lavoro (non sempre giusta), cioè hanno creato socialmente una propensione a certi lavori.

E quindi sì, la presenza di un posto di lavoro sul territorio è il risultato di un processo sociale e anche storico. E come tale quel posto di lavoro che io mi sono ritrovato ad occupare – in quanto operaio dell’automotive – si inserisce in una catena che fa sì che prima lì ci fosse la Fiat, poi il passaggio a GKN, e poi infine questo stabilimento con tutte le competenze attorno.

Io, come individuo, probabilmente troverò un altro lavoro (migliore o peggiore, non lo so), ma questo lavoro sarà sottratto a qualcun altro, mentre il lavoro che io ho perduto verrà perso e disperso. Oltre a questo, il posto di lavoro è anche una storia, ed è una comunità, un contratto. Dentro il mio posto di lavoro ci sono sessanta o settant’anni di diritti, di contratti, di accordistiche, di abitudini sedimentate, negative ma anche positive. Bruciare un posto di lavoro vuol dire quindi bruciare anche quella storia.

Un posto di lavoro è spesso anche un agglomerato di diritti, e quindi in questo caso quello che si sta distruggendo non è solo una competenza tecnica, ma anche un insieme di diritti che questo territorio non si ritroverà più: si tratta della distruzione violenta di una storia. Poi per il resto i posti lavoro, così come le produzioni, si possono certamente muovere su scala internazionale; bisogna vedere però se si muovono per dare vita a una divisione del lavoro internazionale più armoniosa, o se si muovono per abbattere il costo del lavoro – e quindi per ragioni di mera massimizzazione del profitto, condotta attraverso la chiusura e l’apertura di aziende come scatole.

Magari oggi c’è un altro polmone verde da qualche altra parte, ad esempio in Polonia, che viene distrutto per creare un’altra GKN, cioè per ricreare da zero le stesse identiche competenze – migliori o peggiori, non importa – salvo poi spostarsi nuovamente altrove, come cavallette. Quindi il tema non è tanto quello di agire sul piano internazionale nel cambiare la divisione del lavoro [il che sarebbe al momento irrealistico], quanto piuttosto: quali siano i criteri che guidano questi eventuali cambiamenti.



Ti sei soffermato molto sulla necessità di far convergere le lotte. Dove avete potuto, avete sempre cercato di coinvolgere le piccole realtà territoriali. L’ultimo movimento in grado di far convergere le lotte fu quello No Global. Come tutti sanno quel movimento è stato sconfitto in un paio di giorni, lasciando dietro sé il deserto: dopo Genova non ci sono più state le forze collettive per la ricostruzione di un movimento politico altrettanto forte, intelligente e trasversale. Cosa è cambiato in Italia dopo il G8? Credi che possa nascere un movimento di ampio respiro dopo Genova? Pensi che quel trauma collettivo sia guarito? Se faccio bene i conti tu nel 2001 avevi 23 anni, cioè l’età perfetta per essere uno di quelli che stava a Genova. C’eri anche tu? Se non c’eri, puoi raccontarci che facevi nel frattempo?

Sì, a ventitré anni ero a Genova, e tra l’altro il 21 luglio è il mio compleanno, quindi c’ero e festeggiavo in piena manifestazione. Ora, a parte questo dettaglio secondario, la risposta contiene due parti. La prima parte sulla relazione tra noi e Genova, la seconda parte invece sulla valutazione a sé stante su Genova. Per quanto riguarda la relazione tra noi e Genova direi che si tratta di una relazione assai impropria, poiché ci sono alcune differenze rilevanti: in primo luogo lì c’era un movimento partito con degli obiettivi; in secondo luogo il movimento No Global ebbe una propria parabola. Quello che abbiamo fatto noi, invece, è stato il risultato di una lotta che doveva ogni giorno vivere o morire. Noi siamo prima di tutto il risultato di una reazione a un attacco e, a differenza del movimento No Global, in realtà non abbiamo teorizzato granché; semmai abbiamo cercato, dopo essere stati attaccati, di “accompagnare” quello che stava accadendo con una teoria e una lotta. In altre parole: noi siamo entrati in fabbrica il 9 luglio 2001 e, per dirla con il nostro gergo, siamo insorti. Ma immediatamente è insorto anche il territorio intorno a noi, c’è stata una convergenza immediata: circoli ARCI, parrocchie, centri sociali. Poi a un certo punto ci siamo resi conto che questa convergenza era proprio uno strumento fondamentale della lotta, e che non si trattava solo di un elemento casuale. Come è stato ben detto una volta in assemblea, siamo passati dalla coincidenza che quel fatto era avvenuto, alla convergenza. Ci siamo cioè resi conto che questa convergenza di forze fosse l’unico modo per reggere lo scontro e migliorare noi stessi fino al punto di essere in grado di cambiare i rapporti di forza attorno a noi. In sintesi, noi non siamo nati con un piano a monte, noi siamo nati con una serie di strumenti, come il collettivo di fabbrica e i delegati di raccordo, che non avevano messo in conto che una multinazionale ci avrebbe chiuso, né che lo avrebbe fatto proprio con quel metodo, cioè il licenziamento improvviso tramite e-mail.

Il resto di quello che abbiamo fatto è stato accompagnare un processo spontaneo e poi provare a trarre alcune conseguenze e alcuni insegnamenti. Per tornare alla domanda, quindi, quello che può fare la singola fabbrica è un processo molto diverso (anche per dimensioni) dallo sviluppo di un movimento generale.

Ciò detto, passiamo alla valutazione su Genova, che deve necessariamente essere più articolata. Io c’ero e non penso che quel movimento sia stato sconfitto in un paio di giorni. Quel movimento è stato sconfitto, come tutti i movimenti, con un mix di repressione e di burocratizzazione. Io credo che in quel movimento ci sia stato un recupero di forze che però non sono riuscite (anche per via di alcuni limiti nelle loro posizioni) a evitare che quel movimento fosse trascinato nelle secche del centrosinistra degli anni successivi, tra il 2006 e il 2008. Credo che sia stata quella la tomba definitiva del movimento, che ha fatto sì, tra l’altro, che la crisi del 2008 fosse una crisi devastante soprattutto per la forza lavoro (se mi ricordo bene, il settore metalmeccanico perse circa settecentomila posti di lavoro). Questa crisi avvenne nel momento di massimo distacco tra le organizzazioni di sinistra e le organizzazioni sindacali da un lato, e le lavoratrici e i lavoratori dall’altro. Quello shock diede vita sostanzialmente a un fuggi fuggi individuale, e non invece a una risposta collettiva: fu quello il completamento del trauma. Bisogna dire però che ci sono stati alcuni momenti che hanno controbilanciato questo trauma; penso al movimento studentesco dell’Onda, nel 2008, penso al caso Marchionne nel 2010. Ogni volta però è mancata la capacità di tramutare questi elementi in una “controffensiva”, e questo ha fatto sì che le successive crisi in Italia non abbiano coinciso con la presenza di organizzazioni collettive in grado di depositare coscienza e consapevolezza (a dispetto del fatto che invece queste stesse organizzazioni, tra cui la CGIL, sono in grado di riempire una piazza). È come se si fosse interrotta la trasmissione di memoria storica, cosa che ha trasformato il nostro paese nel fanalino di coda delle mobilitazioni sociali dell’Europa occidentale, come dimostrano oggi i fatti di Francia e Gran Bretagna, ma anche in parte di Germania e Spagna.

Non è facile dire quando questo processo si invertirà, però possiamo dire che è proprio questo processo che ha fatto sì che una fabbrica che porta avanti una lotta radicale sia stata costretta, suo malgrado, a supplire all’assenza di questo movimento generale: non è qualcosa che noi abbiamo cercato, bensì è proprio questa assenza che ha fatto sì che GKN dovesse prendere su di sé, volontariamente o involontariamente, tante, troppe funzioni che in realtà dovevano essere quelle di un movimento più generale.



Nel documento sul piano di riconversione del 2022, scrivi: “ io non sono nazionalista, però è un dato di fatto che l’industria che sta tirando è un’industria di trasformazione verso la Germania, la Francia, eccetera. E penso che se a un certo punto non si pone questo problema, e non lo si pone da un punto di vista progressista, sì qualcuno a un certo punto inizierà a fare il nazionalista in questo paese, e un nazionalista straccione perché questo Paese conosce solo un nazionalismo straccione, ammesso che esista un’altra forma di nazionalismo”. Puoi spiegarci in che modo si può essere nazionalisti senza fare concessioni alle destre, e perché è necessario un nazionalismo “minimo” per la tutela del lavoro?

Quando ho riletto questa citazione qualche giorno fa non mi ricordavo di aver detto queste parole, però mi sono piaciute quindi va bene (ogni tanto il me del passato mi pare più lucido del me del presente). Peraltro questo concetto si sposa perfettamente con il governo che abbiamo ora, che ha trasformato il ministero dello sviluppo economico nel ministero del ministero “Made in Italy”. In realtà il piano di ripartenza attuale della GKN, almeno sulla carta, è ciò che di più sovranista si possa immaginare, perché parla esattamente di autonomia energetica, di produzione di pannelli fotovoltaici a chilometro zero con filiera totalmente europea (italo-tedesca) ma con lo stabilimento qua in Italia, per l’appunto. Quindi un ministro del made in Italy dovrebbe correre qua da noi, ma ovviamente, come dicevo, quello dell’attuale governo è un nazionalismo solo sulla carta, quindi un nazionalismo solo “straccione”, che è quello che oggi prova a rallentare la transizione all’auto elettrica, senza però pianificare una grande industria italiana dell’automotive (che sarebbe qualcosa di altamente discutibile, ma quantomeno tornerebbe da un punto di vista logico). Qui parliamo del fatto che il governo si prende la briga di rallentare la transizione all’auto elettrica a livello europeo… per fare un favore a Stellantis. Tutto ciò è ovviamente ciò che di più lontano esista da un concetto di sovranità produttiva.

È chiaro che la divisione del lavoro internazionale esiste, e che questa divisione del lavoro internazionale oggi consiste in una forma di imposizione della propria agenda da parte di chi è più forte sul mercato su chi è più debole. Nel nostro caso siamo più deboli rispetto ad altri capitalismi, e siamo più forti rispetto ad altri capitalismi. Quindi vorrei che fosse chiaro che noi lo subiamo, ma a nostra volta lo imponiamo ad altri. Nel momento in cui c’è questa imposizione, diventa chiarissimo come alcune scelte che i territori subiscono siano scelte di imposizione da parte di qualcuno che è più forte. E qui si vede bene come il nazionalismo ‘dominante’ – essendo un nazionalismo che si basa sui funzionamenti attuali dell’economia – è semplicemente pura demagogia, dal momento che non fa davvero gli interessi dei territori. D’altronde nella Storia abbiamo assistito a tantissimi episodi in cui le classi dominanti di un paese si sono svendute ad altre classi dominanti di altri paesi piuttosto che abbracciare le sorti progressive del proprio paese.

È chiaro che a livello europeo è in corso da tempo un processo di unificazione, dove i capitalismi più forti si mangiano piano piano le zone economicamente più deboli: questo spiega perché da questo processo non stia emergendo una divisione del lavoro internazionale armoniosa, bensì piuttosto il contrario.

Se questo meccanismo non viene posto come problema, è chiaro che prima o poi qualcuno lo rifiuterà, e lo farà su base nazionalista. Questo costituirebbe un doppio problema, da un lato perché io personalmente non credo nel nazionalismo, e dall’altro perché in realtà chiunque cercherà di contrastare quel meccanismo su base nazionalista, molto probabilmente farà solo pura e semplice demagogia. Avremmo insomma il caso di un nazionalismo usato come veleno per imporre una politica ancora più reazionaria, ancora più conservatrice, senza in realtà nemmeno veramente perseguire l’obiettivo della difesa di un territorio.



“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.” L’articolo n. 1 della costituzione è obsoleto? Che ne pensi del reddito di cittadinanza?

Sulla costituzione io abbraccio la definizione classica [di Piero Calamandrei, ndr] che c’è una rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata. Non penso che il tema sia se questo o quell’articolo siano obsoleti, direi piuttosto che ci sono articoli rispettati e articoli non rispettati. Gli articoli rispettati sono quelli che attengono alla forma sociale della Repubblica, che è una forma dove domina il mercato, gli articoli non rispettati sono quelli che attengono a tutto ciò che avrebbero dovuto essere, in teoria, i contro-bilanciamenti dentro al mercato, che poi sono stati in grossa parte disattesi.

Si può dire obsoleta la nostra costituzione nel senso che ovviamente, più che abolirli, tanti termini andrebbero scritti: ad esempio, dire che la repubblica è fondata sul lavoro non è del tutto vero. Certo, la maggioranza della popolazione effettivamente lavora, ma qual è il contenuto del lavoro che fa, sia in termini di diritti sia in termini di produzione? Viviamo ormai un mondo dove non sai se sia meglio morire di assenza di lavoro o di presenza di lavoro, che vuol dire di solito monetizzare la salute, il riposo e la capacità di sviluppo armoniosa della persona.

Il reddito di cittadinanza ha senso nella misura in cui, secondo le concezioni classiche con cui da sempre si prova a chiedere salario per i disoccupati, questo serve a limitare il numero di persone che devono a qualsiasi costo accedere un posto di lavoro, e quindi è nell’interesse di chi invece il lavoro ce l’ha – e magari ce l’ha anche sindacalizzato o a tempo indeterminato – difendere questa misura, per cercare di diminuire la pressione da parte delle fasce inoccupate, cioè quelli che accetterebbero un lavoro anche alle peggiori condizioni.

In ogni caso il reddito di cittadinanza, per come è stato pensato, è una misura assolutamente insufficiente, dal momento che non doveva avere (e infatti non ha) le caratteristiche minime per inibire la concorrenza dei disoccupati verso chi lavora. In maniera veramente incredibile, e contro la mia previsione personale, anche una misura così insufficiente come il reddito cittadinanza ha dato fastidio a Confindustria. E ha dato fastidio non per quello che dicono loro: non è affatto credibile, dal punto di vista economico, che il reddito di cittadinanza inibisca l’accesso delle persone alla filiera del turismo eccetera. Se oggi in quei settori manca manodopera è per lo shock dovuto alla pandemia, e poi per il fatto che ormai l’offerta di lavoro, l’offerta salariale ai lavoratori è talmente bassa che inizia a convenire stare a casa e praticare welfare familiare.

Per esempio, tante volte si dice che il lavoratore non accetta lo stipendio perché è basso; ma non c’è solo questo: è che oggi per una persona avere un anziano cui badare o un figlio da crescere già vuol dire dovere smettere lavorare; se poi ci metti il costo della benzina e dell’asilo nido, etc., ci si rende conto che, facendo un calcolo economico con il foglio davanti, conviene di più non lavorare. Ci sono tanti fattori che oggi hanno determinato questo stato di cose, compreso il fatto che, avendo lasciato più o meno un milione di lavoratori a casa durante la pandemia senza alcun tipo di assistenza, ora quelle stesse persone ci pensano due volte prima di rientrare in quella fiera produttiva; non per ripicca, ma perché hanno avuto la prova che si tratta di un lavoro insicuro e che non regge al minimo impatto.

Tornando al punto: nel momento in cui esiste una parte di forza lavoro forzatamente inoccupata, esiste anche il diritto di utilizzare la fiscalità generale per evitare da un lato che ci siano persone che cadono in povertà assoluta, e per evitare forme di ricatto sul terreno del lavoro dall’altro lato. Non credo che il reddito di cittadinanza abbia questa forza, ma proprio per questo è stupefacente pensare come una misura ancora così largamente insufficiente sia stata interpretata dalla Confindustria di questo paese come una provocazione.



Insieme alle altre cose di cui abbiamo parlato, siete riusciti a creare il primo festival di letteratura working class, il cui motto è “la classe operaia scrive la sua storia”. Nel tuo intervento conclusivo hai detto che tra gli operai si tramandava, di generazione in generazione, un grande racconto orale. Di solito, quando si compie il passaggio dall’oralità alla scrittura nasce una civiltà. Pensi che questo sia l’inizio di una nuova stagione di coscienza di classe? In cosa consiste il punto di vista operaio sul mondo? Pensi che il mondo editoriale italiano sia pronto per accogliere questo esperimento?

Sicuramente l’esistenza di questa enorme tradizione orale, la cui continuità e la cui sopravvivenza viene minacciata dalla precarietà, dagli appalti, dai licenziamenti, dal luogo di lavoro diventato un semplice elemento di passaggio, è la base affinché un domani tutto questo possa anche essere messo per iscritto.

Io non so se queste cose che stanno accadendo in GKN siano sufficienti a dire che si è aperta una nuova stagione; so però che quello che è accaduto è un fatto, e che questo fatto è esistito: se anche la lotta dovesse distrutta o dovesse cessare domattina, quello che è successo è un fatto ormai storico. È difficile prevedere se in futuro si dirà che quanto accaduto in questi giorni sia qualcosa che potrà essere generalizzato, magari tra un anno o tra dieci anni. A volte nella storia capitano periodi come questi: noi ad esempio interpretiamo oggi alcune delle lotte tra il ’60 e il ’65 come i prodromi del Sessantotto. Ma lo possiamo fare oggi, a posteriori, mentre al presente è difficile giudicare quello che stiamo vivendo in GKN (anche per via dell’intensità di come la si vive all’interno). Secondo me però qualcosa sta accadendo; certamente abbiamo fatto tanta fatica ad arrivare fin qua, ma c’è stata anche tanta naturalezza delle persone attorno a questa convergenza di cui parlavamo: si è visto proprio che c’era un paese sotterraneo che cercava questo, che vuole questo tipo di lotta e di conflitto. In ogni caso, però, dire quanto manca tra la rondine e la primavera resta qualcosa che mi è difficile da stabilire.

Per quanto riguarda il mondo editoriale, se è pronto a questo esperimento oppure no, io direi di no, almeno il mondo editoriale classico. Probabilmente proseguirà nel suo distacco dalla realtà, spesso anche con elementi di crisi ricorrenti.

Eppure, allo stesso tempo, quello cui abbiamo assistito è una massificazione del lavoro di scrittore, dal momento che oggi pubblicare un libro è relativamente più semplice di un tempo – dal punto di vista tecnico – e di conseguenza lo scrittore, l’artista, si considerano sempre più spesso lavoratori e lavoratrici del settore (e non qualcosa di alieno rispetto alla figura del lavoratore). Eppure mi sembra di vedere che esiste – e si è assestata – una rete potenziale di piccole case editrici, di piccole case distribuzione, di piccole librerie, che costituisce la base per rendere possibile quello che stiamo facendo. La letteratura working class non è semplicemente un operaio che scrive un romanzo – magari scritto particolarmente bene, stile “uno su mille ce la fa” – bensì una rete. Noi ci auguriamo che sia una capacità di narrazione collettiva, e una narrazione collettiva ha bisogno di una scuola, di narrazioni, di una scuola di scrittura, di una distribuzione collettiva. Ed è un dato di fatto che anche da questo punto di vista il festival è riuscito oltre ogni rosea aspettativa. Quindi, per tornare alla domanda, non credo che il nostro festival abbia nessuna possibilità di influenzare il grande mondo editoriale, ma credo che ci sia un movimento potenziale che si muove in linea rispetto all’idea di letteratura working class.



Sei il capo del governo, anzi sei una persona che ha completamente carta bianca sulla vicenda GKN: quali decisioni prendi? Come risolvi la vicenda?

Innanzitutto, un governo che fosse in grado di risolvere il problema di GKN sarebbe un governo completamente diverso dall’idea di governo che abbiamo noi oggi. Nessun capo di governo sarà mai in grado di risolvere un problema del genere se non basandosi su una rete diffusa di competenze e su una struttura efficiente, democratica, partecipativa, diffusa. Detto ciò posso dire che cosa andrebbe fatto secondo me: per prima cosa ci vorrebbe un pool di tecnici (di università pubbliche possibilmente) che, unitamente all’assemblea dei lavoratori venga qui e studi lo stabilimento – assicurandosi che nessun soldo pubblico venga sprecato, e produca un piano credibile. Sulla base di questo piano, i soggetti in questione dovrebbero proporre poi l’acquisto pubblico dello stabilimento, e infine dovrebbero mettere in pratica il piano attraverso investimenti pubblici.

Nel nostro caso, se dovessimo partire oggi, la cosa più semplice sarebbe studiare tutto il settore dell’automotive (quello in dismissione e non solo), studiare la possibilità della sua conversione alla produzione di mezzi pubblici, studiare la mobilità sostenibile, e quindi (a proposito di scelte nazionali) contendere le forze produttive a una multinazionale che si sta evidentemente ritirando dal paese per scelte di profitto privato, valutando correttamente quali fabbriche possano essere convertite, con che modalità e con che sforzo. Tutto ciò, ribadisco, cercando di non sprecare nemmeno una risorsa pubblica. Se questo caso (la riconversione verso mezzi pubblici) fosse verificato come “non possibile”, la proprietà pubblica dello stabilimento dovrebbe in ogni caso garantire la conversione dello stabilimento alle tecnologie più ecologicamente avanzate e sostenibili. Però, al contempo, lasciando sempre la possibilità di controllo, decisione, interazione dialettica ad assemblee territoriali, alle università territoriali, e ovviamente all’assemblea della lavoratrici e dei lavoratori.

Io credo che questa sarebbe la cosa migliore per evitare anche un euro di spreco. Noi abbiamo calcolato che il nostro piano industriale ( un piano industriale che sarebbe molto più dispendioso – anche in termini di energia e fatica – se fosse fatto direttamente con soldi pubblici) produrrà in dieci anni un gettito fiscale di cinquanta milioni di euro, a partire da un investimento di circa venticinque milioni di euro: noi stiamo proponendo un guadagno al pubblico. La prima proposta che noi vorremmo mettere sul tavolo si basa su un calcolo di investimento di ventisei milioni di euro: uno Stato risolverebbe questa cosa in cinque minuti. Ovviamente senza nessun decreto dall’alto ma, ripeto, avendo delle reti partecipative strutturate che aggrediscono la transizione industriale e quindi, di nuovo, tramite il territorio: università, scuole, assemblee comunali che, laddove si trovino in prossimità di zone industriali, siano già pronte a intervenire e, di concerto con chi ci lavora, siano in grado di portare avanti queste transizioni.

In conclusione, credo che se fossi il capo del governo trasferirei un’azienda che viene delocalizzata alla proprietà pubblica, con l’obiettivo di rilanciarla.



Cosa ti piacerebbe che restasse di questa esperienza tra 20 o 50 anni? Oltre a dei bei momenti di piazza, dei bei momenti individuali, c’è qualcosa che credi sia giusto venga studiato in futuro? E chi sono i soggetti che dovrebbero studiare questa storia, che dovrebbero farne tesoro?

Allora, io credo che rimarranno tante cose. La durata della mobilitazione, le sue caratteristiche, le parole d’ordine, il documentario che abbiamo citato prima: queste sono tutte cose che oggettivamente rimarranno. Non so quanto e in che misura rimarranno, ma so che chi vorrà accedervi potrà farlo. A me personalmente la cosa che più preoccupa (ma credo sia abbastanza inevitabile) è che nel raccontare una mobilitazione a lunga distanza nel tempo si tende a idealizzarla, e dentro questa idealizzazione io temo che rimangano soltanto delle grosse conclusioni generali.

Noi, bene o male, siamo stati un esperimento sociale, e io penso che la forza di quello che è accaduto (al di là delle convinzioni del sottoscritto, al di là della RSU e del collettivo di fabbrica) sia il fatto che ognuno è stato messo alla prova e alla verifica di un fatto storico, magari piccolo, ma pur sempre un fatto storico. E in questo esperimento sociale si sono viste cose che oggettivamente non è facile vedere tutti i giorni: il passaggio da una gerarchia verticale a una gerarchia auto-organizzata, quindi democratica. Un’altra cosa a cui abbiamo assistito è il problema della routine, che poi è lo stesso problema del come la coppia monogamica reagisce a un avvenimento che sconvolge, che crea fluidità nei rapporti tra le persone. Di quanto, a volte, non siamo crollati sotto il peso delle difficoltà economiche, bensì sotto il peso delle difficoltà a casa, delle nostre difficoltà umane. Di questa storia si potrebbe raccontare, ad esempio, di come un collettivo di fabbrica contasse l’8 luglio sera 40 o 50 persone, mentre il 9 luglio mattina l’intera fabbrica si definiva “collettivo di fabbrica”.

Si potrebbe raccontare di come un lavoratore, pur mantenendo una coscienza di classe diseguale (quindi con i propri pregiudizi politici, o con l’assenza di propri pregiudizi politici) abbia retto, nella concretezza della lotta, una convergenza con i movimenti ambientalisti, transfemministi, e con altre lotte. Questo è proprio il fatto che a noi, che non l’abbiamo mai vissuto, ci sfugge: cioè come è possibile che a un certo punto in alcuni paesi avvengono delle rivoluzioni che spingono quel paese all’avanguardia della storia, un’avanguardia fatta da contadini o operai qualsiasi, che magari non sanno né leggere né scrivere, e che magari non saprebbero nemmeno spiegare fino in fondo che cosa stanno facendo. Ecco, io credo che, almeno in piccolo, noi questo lo abbiamo fatto, l’abbiamo visto e contemporaneamente potremmo raccontare di quanto sia complesso il cambiamento.

Le conseguenze dell’evento traumatico non sono solo quelle relative a una piattaforma economico-sociale, a una rivendicazione che tu porti a un tavolo, ma riguardano il fatto che ad esempio, soprattutto nel momento in cui è arrivata la nuova proprietà, c’erano colleghi che entravano la fabbrica per abitudine a fare il proprio turno, aspettando gli ordini da una proprietà che invece non glieli dava. O ancora come le famiglie sono entrate nella prima fase di lotta, e di come alla fine tanti hanno lasciato non tanto per lo scontro frontale con il capitale (cioè non per lo scontro con la proprietà che ti convince delle sue ragioni), ma per il capitale che ti porti dentro, ovvero quella serie di abitudini, di credenze diffuse, che fondamentalmente alla fine non ti fanno pensare al fatto che avevi un’occasione storica di vita. Non si è trattato solo di un’occasione unica solo dal punto di vista economico-sociale, ma di qualcosa di completamente diverso. Ecco io vorrei che un domani fosse raccontato questo. Perché poi di scioperi, picchetti, mobilitazioni, richieste di salario nei posti di lavoro ce ne saranno tante, così come ce ne sono state tante prima di quella del nostro luglio. Però questo livello di sperimentazione sociale io non avevo mai avuto l’occasione di vederlo.



Puoi spiegare meglio perché ti preoccupa l’idealizzazione della vostra vicenda?

Perché non serve a nessuno. Entro certi limiti le mobilitazioni e la spinta al cambiamento si basano sull’entusiasmo. E l’entusiasmo ha bisogno anche di semplificazioni. Così in ogni cosa, anche nell’innamoramento, ad esempio, si tratta sempre della semplificazione dell’altra persona. Quindi esiste l’innamoramento – del quale non si può fare a meno perché altrimenti diventa tutto grigio – però fondamentalmente l’idealizzazione non serve a noi perché non aiuta capire veramente quello che sta accadendo; e va bene che ci sia la valorizzazione di quello che siamo, di quello che abbiamo fatto, però la lotta ha bisogno anche di tanta sobrietà, dal momento che siamo qua per risolvere i problemi, e non per negarli; e la prima caratteristica per risolvere un problema è quello di nominarlo ad alta voce.



Da dove viene la tua preparazione? Chi è stato il tuo maestro? C’è qualcuno che ti ha educato alla politica, oppure è stata l’esperienza in fabbrica e i tuoi compagni che ti hanno insegnato la prassi della lotta sindacale?

Finché non sono entrato in fabbrica, nella mia mente ‘fare sindacato’ voleva dire fare una serie di richieste al datore di lavoro, punto. Invece quando sono entrato qua mi ha stupito la quantità di ore che i lavoratori passavano a discutere di come si lavorasse male, o del fatto che alla macchina mancasse la manutenzione, che i dirigenti fossero incapaci nel fare questo e quest’altro. Lì per lì ho scambiato questo atteggiamento per aziendalismo. Nel corso del tempo invece mi sono reso conto che lì c’era proprio la capacità e la volontà di prendersi cura della fabbrica, della produzione, che poi in realtà è proprio uno dei semi che ci ha permesso di fare questi venti mesi di mobilitazione. In generale, non ritengo di avere maestri.



Da quanto tempo lavori nella GKN? Hai lavorato in altre aziende prima?

Lavoro in GKN dal 2013, prima ho lavorato come magazziniere precario alla Ferragamo, un’azienda di moda. Prima ancora ho avuto varie esperienze nella metalmeccanica, ma mi sono preso anche dei periodi di stacco dal lavoro dipendente per tentare di essere lavoratore autonomo. Quello che posso dire è che tutte le volte che mi sono trovato in grossi agglomerati produttivi mi sono stupito di vedere il processo produttivo scomposto nelle sue fasi. Vedere la fibbia di una borsa per Gucci nella sua forma grezza (ho lavorato anche in un’azienda che faceva proprio questo) e riuscire a scomporre il processo produttivo ti permette davvero di apprezzare la sua complessità e di smontare le mistificazioni attorno a esso. Ti dà un metodo mentale in cui anche se non conosci tutti i processi dietro le altre produzioni, immagini come siano scomponibili. Dietro un’auto, piano piano, vedi 20.000 componenti, e dietro quei 20.000 componenti vedi le aziende. Per ogni gommino di un’auto in realtà c’è una linea di produzione, quella linea ha un manutentore, etc. Per arrivare a fare quel gommino in serie c’è una filiera dietro, c’è chi produce le macchine che poi producono il gommino. Quindi credo che la cosa bella di lavorare in grosse realtà, in grossi agglomerati (soprattutto di natura industriale), sia proprio questa possibilità di assistere alla scomposizione del processo economico-produttivo, o almeno di immaginarselo in tutti i suoi passaggi.



Che ruolo credi abbia il carisma individuale nella lotta di classe e più in generale nella storia?

Penso che le condizioni oggettive aiutino a definire che cos’è e che cosa non è il carisma, e che quindi questa idea non esista in maniera astratta. Per esempio, ricordo che quando siamo rientrati in fabbrica, quella frase “Tu come stai?” (che poi è stata ripresa nel libro e nel film) uno potrebbe interpretarla come parte di un discorso carismatico che a un certo punto, salta fuori dal nulla. Io invece di quelle ore ricordo una grande pace dei sensi: improvvisamente eri messo di fronte al fatto che la tua azienda non esisteva più, che da lì a 70 giorni probabilmente saremmo stati tutti licenziati, saremmo crollati, e questa consapevolezza aiutava veramente a ragionare lucidamente su cosa dire, su come e quando dirlo, e quella sensazione in questi 20 mesi non mi è capitato tante volte di provarla.

Quindi, se qualcuno mi chiedesse come mai proprio quel discorso ancora oggi viene citato, non è perché c’era stato qualcuno particolarmente carismatico che l’ha fatto, ma perché era semplicemente il frutto di quello che si respirava nell’aria in quel momento. Io, oggi, quel discorso non lo saprei rifare.

Allo stesso modo, al Festival della letteratura working class c’era un elettricità incredibile. Quando ho fatto il discorso di chiusura non mi ero preparato nulla, sono salito sul palco e mentre parlavo mi è sembrato di essere anche parecchio confuso, eppure quando sono sceso c’erano le persone in lacrime. La verità è che ciò che ci appare come carisma, per il 95% è dovuto alle condizioni oggettive, e solo per il 5% alla persona che si trova a essere lì.



Raccontaci del collettivo degli operai GKN: Qual è la sua genesi? Come descriveresti le vostre riunioni dall’interno, e come mai nella vostra fabbrica è nato un simile collettivo e nelle altre no?

Il Collettivo di fabbrica GKN nasce ufficialmente nel 2018 ed è il risultato di un processo, di quel famoso “colpo di coda” di burocratizzazione dei movimenti sociali. Siamo alla fine degli anni ‘10 e a fronte di un peggioramento delle condizioni di lavoro, risultato del modello Marchionne – che allora non esisteva, non si sapeva ancora come chiamarlo, ma che fondamentalmente apriva le turnazioni su tutta la settimana e presentava anche novità su TFR e fondi pensione – la reazione di un pezzo della direzione sindacale, o meglio della “burocrazia sindacale”, fu quello di inventarsi dei finti allarmi terrorismo dentro i luoghi di lavoro. GKN fu un caso di questi perché di fronte a una crescente contestazione interna, che in condizioni normali poteva tranquillamente esprimersi in un paio di assemblee un po’ più vivaci, fu inventata di sana pianta l’esistenza di una “cellula brigatista” dentro GKN. Questo evento ruppe qualsiasi tipo di legame di stima ed empatia tra i lavoratori e la struttura sindacale.

Fu una vicenda drammatica e surreale allo stesso tempo. A quel punto il potere in fabbrica, se si può usare questa espressione, lo presero “quelli della curva”, cioè i giovani o ex-giovani, che erano radicali ma anche molto confusi, e che scompaginavano completamente le modalità di fare sindacato. Questo in un contesto dove comunque le tradizioni sindacali esistevano e si tramandavano. Pur sotto la cappa burocratica in cui si erano fossilizzate, quelle basi rimanevano (ad es. l’idea che dovesse esserci un consiglio di fabbrica, che dovesse essere democratico e qualsiasi cosa si fa si vota in assemblea, etc.) e adesso arrivavano in eredità ad una nuova classe sindacale che di tutta quella eredità non sapeva bene cosa farsene. Da lì in poi inizia un processo molto lungo, perché un conto è sapere cosa rifiuti, e un conto è sapere cosa vuoi; eppure abbiamo sempre cercato di creare organismi in cui ci fosse la partecipazione attiva dei membri, cioè che si superasse l’idea che far parte del sindacato voglia dire dare una delega passiva a qualcuno ogni tot. anni – semplicemente perché questo meccanismo non funziona. Quindi c’è stata una lunga rincorsa, cercando di passare da un sindacato forte ma passivo – perché appena noi fischiavamo la gente usciva in sciopero, quindi la forza c’era – ad uno più attivo, in cui si potesse anche discutere di una piattaforma, una tattica, non soltanto con il tuo corpo in sciopero ma proprio nella quotidianità del lavoro, alla macchinetta del caffè col collega, capire il legame tra quello che stai facendo e il mondo attorno. Questa è stata una lunga rincorsa fino a che nel 2018, quando arriva il fondo finanziario, capiamo che bisogna accelerare: accelerare nell’immaginario, accelerare nell’ufficializzare che esiste un’altra forma accanto al sindacato tradizionale per essere attivi nella fabbrica: da lì nasce il collettivo.

Io non credo che siamo un caso unico, penso ad altre lotte di questi anni, i call center o tutti quelli che hanno formato un collettivo accanto all’organizzazione del sindacato ufficiale. Forse la nostra peculiarità è stata che mai e poi mai abbiamo contrapposto le due forme: non abbiamo fatto il collettivo senza fare sindacato, e non abbiamo fatto sindacato senza fare il collettivo; abbiamo veramente creato complementarietà tra le forme, più che in altri luoghi dove magari una delle due forme è rimasta marginale.



Hai detto in varie occasioni che è inutile usare un lessico antiquato, che non è un partito quello che voi volete. Senza voler qui aprire un dibattito sul bilancio del Novecento, ti chiedo di dire sei corpi intermedi sono tramontati per sempre e se dunque un soggetto storico in grado di modificare i rapporti in forza debba avere la forma di un collettivo, e in che modo secondo te la forma-collettivo (partecipazione di tutti, assenza o quasi di gerarchie) possa funzionare per organizzazioni di larga scala.

Credo che il lessico e le forme siano parti integranti della lotta, e in una lotta può capitare di dover lasciare la posizione perché non si riesce a tenerla, e tornare su una posizione apparentemente più arretrata. Quindi, se il lessico è antiquato o no non lo stabiliamo noi, ma i rapporti di forza, e c’è un momento in cui un lessico viene conquistato dall’avversario: è quello il momento in cui devi lasciarlo per ripiegare su un altro lessico, magari meno scientifico, meno chiaro, meno rigoroso, ma probabilmente più vivo e più efficace. Non credo che la forma-collettivo sostituisca forme più classiche, semmai ha altri tipi di problemi: per esempio, tornando a come funzionano le nostre riunioni, il collettivo ha il problema di essere una struttura fluida, con i suoi pro e i suoi contro. Una struttura fluida ha un’instabilità intrinseca sui ruoli decisionali, per via del fatto che le persone un giorno ci sono e il giorno dopo possono non esserci, e questo è un limite. D’altronde qui la forma collettivo convive con ogni tipo di struttura: c’è il consiglio RSU, ci sono gli iscritti al sindacato, l’assemblea dei lavoratori, recentemente si è aggiunta anche la Società operaia di mutuo soccorso, e forse domani sarà il turno della cooperativa di produzione. Qui c’è di tutto, in modo stratificato e complementare. Direi che una forma come il collettivo, in un momento in cui le forme classiche sono entrate – e sono tutt’oggi – in crisi sotto il peso della propria burocratizzazione, pone quantomeno l’accento sul fatto che si può fare, si può partecipare, si può discutere qui e ora: questa è la sua grande forza oggi.

Nel mondo studentesco spesso il collettivo ha tolto qualcosa alla capacità organizzativa; tra i lavoratori, invece, l’idea che ci siano delle strutture informali per attivarsi, credo che in questo momento abbia un che di progressivo, a patto che non venga negata la necessità delle strutture esistenti – come i sindacati: almeno su larga scala, non puoi pensare di organizzare in collettivi milioni di lavoratori iscritti. Ma ancora prima di organizzarsi, la primissima, banale cosa da fare è riconoscersi, parlare col tuo collega, la tua collega, magari al bar, al centro sociale di zona. Ad esempio, per noi è stato molto importante il Cantiere Sociale Camilo Cienfuegos, dove la gente della fabbrica andava a prendersi una birra dopo il lavoro, dove molte discussioni sono nate e a un certo punto si sono tramutate in azione, con una forma immediata, fluida, di cui non dovevamo rendere conto a nessuno: beh, soprattutto nella passività media dei luoghi di lavoro, e a tutti i livelli di società dove la politica è stata mangiata dall’elettoralismo, questa spontaneità del collettivo è assolutamente positiva.



Una domanda sui processi decisionali: voi prendete le decisioni a maggioranza oppure, come si usava nei vecchi partiti, per convincimento collettivo graduale?

Tecnicamente la stragrande maggioranza delle nostre decisioni sono prese a maggioranza, nel senso che c’è l’assemblea che vota sia per alzata di mano, sia – in alcuni casi – a scrutinio segreto (che è comunque un voto a maggioranza). Ad ogni modo, quasi sempre quello che succede è che si rasenta l’unanimità, perché si arriva al momento del voto attraverso una continua opera di consenso, di convincimento. Quelli che discutono di una decisione sono anche quelli che la portano avanti, e di conseguenza non avrebbe nessun senso prendere una posizione che non ha il convincimento della stragrande maggioranza delle persone. In questi 20 mesi quello che è cambiato è che il voto generale dell’assemblea è contato sempre di meno rispetto alla decisione delle persone e dei gruppi effettivamente attivi. La lotta ha comportato la necessità di una forte interattività, e dopo un po’ si è creata una distanza tra chi veniva in assemblea una volta ogni tanto, e chi partecipava alla lotta tutti i giorni. Ma è una situazione che è emersa spontaneamente, non perché l’abbia deciso qualcuno.



Un’ultima cosa: nella struttura “fluida” di cui parlavi, ci sono dei ruoli fissi? Cioè, alcune persone hanno dei ruoli fissi oppure anche i ruoli sono intercambiabili?

In venti mesi abbiamo cambiato così tante volte la struttura dei ruoli che è difficile ricostruire tutti i ruoli. Prima del 9 luglio 2021 c’era la RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria) che convocava il collettivo. Il collettivo è una struttura fluida, quindi si riuniva e prendeva decisioni senza bisogno di ruoli: avevamo solo un cassiere, e il ruolo di portavoce del collettivo di fabbrica era la RSU stessa: c’era totale sovrapposizione, i membri della RSU erano tutti anche membri del collettivo.Da quel 9 luglio sono nati nuovi ruoli. Abbiamo avuto bisogno di una “Brigata vettovagliamento”, per dar da mangiare tutti i giorni, e quindi si è creata una struttura ad hoc; i cassieri sono diventati tanti ed è diventata una entità a parte, perché un conto era amministrare 500€ di cassa tirata su con un comunicato (ogni tanto stampavamo degli scaldacollo per comprare qualche megafono e pagarci qualche trasferta), altro conto è una struttura che di fatto amministra migliaia di euro, non solo di donazioni ma anche di spese di autogestione, la mensa, il bar, anche la stessa autogestione della fabbrica. Poi a un certo punto è nata la “Brigata mutualismo”, al cui interno c’è chi si occupa di microcredito e di reindustrializzazione. E’ cambiata anche la struttura di interfaccia con tutti quei movimenti esterni di supporto alla fabbrica. Prima del 9 luglio 2021 c’era già un gruppo di supporto, 7-8 persone che ci aiutavano a sviluppare quelle competenze necessarie che ci mancavano, di grafica, legali, etc. Dopo il 9 luglio, è nato un movimento di solidarietà più ampio che in diversi casi si è dato la struttura di una vera e propria direzione. Altre strutture poi nascono temporaneamente, magari per la preparazione di una manifestazione, e poi vengono sciolte.Insomma, non è facile ricapitolare tutti i dettagli, diciamo che ci sono ruoli precisi che convivono con una grande fluidità, la quale però non va interpretata come anarchia o mancanza di intendimenti organizzativi e di strutturazione. Poi ovviamente ogni tanto capita che l’anarchia ci sia, ma solo perché non sempre la struttura funziona, non perché noi teorizziamo l’anarchia come tale.



Una delle rivendicazioni più interessanti portate avanti dalla vostra battaglia è quella della collettivizzazione della produzione. Una parola d’ordine perfettamente leninista. Ci spieghi come dovrebbe funzionare questa collettivizzazione? Puoi farci degli esempi storici, se te ne vengono in mente, a cui fare riferimento? In un articolo che hai scritto, compare a questo proposito un’espressione efficacissima e potente: “il sapere operaio”. Puoi spiegare meglio questa immagine? Che succede se, una volta che la produzione sarà passata in mano agli operai, non arriveranno più commesse?

La nostra proposta non può essere paragonata alla collettivizzazione, sarebbe forzato sia per quello che diciamo, sia per ciò che la collettivizzazione è in sé. La fabbrica che noi faremo ripartire è una fabbrica capitalistica dentro un sistema capitalista, non c’è discussione su questo. E questo è un problema, perché una struttura cooperativistica di lavoratori che dirige collettivamente una fabbrica, che però è capitalistica, dentro il mercato, che ha accordi con investitori, con banche e con persone che da quella produzione devono far profitto, ovviamente rischia di snaturare a lungo andare la cooperativa, rischia di trasformare la cooperativa solo in un’altra forma di autosfruttamento dove in maniera ancora più subdola finisci tu per importi le cose che prima ti voleva imporre il datore di lavoro. Da un lato è vero che non c’è il datore di lavoro in senso tradizionale, ma dall’altro lato comunque il mercato preme su di te, e quindi c’è il rischio che il meccanismo si trasformi in una specie di autosfruttamento, rischiando di diventare ancora peggiore dello sfruttamento gerarchico classico, perché si carica anche di ipocrisia. Noi semplicemente siamo a questo punto della lotta: abbiamo resistito, il grosso investitore privato non c’è, lo Stato – seppure noi rivendichiamo il suo intervento – non interverrà, forse perché non sa, forse perché non vuole, forse perché non può, forse per tutte e tre le cose insieme. Finché siamo in piedi abbiamo però il compito di indicare cosa faremo: primo, qualsiasi euro venga messo in questa fabbrica la tramuta in una fabbrica socialmente integrata, il significa che deve rispondere al territorio circostante. Anche perché questo è il territorio che ci ha difeso: non le leggi, non lo stato, ma il territorio in tutte le sue forme, politiche, sociali, solidali. In realtà a dirla tutta noi abbiamo già ricevuto una prima forma di intervento pubblico: a me sono stati “nazionalizzati” 10 mesi del precedente anno, poi è stata concessa una cassa integrazione che solleva il soggetto privato a pagare il mio stipendio, poi questi 10 mesi di stipendio del 2022 li ha pagati l’INPS, con una forzatura del Ministero del Lavoro – e quindi ormai sono più un dipendente pubblico che privato. Quindi a questo punto: sì, ci dichiariamo fabbrica pubblica e socialmente integrata. Anche perché non c’è stato un solo soggetto privato che sia venuto qua senza parlare di PNRR, di Invitalia, “poi 10-15 milioni me li dà anche il Ministero”: quindi possiamo dire che la fabbrica pubblica nazionalizzata è già qua, è quella che di fatto già esiste adesso, sotto i nostri occhi, tutti i giorni.Contemporaneamente l’altra idea che lanciamo è che se l’azienda che ci controlla ha 10.000€ di capitale sociale e noi ne abbiamo raccolti 80.000 in 20 giorni, se queste sono le dimensioni, se addirittura Il Sole 24 Ore ha avuto il coraggio di scrivere per ben due volte (poi l’attuale proprietà l’ha smentito) che questo stabilimento è stato comprato ad €1 (cosa parzialmente vera e parzialmente falsa, perché probabilmente ci sono già accordi di rivendita sui 25 milioni che vale lo stabilimento), se già oggi siamo noi a tenerlo in mano, pur essendo preoccupati del passaggio a una cooperativa di produzione dentro il mercato capitalistico… Beh, se questa è la farsa a cui dobbiamo prestarci, allora tanto vale che ci togliamo di dosso la sudditanza psicologica verso gli imprenditori che si comprano lo stabilimento a 1 euro, dimostrando di essere molto più capaci di loro. In questo momento, quindi, ci troviamo di fronte alla possibilità di fare una cooperativa-lavoro con un piano industriale e di contendere palmo a palmo l’azienda; probabilmente l’azienda ci dirà di no, perché lo stabilimento deve essere rivenduto chissà a chi, chissà a quali condizioni. Peraltro noi non abbiamo mai avuto una trattativa commerciale con l’azienda, quindi non sappiamo a quanto ce lo venderebbe, ma siamo qua sempre pronti a ragionarne.



Parliamo di questa cooperativa: ci sono degli esempi storici recenti, magari italiani, a cui fare riferimento oppure no?

Sì e no. Esempi internazionali sicuramente ne esistono di più, basti pensare alle fabbriche recuperate in Argentina, che sono in parte simili al nostro caso in quanto esperienze che si sono determinate sulla base del movimento del 2001. Il movimento è sceso in strada, i padroni delle fabbriche sono andati via senza mai più tornare, e quindi le fabbriche sono state recuperate dai lavoratori. In Europa abbiamo esempi come la FraLib, ex Unilever, che produceva té e che oggi lavora come cooperativa. Fanno un tè che si chiama “1336”, il numero di giorni di occupazione che hanno fatto. In Italia la legge Marcora per l’autorecupero è una legge studiata più per piccole officine, casi in cui il vecchio padrone se ne va e qualche decina di lavoratori si organizza in cooperativa per rilevare l’azienda.

Ma al livello industriale e con le dimensioni di GKN siamo un caso più unico che raro.



Cercando il tuo nome su Google risulta che sei autore di un film su Lorenzo Orsetti: perché lo hai scelto come soggetto? Cosa ti ha colpito della sua storia?

Ho sempre creduto, come vi dicevo, nella capacità di narrazione di classe, e in particolare ho sempre avuto una passione per il cinema italiano neorealista che con pochissimi mezzi tecnici, quasi con l’assenza di pellicola, produceva il cinema da zero prendendo attori direttamente dalla strada. Questa tradizione in Italia, in larga parte ereditata dal documentario, fu (probabilmente, ma non ne sono sicuro) distrutta consapevolmente. All’inizio non lo sapevo, lo studiai qualche anno dopo averla conosciuta: negli Stati Uniti c’era proprio una discussione cinematografica sull’ipotesi di distruggere il cinema neorealista italiano e sostituirlo con qualcos’altro, come poi in effetti è avvenuto. Io ho sempre creduto nella possibilità di fare documentari come la via più semplice – in un mondo che corre per immagini – per narrare quello che succede in un territorio o nei luoghi di lavoro. Però non ho mai pensato di fare a tempo pieno il documentarista professionale, e per varie ragioni ho sempre cercato di farlo continuando a lavorare; quindi mi sono sempre concentrato su soggetti locali, sugli avvenimenti storici che succedevano vicino a me. Uno di questi è stato sui fatti di Piazza Dalmazia, la strage fascista del 2011 a Firenze. Poi una volta, mentre ero di turno, mi arriva il messaggio di un altro delegato sindacale: era morto un ragazzo di Rifredi [quartiere di Firenze, ndr] in Rojava. Io sapevo qualcosa di questa storia perché l’anno prima c’era stata la campagna “da Rifredi ad Afrin”, e sapevo che c’era uno dei nostri laggiù, però non ci avevo mai pensato più di tanto. Invece in quel momento ebbi proprio la sensazione di stare vivendo un fatto drammaticamente storico, perché è una vicenda che ricorda gli anni ‘30, di chi partiva per andare a combattere in Spagna. Ho anche dovuto combattere con il senso di colpa per avere ignorato la vicenda fino a quel momento, per il fatto di starmi occupando di quella vicenda solo perché Lorenzo era morto, era caduto: ero arrivato tardi. Fare quel documentario è stato anche un po’ un modo per esorcizzare questa sensazione di parlare di qualcosa solo perché qualcuno è morto, che è una cosa devastante da un punto di vista concettuale. Al contempo la sua vicenda era una vicenda importante: Lorenzo non era un attivista, Lorenzo era un ragazzo di Rifredi con cui, probabilmente, se lo avessi conosciuto, avrei litigato a morte, ci saremmo scazzati (e anche tanto), e però a un certo lui è stato in grado di turbare, ispirare, influenzare persone non politicizzate. Improvvisamente da “persona che fa casino” dentro gli ambienti di movimento un ragazzo si trasforma in ispirazione per tutti gli ambienti di movimento, il che è incredibile. È incredibile cioè il fatto che lui sia riuscito di fatto a farsi testimone di una causa rivoluzionaria non dentro i circoli militanti e politici classici, ma tra i ragazzacci e le ragazzacce di Rifredi.



Pensi che il capitalismo sia superabile?

Me lo auguro tanto. Non so cosa pensare in realtà, ma me lo auguro tanto. È evidente che le forme alternative al capitalismo pensate finora hanno dimostrato di avere un’inerzia difficile da superare, mentre il capitalismo ha dimostrato invece una spaventevole capacità pervasiva di recupero e di infiltrazione in ogni spazio. So benissimo che oggi il capitalismo è un sistema con i piedi d’argilla, e noi non riusciamo a sfidarlo ai piani alti ma in questa argilla riusciamo forse a modellare qualcosa. Mi pare evidente che è un sistema completamente fuori controllo, da ogni punto di vista. Non so cosa pensare ma il mio augurio rimane quello di arrivare al suo superamento. Ciò che chiamiamo mezzi di produzione oggi, l’intero meccanismo economico, è un incredibile mostro che vola altissimo rispetto alle nostre vite, rispetto al nostro pianeta, e quindi riappropriarci della capacità di determinare la direzione di un’economia, di una società, sono cose ormai totalmente necessarie, vitali, urgenti.

Non ci sarà nessuna transizione climatica, ecologica e sociale, interi continenti non riusciranno a uscire dalla barbarie, a meno che non si supera questo sistema. Penso che questo sia ormai talmente evidente e provato nelle statistiche sulla povertà, sulla diseguaglianza, sull’inquinamento, sull’estinzione delle specie, sulla plastica nei mari: siamo pieni di dati che ci dicono che questo sistema non sta funzionando – a partire dal fatto che siamo a un passo dalla guerra mondiale. Siamo talmente sicuri che questo sistema non sta funzionando, tanto quanto siamo dubbiosi sulle alternative che dobbiamo costruire. Questa è esattamente la contraddizione in cui ci troviamo. Nella mia adolescenza politica mi ricordo che le privatizzazioni erano molto popolari, gli anni ‘90 erano il periodo in cui facevi fatica a dire alla gente che non è vero che con le privatizzazioni le cose automaticamente miglioravano, eppure al contempo pensavamo di avere più convinzioni politiche su quali erano i modelli che difendevamo. Oggi invece la situazione si è capovolta: io non trovo difficoltà a parlare male del capitalismo, a discutere con le persone del fatto che questo sistema non sta funzionando; non trovo resistenza, non trovo grossi difensori del sistema, dal momento che la sua inefficienza è sotto gli occhi di tutti; e al contempo mai come oggi la confusione su qualsiasi alternativa possibile regna sovrana a tutti i livelli.



Hai un autore filosofico o letterario a cui ti senti particolarmente legato? Che il libro stai leggendo in questo momento?

In questo momento non sto leggendo nessun libro, sto leggendo il grande libro della vita, una quantità di messaggi, mail, WhatsApp, istanze, cause legali, testi, microtesti, comunicati stampa, tutta roba velenosissima dalla quale non so se riuscirò mai a disintossicarmi. Come narrativa, citerei Hemingway. Per quanto riguarda la saggistica, rimando ai grandi classici. Prima avete citato Lenin, che non è un riferimento per parlare di quello che stiamo facendo qui in fabbrica, ma penso che “Stato e rivoluzione” (anche a proposito di carisma), sia un libro perfetto: scritto proprio in quel momento, con quella semplicità, è davvero impressionante.

Non vi saprei dire quindi un singolo autore, ce ne sono troppi, e tutti troppi importanti. Posso dirvi però che sono molto affezionato alla figura di Igor Protti, attaccante del Livorno, che ha segnato un intero periodo della mia vita, ed è uno dei pochi che mi fa commuovere quando rivedo i suoi gol. Consiglio a tutti a questo proposito di vedere Treviso-Livorno del 2002.



fonte: minimaetmoralia.it - 1 giu 2023

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