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MONFALCONE. Nel principale cantiere navale italiano, la politica anti-islamica divide i lavoratori

MONFALCONE. Nel principale cantiere navale italiano, la politica anti-islamica divide i lavoratori

🚧 LE MALETESTE 🚧

18 gen 2024

La cittadina, sede del più grande cantiere navale d'Europa, dove vorrebbero impedire l'attività di culto ai musulmani. La polizia locale nel Centro islamico di Monfalcone identifica anche i bambini.
di NICOLA QUONDAMATTEO e MARINELLA SALVI

Il caso Monfalcone


Nicola Quondamatteo

13 Gennaio 2024


Durante la conferenza stampa di fine anno, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è sentita rivolgere una domanda sul «caso» Monfalcone. Elisa Saltarelli, giornalista di Prima Pagina Tv, ha chiesto il parere della premier sul processo di islamizzazione in corso nella cittadina isontina, denunciato dalla sindaca salviniana Anna Cisint, al secondo mandato e in carica dal 2016.


Monfalcone, che ha di recente superato i 30.000 residenti, è approdata al centro dell’attenzione nazionale dopo la decisione della prima cittadina di impedire ai fedeli musulmani di poter svolgere l’attività di preghiera all’interno di due centri culturali islamici. Il provvedimento ha forse rappresentato il punto più alto di anni di politiche locali all’insegna del razzismo istituzionale, che hanno trasformato Monfalcone in un luogo di osservazione privilegiato per comprendere contraddizioni, pratiche discorsive, azioni amministrative e di policy della destra radicale con responsabilità di governo.  



Trasformazioni produttive, trasformazioni urbane

Monfalcone è la sede del più grande cantiere navale d’Europa, uno degli otto stabilimenti nazionali di Fincantieri – multinazionale controllata con quote azionarie di maggioranza dallo Stato, tramite Cassa Depositi e Prestiti. Il cantiere – destinato, come quelli di Marghera e di Genova, alla realizzazione di navi da crociera – impiega 1.600 lavoratori (il rapporto operai-impiegati è ormai 1:1) ma la maggior parte dell’attività produttiva è svolta da migliaia di tute blu in appalto e subappalto. La «giungla» – così viene definita dalla Fiom nazionale – delle società terze operanti all’interno degli stabilimenti Fincantieri – è difficile da decifrare. A Monfalcone e Marghera lavorano all’incirca 500 ditte esterne tra appalti di primo livello, subappalti, consorzi, associazioni temporanee di impresa, aziende monocommittenti che nascono e muoiono (spesso riconducibili allo stesso nucleo familiare). Alcuni appaltatori si servono anche di agenzie di somministrazione. In crescita il fenomeno di subappaltatori di origine straniera. A volte si tratta di lavoratori immigrati spinti dal committente di primo livello ad avviare un’attività, in uno schema di compressione dei costi. In altri casi sono proprio alcuni operai stranieri a fiutare come funziona il sistema, comprendendo che gli appaltatori sono ben lieti di avere un subappaltatore in più da mettere in competizione con gli altri. Limitato, anche se presente, il ricorso al distacco internazionale dalla Romania, dove Fincantieri – tramite la controllata Vard – ha due cantieri. Quello di Tulcea è produttivamente interconnesso con lo stabilimento di Monfalcone, per il quale realizza alcune sezioni di scafo.


Date le dimensioni di cantiere navale e città, Monfalcone è sempre stata una company town pesantemente condizionata (politicamente e socialmente) dallo stabilimento navalmeccanico. Esistono anche altre realtà produttive, ma il cantiere da solo rappresenta più della metà del Pil della provincia di Gorizia. Il titolo di un volume uscito alla fine dello scorso secolo a firma dello studioso Paolo Fragiacomo aiuta a inquadrare la questione: La grande fabbrica e la piccola città. Quanto è avvenuto nella grande fabbrica ha sempre avuto riscontri tangibili nella piccola città. Non fa eccezione la trasformazione produttiva maturata sul finire degli anni Ottanta e consolidatasi nel decennio successivo. Le lotte operaie del ciclo precedente avevano portato a una crescente rigidità nell’utilizzo del fattore lavoro. L’utilizzo degli appalti era stato fortemente limitato e alla manodopera indiretta veniva applicato il contratto collettivo dei metalmeccanici – nell’ottica di un approccio egualitario e solidaristico volto ad avvicinare la condizione dei lavoratori del cantiere e quelli delle ditte. Con la globalizzazione sono intervenuti significativi mutamenti che hanno portato al drastico ridimensionamento della cantieristica europea e all’ascesa di quella asiatica (Corea del Sud dagli anni Ottanta e Cina nel nuovo millennio). In molti paesi europei la navalmeccanica è pressoché scomparsa (es. Danimarca), in altri ha subito processi di ridimensionamento (es. Francia). In Italia si è registrata una tenuta, anche per via dell’efficacia delle lotte difensive di settore che hanno visto il protagonismo dei sindacati e l’interessamento degli enti locali. Sull’organizzazione del lavoro, d’altro canto, il capitale (nel caso Fincantieri pubblico, per quanto finanziarizzato dopo l’entrata in borsa decisa dal governo Renzi) si è preso una rivincita di classe adottando un modello iper-flessibilizzato fondato su appalti e esternalizzazioni. 


In questo sfondo si situa il crescente ricorso a manodopera immigrata, per un intreccio tra ragioni di profittabilità e fattori demografici. Monfalcone è una cartina di tornasole per decifrare questi fenomeni. Il cantiere, a dire il vero, era sempre stato un polo di attrazione di forza lavoro nonché di migrazioni (interne) gestite politicamente, come ai tempi del regime fascista. Quest’ultimo favorì infatti l’afflusso di manodopera gallipolina non sindacalizzata al fine di disciplinare e «bonificare» una classe operaia che aveva mostrato una notevole combattività. Una classe operaia «austriacante», capace di uno sguardo su quanto avveniva a livello internazionale, che meritava quindi di essere «italianizzata». A partire dagli anni Novanta è iniziato però un processo di segno nuovo, destinato a cambiare il volto di Monfalcone. Dapprima si è registrata una nuova ondata di trasfertismo campano, all’epoca profondamente stigmatizzato. Il fenomeno leghista si sviluppava infatti proprio in quel periodo. Per ironia della storia, tra i meridionali stigmatizzati di ieri, la Lega di oggi ha costruito una delle sue basi di consenso. L’immigrazione è diventata poi internazionale. Lavoro generalmente qualificato dall’est Europa. La Croazia ha infatti una radicata storia nella produzione navalmeccanica e la Romania ha sistemi di formazione professionale di buon livello (come mi ha confermato un manager di Fincantieri nel corso di un’intervista). 


Infine è stata la volta dell’immigrazione bengalese. I «pionieri» arrivarono a Marghera prima e Monfalcone poi sul finire degli anni Novanta. Oggi costituiscono la principale comunità straniera residente nella città isontina. La presenza è dunque più che ventennale. Famiglie al seguito tramite ricongiungimenti familiari, bambine e bambini nati qui. Secondo i dati Istat aggiornati al 1 gennaio 2023, gli stranieri residenti a Monfalcone di origine bengalese sono 4.701 (2.727 di sesso maschile, 1.974 di sesso femminile). A questi bisogna poi aggiungere chi ha ottenuto la cittadinanza italiana dopo il lungo periodo di residenza previsto dalla legge. Va anche sottolineato che alcuni hanno intrapreso un secondo percorso migratorio verso il Regno Unito – che molti vedono come la «patria delle opportunità». La Brexit, da questo punto di vista, ha complicato le cose. 


Monfalcone, negli anni, è dunque profondamente cambiata. La «bianchezza» è stata messa in questione dai cambiamenti sociali e demografici. Non si tratta ovviamente, come vuole l’aggressiva propaganda delle destre locali, di «sostituzione etnica». Stante le trasformazioni che hanno investito il mondo della produzione, la multiculturalità si è semplicemente fatta avanti. Multiculturalità cui però non corrisponde un «riconoscimento» nella sfera politica, in quella lavorativa, in quella delle opportunità. 

I lavoratori bengalesi impegnati per la selva di appaltatori e subappaltatori che operano in cantiere sono soggetti alla paga globale, allo sfruttamento differenziale. Sperimentano ogni giorno la segmentazione occupazionale (anche se, individualmente, alcuni lavoratori stanno col tempo crescendo in professionalità). Per questo il «sogno inglese», all’interno della comunità bengalese, funziona. Lì c’è migrazione di più lunga durata (che risale anche a prima dell’indipendenza nazionale del Bangladesh), a causa del legame coloniale e del bisogno di manodopera per la ricostruzione postbellica. Più generazioni di bengalesi, parte dei quali ha avuto accesso a professioni più qualificate (dottori, parlamentari, il sindaco di Newcastle). Processi storici contraddittori, ma di cui si tende a vedere le luci più che le ombre. Specie dall’Italia e da Monfalcone, dove una feroce segmentazione e un clima culturale che appare poco più che provinciale non lascia intravedere significativi spiragli di mobilità sociale a breve termine.



La destra al potere  

Dal punto di vista politico Monfalcone ha seguito una traiettoria così riassuntami da Fabio Del Bello, un ex consigliere comunale di lungo corso: 

All’inizio il partito dominante era la Dc: una Dc di destra negli anni Cinquanta, una Dc di centro-sinistra nel decennio successivo. Nel 1975 vincono le sinistre unite. Poi la traiettoria è stata quella del centro-sinistra a traino Pds-Ds-Pd. Nel 2016 vince la Lega, sulla questione immigrazione.

A seguito delle trasformazioni occorse negli anni Novanta, il centro-sinistra non è stato in grado di far fronte a un modello produttivo fondato sugli appalti, che ha esternalizzato sulla «piccola città» le sue contraddizioni sociali: lavoro povero, con vistose sacche di informalità e irregolarità; forte domanda di alloggi (totalmente lasciata al mercato privato, al punto che Monfalcone è nella lista delle città definite per legge ad «alta tensione abitativa»); inclusione sociale e linguistica dei lavoratori stranieri ecc. «La grande fabbrica» si è disinteressata di quanto accadeva fuori dalle sue mura. «In quest’ottica il legame col territorio – argomenta nel corso di un’intervista Gabriele Polo, ex direttore del Manifesto e profondo conoscitore della zona – viene meno». Dinamiche di mero estrattivismo. La politica monfalconese di sinistra e centro-sinistra – continua Polo – «ha sempre delegato al sindacato la conflittualità con Fincantieri; quando questo non è più riuscito a esercitarla, ogni discorso di contrattazione si è spento». La Lega ha espugnato la città dei cantieri nel 2016 con l’elezione di Anna Cisint, poi riconfermata in maniera plebiscitaria nel 2022 (anche se in un quadro di forte astensionismo). 


La destra ha vinto sulla polarizzazione della questione immigrazione, con una retorica critica nei confronti delle scelte di Fincantieri e della subalternità del centro-sinistra (effettivamente manifestatasi poco prima della elezione di Cisint, quando la sindaca del Pd Silvia Altran ha ritirato il Comune da parte civile nei processi contro l’azienda per l’esposizione all’amianto che ha mietuto e continua a mietere vittime tra le vecchie generazioni di lavoratori). La Lega locale sostiene inoltre la riduzione del subappalto in quanto generatore di dumping sociale e di sostituzione di manodopera locale con quella straniera. Questo ha dei tratti di verità, anche se le cose stanno in maniera più complessa. Da un lato esistono processi di segmentazione della forza lavoro, che determinano una complementarietà (all’interno di gerarchie etniche) tra lavoro italiano e lavoro migrante. Non si può poi trascurare il fattore demografico. Dall’altro, ovviamente, non mancano casi di più diretta competizione. Questo è avvenuto emblematicamente nel caso della pitturazione, dove il meccanismo delle gare al ribasso ha messo in crisi una ditta di appalto storica come la Beraud: un’azienda sindacalizzata, con contrattazione integrativa e buon livello di tutele, la cui manodopera era prevalentemente italiana. Col cambio di appalto è subentrata una nuova impresa, senza assorbire i dipendenti Beraud e assumendo operai in buona parte immigrati. Il fenomeno dei subappaltatori di origine straniera, inoltre, può favorire un ulteriore reclutamento all’estero in quanto queste imprese si trovano in una condizione di maggior vantaggio per per sfruttare le disposizioni della Bossi-Fini. Ad ogni modo, il discorso andrebbe rovesciato: bisogna partire dai diritti, dal modello produttivo, dall’organizzazione del lavoro per innalzare le tutele del lavoro (italiano o migrante che sia). 


Da questo punto di vista, la Lega si trova imprigionata in due diverse contraddizioni. Da un lato a livello nazionale ha sempre sostenuto politiche liberiste e di deregulation: se a Monfalcone il partito di Salvini critica il subappalto perché strutturalmente portatore di immigrazione, lo stesso leader del Carroccio lo ha liberalizzato totalmente nella modifica del Codice degli Appalti. Dall’altro lato il governo Meloni, col decreto flussi, ha riconosciuto il fabbisogno di manodopera immigrata da parte delle imprese, anche nel settore navalmeccanico: è la consueta contraddizione tra economia (la necessità di braccia a buon mercato) e politica (retoriche contro l’immigrazione) che accompagna le destre contemporanee ma, più in generale, il governo dell’immigrazione da parte dei paesi occidentali da decenni. 


Monfalcone è dunque un buon punto di osservazione per cogliere l’intreccio tra ragioni dell’economia e della politica. In questo scenario, le amministrazioni Cisint si sono distinte per la mancata volontà di riconoscere il carattere multietnico e multiculturale di Monfalcone con una serie interminabile di misure punitive: barriere nell’accesso al welfare locale (alcune misure sono state bocciate dai tribunali, come nei casi dei bandi per case popolari e contributi per l’affitto); ordinanze in nome del decoro urbano (multe per i lavoratori degli appalti che, sprovvisti di accesso alla mensa, consumano un pasto fuori dai cancelli del cantiere; multe per chi gira con la tuta blu «sporca» nei supermercati e nei mezzi pubblici, anche se questo avviene per la mancata possibilità di accedere agli spogliatoi); rimozione delle panchine dalla piazza principale, dove socializzavano molti bengalesi; impossibilità di giocare a cricket per i ragazzi bengalesi in luoghi pubblici; estrema severità contro gli operai del cantiere che si recano a lavoro in bici sprovviste di luci; divieto di fare il bagno vestite per le donne musulmane. 


Ora, in seguito agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, una rinnovata islamofobia si è spinta fino alla sospensione della possibilità di pregare all’interno di due centri culturali islamici della città. Ma c’è stata anche la stigmatizzazione di ragazzi di seconda generazione che hanno preso parola contro Israele (la cui bandiera è stata esposta dal Municipio) e l’ampio utilizzo di narrazioni femonazionaliste nei confronti delle donne bengalesi. Le elezioni europee si avvicinano e Cisint può essere una carta per la Lega di Salvini nella competizione a destra con Fratelli d’Italia. Non a caso, la sindaca ha assunto una dimensione nazionale, intervenendo anche nell’ambito della kermesse di Firenze organizzata dal Carroccio e dagli alleati sovranisti di Identità e Democrazia in vista del voto di giugno.  



Spazi di resistenza

Il provvedimento che restringe la libertà di culto, garantita dall’Art. 19 della Costituzione, ha provocato però un conflitto che si è per la prima volta manifestato in dimensioni di massa.


 Auto-organizzato dai centri culturali islamici e dalla comunità bengalese, il 23 dicembre un imponente corteo di 8.000 persone ha percorso le strade di Monfalcone, mentre la sindaca, in clima da scontro di civiltà, parlava di Natale violato tra disturbo allo shopping e rilancio di un cristianesimo tradizionalista e escludente. Alla manifestazione c’erano molti bengalesi, donne e uomini, che hanno deciso di sventolare esclusivamente bandiere italiane ed europee per rivendicare il proprio diritto di cittadinanza e di partecipazione alla sfera pubblica; ma anche solidali italiani. Per Alessandro Perrone, dell’Unione sindacale di Base, «una piazza di queste dimensioni a Monfalcone non si vedeva dalle proteste contro la riforma pensionistica tentata da Berlusconi negli anni Novanta». Per Sani Bhuyan, consigliere comunale del Pd e punto di riferimento per la comunità bengalese, si è trattato di una manifestazione di «dissenso nei confronti di politiche che colpiscono i diritti delle minoranze». Cristiana Morsolin, consigliera comunale per La Sinistra e già candidata sindaca per l’intera coalizione di centro-sinistra nell’ultima tornata elettorale, auspica invece che sia un punto di partenza per l’emersione di tutti i problemi sociali, compreso quello del lavoro.


Già, il lavoro. Alla manifestazione convocata dai centri culturali islamici e dalla comunità bengalese, ha partecipato attivamente – nell’ambito del sindacato confederale – la sola Flc Cgil (le e i cui iscritte/i hanno quotidianamente a che fare, nella propria vita professionale, con la Monfalcone multiculturale del futuro, tra le difficoltà del presente). Per le altre categorie e le altre confederazioni è stata un’occasione persa, come ha notato un commentatore locale. Per rappresentare una forza lavoro come quella degli appalti Fincantieri, del resto, il sindacato ha bisogno di un rinnovamento delle pratiche e del proprio sguardo. Quanto succede fuori dal cantiere influenza anche quanto succede dentro. Le politiche della Lega, che agiscono sulla sfera della riproduzione, hanno un impatto anche su quella della produzione. La vulnerabilità sociale chiama la vulnerabilità lavorativa e viceversa. Le lotte del futuro partiranno dal riconoscimento di questo nesso, specie nel contesto glocale di Monfalcone.


NICOLA QUONDAMATTEO *

fonte: jacobinitalia.it - 13 gen. 2024


*Nicola Quondamatteo è assegnista di ricerca in Sociologia del Lavoro presso l’Università di Padova. Si è occupato, in particolare, di lotte dei lavoratori delle piattaforme; di esternalizzazioni e  processi di etnicizzazione del lavoro nella cantieristica navale; di salario minimo. È autore di Non per noi ma per tutti. La lotta dei riders e il futuro del mondo del lavoro (Asterios 2019). 





La polizia locale nel Centro islamico di Monfalcone identifica anche i bambini

DOCUMENTI!. Nome e cognome, dove abiti, come si chiama tuo padre, la prova di forza degli agenti municipali durante il doposcuola autogestito. Per la sindaca Cisint si è trattato di un normale controllo


Marinella Salvi


La comunità musulmana di Monfalcone ha avuto giovedì scorso l’ennesima sorpresa. Una pattuglia della polizia locale è entrata nella sede del Centro Darus Salaam (Dimora della Pace) e si è messa a identificare tutti i presenti. Il Darus Salaam è uno dei due centri in cui la sindaca di Monfalcone Cisint ha vietato si svolgano attività di culto motivando che lo impediva l’originaria destinazione d’uso dei locali (sarebbe stato più semplice e risolutorio cambiare la destinazione d’uso ma evidentemente non sarebbe risultato altrettanto gratuitamente provocatorio).


Nessuna preghiera comune da dicembre scorso ma sono rimaste le normali attività di un Centro che, per esempio, cerca di offrire supporto ai tanti immigrati attratti dalla vastissima nebulosa di appalti intorno a Fincantieri. Così, quando la Polizia locale è entrata senza invito e senza mandato, si stava svolgendo il doposcuola autogestito. Tre insegnanti bengalesi e nove bambini con i quaderni aperti sui banchi.

Nome e cognome, documenti, a uno a uno rilasciano le generalità, le giovani maestre bengalesi sono intimidite, non chiedono, obbediscono. Poi anche i bambini, stupiti e spaventati da quegli uomini in divisa con la fondina al fianco. Nome e cognome, dove abiti, come si chiama tuo padre. Una bella prova di forza. Gratuita, immotivata, senza spiegazioni. Da giovedì sono in parecchi a chiedere un verbale, una carta, qualcosa, ma nella sede della polizia bocche cucite e comandante tutt’ora irreperibile. Per la sindaca Cisint si è trattato di un normale controllo, punto e basta. Non pregavano, contenta? E dei nomi cosa se ne fa?


A Monfalcone la polemica si è rinfocolata. Il razzismo non smette di provocare e sono ormai sette anni che la propaganda anti-islamica è quotidiana come i provvedimenti mirati a mettere in difficoltà sempre e solo quella Comunità. Peccato, non è sempre stato così. La dimostrazione vivente di quanto sia stata possibile una Monfalcone diversa è Bou Konate, presidente onorario proprio del Centro Darus Salam. Che, questo è il bello, è anche la dimostrazione vivente di come Monfalcone potrebbe essere.


Una vita di studio, di lavoro, di impegno. Bou Konate è nato in Senegal una sessantina di anni fa e grazie a borse di studio ha girato mezzo mondo: prima in Canada e poi in Italia fino alla laurea in ingegneria meccanica e la tesi sulle biomasse perché è di energia e di natura che pensa fin da bambino. L’aveva raccontato in una bella intervista a Marco Neirotti vent’anni fa: «Mi ci fissai quando avevo 13 anni. Andai con alcuni pescatori in alto mare e lì vidi una tremenda, impressionante moria di tonni, vicino a una raffineria. C’era un disastro ecologico e ce n’era anche un altro: quei tonni li portavano a casa e li vendevano».


Molti ricordi legati a Trieste, anni ’80 accoglienti e l’Università che offre una stanza alla Casa dello Studente perché una ventina di studenti musulmani possano pregare assieme per un paio d’ore ogni venerdì. E dopo la preghiera in un appartamento preso in affitto con i soldi di chi aveva la borsa di studio o un lavoretto; destinazione d’uso residenziale ma nessuno che solleva obiezioni.

Konate a Monfalcone si è fatto subito strada, nel lavoro e nella vita: stimato da tutti, nel 2001 è diventato assessore ai lavori pubblici nella giunta di centro-sinistra. Il primo assessore immigrato musulmano e nero d’Italia. E oggi è ancora protagonista con la sua pazienza e la sua misura, un contraltare a questa Monfalcone incattivita e nera: «La strada si percorre un passo dopo l’altro» dice ed ecco che sono sempre là il sorriso, la fiducia nel futuro, la determinazione.


La comunità musulmana lo ascolta, eccome, lo si è visto quando in ottomila lo hanno seguito in piazza per rivendicare il diritto a sentirsi cittadini uguali nella stessa città, a essere trattati come tali, a non essere discriminati, calunniati, provocati. Quella immensa sorridente massa compatta, le donne davanti a tenere lo striscione, capaci di smascherare in un fotogramma tante distorsioni e bugie sono state evidentemente un forte schiaffo per un’amministrazione che infatti continua a colpire con atti così gravi che è difficile attribuirli solo alla scelta elettoralistica di una candidata leghista con nell’obiettivo le europee.


Non si manda la polizia a identificare i bambini di un doposcuola, è un gesto odioso e intollerabile. E si può solo provare sgomento nel sentir dire alla sindaca «sono loro che non si vogliono integrare».


MARINELLA SALVI

fonte: ilmanifesto.it - 21 gen. 2024

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