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La Gkn nel paese che non cresce

La Gkn nel paese che non cresce

🚧 LE MALETESTE 🚧

19 mar 2024

Nonostante gli annunci del governo, l'economia italiana è caratterizzata da scarsa innovazione: sopravvive grazie alla svalutazione del lavoro. Secondo l'ex presidente dell'Inps Tridico, la proposta dei lavoratori Gkn è un modello per invertire la tendenza. Intervista a Pasquale Tridico.
di STEFANO CANNAVO'


Salvatore Cannavò e Pasquale Tridico

18 Marzo 2024


«Per collocare correttamente crisi e vertenze come quella della Gkn occorre inserirle in un contesto generale», dice Pasquale Tridico, ex presidente dell’Inps, docente di Economia del lavoro a Roma 3, autore del volume Governare l’economia, appena uscito per Castelvecchi. Con lui parliamo della vertenza di Campi Bisenzio nella chiave offerta dal Collettivo di fabbrica e dalla Società operaia di mutuo soccorso Insorgiamo



Che intende per contesto generale?

Sicuramente il fatto che ci troviamo all’incrocio di tre crisi: quella geopolitica, la crisi della  globalizzazione e la crisi climatica. La crisi geopolitica è aperta sotto i nostri occhi dalle due principali guerre in corso, quella ucraina e quella a Gaza. La crisi della globalizzazione si manifesta con la fragilità di quest’ultima, l’accorciamento delle reti di forniture (le supply chain) e con il ruolo ritrovato dello Stato come propulsore economico. Negli Usa è stato messo in campo un provvedimento, l’Inflation Reduction Act, da un trilione di dollari mentre nell’Unione europea vige ancora la normativa del divieto agli aiuti di Stato: due modalità molto diverse di gestire la crisi. Servirebbe un’autonomia strategica per affrontare questa fase di passaggio, in particolare la dipendenza tecnologica (ora l’Ue ha normato l’uso dell’Intelligenza artificiale, un passaggio che spiega la portata delle trasformazioni in corso) e per cogliere l’importanza di alcune produzioni, penso ai semiconduttori. Servono incentivi selezionati, il miglioramento delle condizioni competitive nei settori strategici attivando l’intervento pubblico, una minor dipendenza da fornitori esteri, maggiore diversificazione delle forniture dall’estero, recupero della competitività delle aziende nazionali. Ci saranno tante altre crisi, quelle che abbiamo alle spalle sono solo le prime avvisaglie e occorre fare i conti con un intervento pubblico che finora è stato basato solo su incentivi alle imprese, riduzione dei salari e flessibilità. Un modello che non può sostenere il passaggio in corso.



Questa condizione di crisi della globalizzazione, che comporta una revisione delle gerarchie mondiali e un ritorno del ruolo degli Stati, ha una ricaduta diretta, almeno in Italia, sul lavoro. Da quando è in carica il governo Meloni non fa altro che sottolineare la positività della congiuntura occupazionale, lei ha presentato però una lettura diversa.

Sui dati dell’occupazione non si vuole, per convenienza politica, guardare ai movimenti di fondo, di corto e lungo periodo, e soprattutto alla qualità del lavoro che oggi viene creato. Ci sono almeno tre elementi critici che non vengono messi in evidenza: la qualità del lavoro, e quindi la sostituzione di lavoro più povero a lavoro ad alto valore aggiunto; la quantità, che va misurata con il numero di ore lavorate e non con il numero di «teste» al lavoro; il dato demografico che altera la percezione dei tassi di occupazione.



Partiamo dalla qualità del lavoro

Qui ci sono due fenomeni che sono visibili nelle tabelle che ho rielaborato sulla base dei dati Inps e Istat [grafici seguenti, Ndr]. Da un lato si può vedere la curva dell’occupazione nella manifattura che, in termini di ore lavorate, vede scendere gli addetti dai 4,5 milioni del 1995 ai 3,5 del 2019. Allo stesso tempo gli addetti del Turismo salgono da un milione a 1,5 milioni con gli addetti dell’agricoltura che restano stabili. È uno spaccato di quel fenomeno più che trentennale che ha visto sostituire lavoro industriale con lavoro nel terziario. Ma, e siamo al secondo grafico, la produttività del lavoro dei due comparti è molto diversa, intorno al 60-70% nel caso della manifattura, sul 40% ma con una tendenza a calare, nel turismo. Questo è il fenomeno che in larga parte spiega il calo di produttività dell’economia italiana e quindi anche il calo della sua ricchezza interna. Del resto nella classifica europea della crescita della produttività l’Italia si colloca all’ultimo posto: tra il 1995 e il 2021 questa cresce intorno al 15% in Spagna, circa il 30% in Francia, quasi il 40% in Germania mentre in Italia la crescita è sotto il 10%. E questo è il frutto di scelte di politica industriale ed economica, di una concezione assistenziale dello Stato e di una scarsa capacità di programmazione. L’Italia non cresce perché somiglia a un bar: con scarsa innovazione, in grado di sopravvivere grazie alla svalutazione del lavoro e a bassi salari piuttosto che a investimenti diffusi in innovazione, incapace di generare valore aggiunto. Ciò è alla base della scarsa crescita della produttività e dei salari negli ultimi tre decenni.



Ma diceva che c’è una visione distorta della quantità di lavoro creato.

Sì, perché va bene considerare il numero di persone che sono attive e lavorano, ma se non si guarda all’indice per ore lavorate non si colgono due aspetti centrali: il primo è che più persone lavorano per produrre la stessa quantità – da cui il calo di produttività di cui sopra – e poi che questo lavoro in più è fatto di lavoro precario. In termini di indice ore lavorate, fatto 100 il livello nel 2015, siamo a 99,5 nel 2023: era 107 nel 2007, l’anno prima della crisi globale. Questo dato è riscontrato dal numero dei rapporti di lavoro a termine (dati Inps) che sono passati da 2,5 milioni del 2020 a circa 3,6 milioni nel 2023. Di questi 2,6 milioni attengono al settore privato non agricolo, erano 1,8 milioni nel 2020. Questo fenomeno colpisce soprattutto le donne che detengono il record dei contratti part-time con una quota del 45% circa che invece per gli uomini si attesta attorno al 15%.



La struttura produttiva dell’economia italiana quindi è quel fattore che incide sullo sviluppo e che non vogliamo analizzare a fondo?

Negli ultimi trent’anni, il sistema economico italiano ha sperimentato un cambiamento strutturale e istituzionale, sintesi di un processo che ha portato verso una terziarizzazione dell’economia, con una graduale riduzione della quota lavoro in agricoltura e nell’industria. Oggi, quasi il 73% della forza lavoro in Italia è impiegata nei servizi, circa il 23,5% nell’industria, il 3,5% in agricoltura. Trent’anni fa il settore industriale impiegava oltre il 31% della forza lavoro, in prevalenza nel settore manifatturiero. Tale processo è abituale nei sistemi economici complessi, caratterizzati da una transizione strutturale da settori maturi verso settori avanzati. I problemi sorgono quando questa trasformazione avviene tramite un aumento di occupazione in settori non avanzati dei servizi, a basso valore aggiunto. L’Italia è caratterizzata negativamente da una simile transizione verso servizi non avanzati, insieme a Spagna, Portogallo e Grecia. 



E poi ha parlato del fattore demografico.

Esatto, viviamo in un periodo in cui il calo demografico, in ripresa dal 2008, comincia a influenzare le dinamiche del mercato del lavoro, e i tassi di partecipazione, di occupazione e di disoccupazione.  Il calo demografico infatti ha avuto un impatto sul denominatore della frazione che individua questi tassi, e in particolare sul tasso di occupazione, come già certificato, tra gli altri, nel rapporto annuale della Banca d’Italia del 2023 secondo cui «il numero di persone convenzionalmente definite in età da lavoro (tra i 15 e i 64 anni) è diminuito di quasi 800.000 unità». Questo contribuisce a far aumentare, solo in percentuale, il tasso di occupazione da circa il 59% a circa il 61%. Ma si tratta di un aumento fittizio, statistico e non reale.



Questo è il contesto in cui «riforme» come il Jobs Act del governo Renzi sono state vendute come risolutive e soprattutto additate come generatrici attive di lavoro.

In realtà, come tutte le riforme che si sono dedicate a ristrutturare il mercato del lavoro degli ultimi trent’anni, il Jobs Act ha fallito nei suoi tre obiettivi dichiarati: 1) aumento dell’occupazione; 2) aumento degli investimenti; 3) aumento della produttività. È noto che il numero di occupati si sia attestato, negli ultimi due decenni, intorno a 23 milioni di lavoratori, e che nessuna riforma abbia aumentato il tasso di occupazione, in media intorno al 59%. Anche l’incremento del tasso di occupazione dal 59 al 61%, nel periodo post-Covid, è stato frutto unicamente di un effetto statistico dovuto, come detto, alla riduzione della popolazione in età attiva, tra i 15 e 65 anni, per via del calo demografico pari a 800 mila unità. Gli investimenti, al netto di quelli previsti nel Pnrr, sono scesi del 25% negli ultimi due decenni, inclusi quelli provenienti dall’estero. La produttività è stagnante da un quarto di secolo. Sarebbe velleitario sostenere che un decreto possa aumentare l’occupazione.



Tutto questo si riflette anche sulle politiche industriali, come ha già spiegato. Qual è allora la svolta che andrebbe impressa, che tipo di politiche industriali vanno costruite?

Le politiche industriali non dovrebbero limitarsi esclusivamente agli incentivi: lo Stato deve svolgere un ruolo attivo come investitore. La politica economica deve porsi l’obiettivo di accompagnare i diversi paesi lungo il percorso dell’inevitabile transizione verde. Il sostegno per i lavoratori in difficoltà deve assumere la forma di un sostegno finanziario per i disoccupati e di formazione per coloro le cui competenze sono rese obsolete dagli sviluppi tecnologici. Una tassazione più elevata dei redditi più alti e per le società di capitali – coordinata a livello internazionale per evitare fenomeni di concorrenza fiscale – avrebbe l’obiettivo di sostenere tali politiche e promuovere una redistribuzione che, nei paesi caratterizzati da regimi la cui ripresa è guidata dall’aumento dei salari, porterebbe a una crescita dell’economia.



In questa direzione serve un nuovo ruolo dello Stato?

L’emergenza Covid-19 ha riportato lo Stato al centro della vita economica e sociale del paese. Il welfare ha protetto i lavoratori, i cittadini, le famiglie; l’economia è stata preservata, le aziende sostenute. Ciò ha permesso una ripresa molto forte del sistema nel 2021 e nel 2022, con una crescita che ha superato l’11% in due anni. Si tratta di un risultato non scontato: basti pensare a cosa è successo durante la crisi finanziaria del 2009-2012, quando l’economia è sprofondata e le politiche di austerità hanno acuito la crisi dopo decenni di liberalizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro, austerità e progressiva riduzione del ruolo dell’operatore pubblico, la crisi ha mostrato quanto l’intervento dello Stato sia necessario per garantire il benessere dei cittadini. Oltre a regolare gli aspetti sanitari legati alla circolazione delle persone allo scopo di ridurre la circolazione del virus, lo Stato è intervenuto sia con strumenti di sostegno al reddito sia attraverso una regolamentazione del mercato del lavoro, prevedendo persino il blocco dei licenziamenti, per evitare una crisi socioeconomica di enormi proporzioni. Il ricorso al debito pubblico, annoso problema dell’economia italiana, è divenuto uno degli strumenti transitori per la risoluzione della crisi. La spesa, però, va indirizzata bene: i settori chiave sono sanità, scuola, formazione, università e ricerca, senza dimenticare la trasformazione digitale e la transizione energetica.



La vertenza della Gkn, la fabbrica abbandonata dal fondo Melrose a Campi Bisenzio e mai riattivata dalla nuova proprietà, la Qf, sta conducendo una battaglia non solo per la salvaguardia dei propri posti di lavoro ma per rilanciare l’idea dell’intervento pubblico. Qual è il suo parere?

Innanzitutto di piena solidarietà a questa vertenza che ho avuto modo di conoscere da vicino. E che già in alcune cifre dimostra quel che dicevo prima a proposito di intervento pubblico malato, basato su incentivi o su spese senza un minimo di programmazione. Si guardi a quanto finora è stato speso in termini di cassa integrazione (diritto legittimo dei lavoratori, sia chiaro, da non mettere minimamente in discussione): si tratta di circa 22 milioni di euro tra il 2022 e il 2023 e poi ancora altri 33 milioni dal 2023 a oggi. Ripeto, soldi legittimi. Ma se ci fosse stato un intervento pubblico «sano», si sarebbero potuti non spegnere gli impianti, evitare mesi e mesi di cassa integrazione e trattative estenuanti, gli ammortizzatori sociali si sarebbero tradotti in investimenti pubblici, si sarebbe evitata l’erosione di capitale fisico e umano. 



La vertenza Gkn propone un’idea di intervento pubblico, definito «fabbrica diffusa e integrata» che tiene conto anche della partecipazione diretta dei lavoratori, già costituiti in cooperativa e in grado di essere anche i «proprietari» dello stabilimento sia pure insieme a istituzioni pubbliche e soggetti privati. 

È necessaria maggiore democrazia nel sistema economico. La disuguaglianza è spesso associata alla plutocrazia, a cerchie ristrette di oligarchie economiche e alla restrizione degli spazi pubblici. La democrazia economica deve partire dalle condizioni del mercato del lavoro, dai meccanismi di retribuzione, dalle condivisioni delle scelte aziendali. In alcuni tra i paesi più avanzati d’Europa esistono forme di partecipazione dei lavoratori alle performance positive delle aziende, sotto forma di condivisione dei profitti o attraverso l’accesso a una parte della proprietà finanziaria. Vi sono anche schemi di share ownership, in cui i lavoratori acquistano volontariamente quote dell’azienda. La Francia registra la più alta incidenza di schemi di questo tipo: ne fa uso il 35% delle imprese private. Nel caso Gkn la cooperativa già costituita potrebbe essere attivamente beneficiaria di un provvedimento ad hoc. Il nodo ovviamente è il trasferimento di proprietà ma in un partneriato pubblico-privato il problema potrebbe essere risolto facilmente.



Che intende per partenariato pubblico-privato?

Questa modalità è stata finora utilizzata solo da aziende pubbliche per coinvolgere privati. Quando il settore pubblico, ad esempio, intende realizzare un progetto che abbia finalità pubbliche (o la tutela dell’occupazione), e la cui progettazione, realizzazione, gestione e finanziamento – in tutto o in parte – vengono affidati al settore privato. Si tratta di instaurare un rapporto tra un ente concedente e uno o più operatori economici privati, un rapporto contrattuale di lungo periodo per raggiungere un risultato di interesse pubblico. La copertura dei fabbisogni finanziari connessi alla realizzazione del progetto proviene in misura significativa da risorse reperite dalla parte privata, anche in ragione del rischio operativo assunto dalla medesima; alla parte privata spetta anche il compito di realizzare e gestire il progetto, mentre alla parte pubblica quello di definire gli obiettivi e di verificarne l’attuazione. Il settore privato è posto nelle condizioni di fornire le proprie capacità manageriali, commerciali e innovative nella progettazione, finanziamento, costruzione e gestione di infrastrutture di pubblica utilità, ottenendone un ritorno economico. La fase di gestione dell’opera consente poi di generare i flussi di cassa necessari a rimborsare il debito contratto e remunerare gli azionisti. 

Ecco, questo «privato» oggi potrebbe essere la cooperativa costituita – ma se volesse anche Qf potrebbe far parte del partenariato – a cui trasferire la proprietà o parte di essa. In questa prospettiva le risorse pubbliche, spesso sprecate, potrebbero dare la linfa necessaria. Ma serve la volontà politica, non c’è nessun altro ostacolo.



fonte: jacobinitalia.it - 18 marzo 2024


* Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme). 

* Pasquale Tridico è professore ordinario di Politica economica ed economia del lavoro e dirige il Centro di ricerca di Eccellenza Jean Monnet Labour Welfare and Social Rights in Europe dell’Università Roma Tre. Dal 2019 al 2023 è stato presidente dell’Inps.

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