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Una Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi occupati: “L’apartheid è sotto i vostri occhi ovunque andiate”

# LE MALETESTE #

8 feb 2023

Intervista con Francesca Albanese che parla dei recenti attacchi contro di lei, della definizione dell’occupazione israeliana come colonialismo d’insediamento.
di MERON RAPOPORT

di Meron Rapoport,

+972 Magazine,

6 febbraio 2023. 


Francesca Albanese parla dei recenti attacchi contro di lei, della definizione dell’occupazione israeliana come colonialismo d’insediamento e dell’uso del diritto internazionale per smantellarla.


Poco prima di accettare il ruolo di Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi, Francesca Albanese ha ricevuto un consiglio da un amico israeliano: vai subito in Israele-Palestina, perché presto non ti sarà permesso di entrare. Albanese, che conosceva bene il Paese dopo aver vissuto a Gerusalemme e aver lavorato per tre anni per l’organizzazione umanitaria dei rifugiati palestinesi UNRWA, ha seguito il consiglio e ci è andata. Questo è stato il suo ultimo viaggio, almeno per ora; dalla sua nomina nell’aprile 2022, Israele le ha impedito di entrare.


In un’intervista dalla sua residenza in Tunisia, dove vive per lavoro con la famiglia, Albanese, una studiosa italiana di diritto, racconta che, pur potendo andare in Israele con il suo passaporto italiano, le è stato detto da Israele che doveva richiedere un visto speciale. Tra i paesi presumibilmente democratici, dice, Israele è l’unico che impedisce l’ingresso di uno dei 55 relatori delle Nazioni Unite sparsi in tutto il mondo. Persino l’Afghanistan, sotto il governo talebano, ha permesso ai relatori di entrare nel suo territorio.


Israele si è opposto in anticipo alla nomina di Albanese, in parte perché essa “ha lodato le organizzazioni che accusano Israele di essere uno ‘Stato di apartheid'”. Anche il fatto che abbia lavorato all’UNRWA e sia stata coautrice di uno dei libri più completi sui diritti dei rifugiati palestinesi secondo il diritto internazionale non ha certo aiutato. Il suo primo rapporto alle Nazioni Unite, pubblicato nel settembre 2022, è stato rapidamente seguito dall’accusa di antisemitismo.


La “prova” per tale accusa è un post che scrisse nel 2014 durante la guerra di Israele contro Gaza, molto prima di essere nominata alla carica attuale, in cui diceva che gli Stati Uniti sono “soggiogati dalla lobby ebraica”. Albanese ha preso pubblicamente le distanze da quei commenti, affermando che “alcune delle parole che ho usato nel 2014, durante l’offensiva di Israele contro la Striscia di Gaza, erano infelici, analiticamente inaccurate e involontariamente offensive”. Ma Albanese respinge ogni accusa di antisemitismo.


Il Rapporto di Albanese all’ONU sostiene che l’occupazione israeliana viola uno dei principi fondamentali delle Nazioni Unite e della comunità internazionale: il diritto all’autodeterminazione. Sebbene scriva che Israele mantiene un regime di apartheid nei territori occupati, ritiene che l’efficacia della definizione di apartheid nei confronti di Israele sia in realtà limitata; piuttosto, scrive, il regime ha le caratteristiche più chiare del colonialismo d’insediamento. E poiché l’idea stessa delle Nazioni Unite si fonda sulla liberazione dei popoli grazie al diritto all’autodeterminazione, la via più diretta per porre fine all’occupazione è l’insistenza su questo preciso diritto.


Votazione durante una riunione d’emergenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York sulla situazione di Gerusalemme, in seguito alla dichiarazione del presidente statunitense Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. 21 dicembre 2017. (Amir Levy/Flash90)


Sebbene la recente decisione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di richiedere alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) un parere consultivo sulla legalità dell’occupazione non si basi sul rapporto di Albanese, è probabile che le sue conclusioni saranno utilizzate dalla Corte nel suo procedimento. La questione, dal suo punto di vista, non è se l’occupazione sarà dichiarata illegale; la vera domanda è che tipo di passi la Corte raccomanderà agli Stati membri per porre fine all’occupazione.


Questa intervista è stata modificata per ragioni di lunghezza e di chiarezza.


Perché ha pensato che non fosse utile usare la definizione di apartheid nello sforzo di porre fine all’occupazione israeliana?

Non ho detto questo. Ho detto: la definizione di apartheid per il regime che Israele mantiene nei Territori Palestinesi occupati è praticamente e giuridicamente corretta. Questo non significa che non esista apartheid anche all’interno di Israele, ma questo non fa parte del mio mandato come membro delle Nazioni Unite che riguarda solo la documentazione delle violazioni del diritto internazionale nei territori che Israele occupa dal 1967. Inoltre, non capisco perché la gente si stupisca tanto di questa definizione: è così ovvia, è sotto gli occhi di tutti, ovunque si vada.

Nel Rapporto ho detto, e questo è un punto chiave della mia analisi, che era necessario chiedere la fine del regime di apartheid, ma che questo doveva essere accompagnato dalla consapevolezza che la sovranità israeliana non deve essere automaticamente riconosciuta al di là dei confini entro cui lo Stato di Israele è stato fondato nel 1948. Capisco i motivi per cui le persone hanno iniziato a sostenere la soluzione di un solo Stato. Ma se ci debba essere uno o due Stati non sta a me dirlo, su questo tema sono agnostica. C’è comunque una tappa intermedia alla quale non si può sfuggire, ed è il diritto dei palestinesi di decidere il proprio destino.

Finora [i palestinesi] hanno fatto molte concessioni per preservare la possibilità di uno Stato indipendente. Non possiamo permetterci di dire che questo non è più possibile, soprattutto perché la comunità internazionale insiste che questa è l’unica strada. Se è così, attuiamola, e la legge è molto chiara su cosa comporta: la chiave è il diritto all’autodeterminazione, cioè la liberazione dal controllo israeliano.


Pensa davvero che questo sia il modo migliore per fare pressione su Israele affinché metta fine all’occupazione?

Non credo di offrire un paradigma del tutto alternativo. Il diritto all’autodeterminazione è un altro pezzo del puzzle, che dà un senso al quadro dell’apartheid. I Territori Occupati non sono come il Sudafrica, ma come la Namibia. La Namibia è stata occupata militarmente [dal regime sudafricano dell’apartheid] e c’è stata una decisione consultiva della Corte Internazionale di Giustizia che ha dichiarato illegale questa occupazione. Il paragone con la Namibia è utile per comprendere le conseguenze giuridiche di un’occupazione illegale e la necessità di smantellare l’occupazione senza condizioni. Ciò non significa non tenere conto delle preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza.

Vista generale dell’insediamento ebraico di Karnei Shomron, in Cisgiordania. 4 giugno 2020. (Sraya Diamant/Flash90)

Israele non può garantire la protezione del popolo palestinese. L’occupazione deve ritirarsi e al suo posto deve subentrare una forza temporanea, internazionale e indipendente, una forza di protezione che dia sicurezza ai cittadini di entrambe le parti, mentre l’occupazione militare e il progetto coloniale vengono smantellati. Ci sono anche 700.000 cittadini israeliani nei territori occupati [compresa Gerusalemme Est]; se rimarranno, significa che vogliono vivere in pace con i loro vicini palestinesi.


Mi ha sorpreso sentire da lei che anche secondo il diritto internazionale non è necessario evacuare queste persone.

Nel diritto internazionale si è sviluppata una regola, ad esempio nel caso di Cipro, secondo la quale dopo anni di vita in un certo luogo, la popolazione acquisisce dei diritti. È una questione che deve essere decisa. Ciò che è chiaro è che la terra sottratta ai palestinesi dal 1967 deve essere restituita, non ci potrà più essere la legge marziale o la presenza dell’esercito israeliano, e Israele non potrà più fornire [ai coloni] servizi, sussidi o protezione. Chiunque scelga di rimanere sarà una minoranza soggetta alle leggi dello Stato di Palestina.


I metodi dell’occupazione israeliana sono unici?

Non sono unici, sono molto collegati al colonialismo d’insediamento. So che agli israeliani non piace questo concetto. Si sa di Masafer Yatta, si sa delle demolizioni di case, ma gli aspetti burocratici [dell’occupazione] sono meno noti in tutto il mondo: il divieto di costruire, il divieto di entrare o uscire.

In questo momento mi sto occupando del modo in cui Israele amministra l’incarcerazione nei territori palestinesi. È orribile vedere un metodo di carcerazione così ampio, che viene usato come deterrente, come punizione collettiva, come modo per spezzare lo spirito, le relazioni e il tessuto sociale. E questo metodo viene usato da 55 anni. La detenzione amministrativa è un’esclusiva di Israele. Non dico che non avvenga in altri luoghi, ma in modo così massiccio – su una scala così vasta – sì, è unico. Non credo che la gente nel mondo lo capisca.

Soldati israeliani arrestano un giovane palestinese durante gli scontri tra palestinesi e soldati israeliani nella città cisgiordana di Hebron. 9 settembre 2022. (Wisam Hashlamoun/Flash90)


A proposito di colonialismo d’insediamento, nel suo articolo su Haaretz, l’avvocato israeliano per i diritti umani Eitay Mack l’ha criticata aspramente per un passaggio del suo rapporto in cui scrive che “il sionismo politico vedeva la Palestina come una terra in cui stabilire uno stato per gli ebrei attraverso l’insediamento e il colonialismo”. Riesce a capire perché questo viene visto come una negazione del legame storico degli ebrei con Israele? Come se gli ebrei avessero guardato il mondo e avessero detto: ecco un bel posto, andiamo a stabilirci lì. È stato un errore?

Ho riflettuto molto, ho letto, studiato e parlato con le persone, e penso che sì, in questo particolare paragrafo, sono stata troppo sbrigativa. Ora capisco che una semplice frase che riconoscesse l’esistenza di una storia ebraica in questa terra avrebbe reso più facile l’accettazione e la comprensione del mio rapporto. Non avrei dovuto accontentarmi di menzionare, in una nota a piè di pagina, che alla fine del XIX secolo esisteva una comunità ebraica che costituiva il 10% degli abitanti della Palestina. Riconoscere che avrei potuto enfatizzare questo collegamento non invalida il resto del rapporto; nulla di questo collegamento legittima o autorizza ciò che Israele sta facendo nei territori occupati.

Coloro che mi hanno accusato di antisemitismo allo scopo di attaccare sia il mio mandato che la mia persona non meritano un momento del mio tempo. Ma per quanto riguarda una persona come Mack – che ammiro profondamente, e con cui spero di continuare a lavorare perché abbiamo una missione importante – credo che non abbia capito il contesto e il messaggio della mia analisi.

Avrei potuto essere più sensibile. Non per strategia, perché per me non si tratta di strategia per compiacere le persone di una o dell’altra parte – è una questione di obiettività, di coscienza. Se non si riconosce una cosa come quella di cui si tratta, significa che si tralascia una parte importante della storia di un popolo. Tuttavia, non capisco perché la gente si arrabbi tanto quando sente la parola “colonialismo”. Essa compare negli scritti dei padri fondatori di Israele; lo stesso [Ze’ev] Jabotinsky ha parlato di “colonizzazione”.


Il concetto di colonialismo d’insediamento è molto difficile da digerire per gli ebrei in Israele e nel mondo. Perché ha scelto di usarlo?

Vi ricordo che la mia analisi si limita al 1967. Israele sta violando il principio fondamentale del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e lo sta facendo in un modo che mira a ripulire il più possibile il territorio dalla presenza e dall’identità palestinese. Con il nuovo governo, questa tendenza si sta intensificando: si prende sempre più territorio a beneficio dei soli ebrei israeliani, si sfruttano le risorse economiche, si sopprime la loro identità culturale e politica.

Le forze di sicurezza israeliane demoliscono case palestinesi nel villaggio di Sair, vicino alla città cisgiordana di Hebron. 5 agosto 2020. (Wisam Hashlamoun/Flash90)

Queste cose sono coerenti con il modello e le pratiche del colonialismo d’insediamento in Sudafrica, Algeria, Canada, in molti luoghi. A volte il colonialismo d’insediamento ha vinto, a volte no. E quando sento le voci di ex soldati israeliani, di madri che hanno perso i loro figli, di persone che in Israele vivono nella costante paura dei missili, capisco che l’occupazione ha un prezzo molto alto anche per gli israeliani.


Se la Corte di Giustizia dovesse dichiarare illegale l’occupazione israeliana, potrebbe essere una svolta nel modo in cui la comunità internazionale affronta il problema?

Ho grande rispetto e fiducia nell’indipendenza dei giudici della Corte. Non sono l’unica giurista che avverte che l’occupazione israeliana è illegale. È illegale perché non è temporanea, non è gestita a beneficio della popolazione protetta e perché si è trasformata in una annessione del territorio. C’è anche una letteratura che dice che l’occupazione è illegale perché applica [a quell’area] anche l’apartheid.

Il mio contributo è che la sua stessa esistenza è incompatibile con il diritto all’autodeterminazione, e questo ha un impatto sull’intera comunità internazionale. È un obbligo che non si può eludere, non si può derogare, nemmeno per quanto riguarda i paesi terzi. Il punto di svolta per me è che la Corte, spero, contribuisca a chiarire quali sono le conseguenze, quali passi i paesi terzi devono o non devono fare per porre fine a questa situazione.


Quindi, se ho capito bene, ciò che è importante non è solo dichiarare che l’occupazione israeliana è illegale; questo va da sé. La cosa importante, ai suoi occhi, è quali passi faranno gli Stati membri delle Nazioni Unite per porre fine a questa situazione.

Sì – quali saranno le conseguenze legali, perché la [legge] è molto specifica su tali conseguenze. Pensiamo all’Ucraina. Avremmo bisogno di una sentenza del tribunale per stabilire che l’occupazione della Crimea è illegale, o per dichiarare che la guerra che la Russia sta conducendo in Ucraina è contraria al diritto internazionale? No, perché l’Ucraina è un Paese sovrano e in un Paese sovrano la sovranità spetta al popolo. La gente dice: “Ma lì non c’è un Paese” [riferendosi alla Palestina]. No, esiste uno Stato di Palestina, ma è nato in cattività e non si è mai potuto sviluppare. Ma anche prima, c’era un popolo palestinese e la sua sovranità come popolo – come entità legale – è stata riconosciuta fin dal 1919.

Una donna sventola una bandiera palestinese di fronte alla Marcia della Bandiera israeliana nel Giorno di Gerusalemme alla Porta di Damasco, Gerusalemme, 29 maggio 2022. (Oren Ziv)

Spero che la Corte sia di aiuto e fornisca una guida. L’importante è riconoscere la situazione attuale: non si tratta di una guerra tra due Paesi, ma di un’occupazione. Esiste una legge che obbliga ogni stato membro delle Nazioni Unite a non riconoscere una situazione illegale. Ad esempio, gli insediamenti costituiscono un crimine di guerra secondo il diritto internazionale; pertanto, qualsiasi [prodotto] proveniente dagli insediamenti non deve essere trattato come normale. Non è sufficiente apporre un’etichetta che attesti la provenienza dagli insediamenti, ma il prodotto deve essere severamente vietato sui mercati internazionali. Non si deve favorire nulla di ciò che produce un’occupazione illegale.

So che molti Paesi, compreso il mio, dicono “siamo amici di Israele”. No, non siete amici di Israele. Non è una buona cosa insistere sulla strada dell’illegalità e dell’impunità, e non ha nulla a che fare con l’amicizia. Non è nell’interesse del popolo israeliano, e insisto su questo.


A che punto è la situazione del suo ingresso in Israele?

Sia chiaro: non ho mai chiesto di entrare in Israele. Devo entrare in un territorio che Israele occupa e su cui non ha la sovranità. Naturalmente, ho interesse a coordinare la mia visita con le autorità israeliane in quanto potenza occupante. I precedenti relatori hanno raggiunto i Territori Occupati con i loro passaporti senza dover chiedere alcun consenso preventivo. Se vogliono che io faccia domanda, la farò. Continuo a pensare che sia mio diritto annunciare la mia visita e che, quando arrivo al confine, mi sia consentito l’ingresso. L’unica cosa è che loro non possono garantire la mia sicurezza al 100%. Me ne occuperò da sola. Correrò il rischio.

Non ho fatto pressioni e per due mesi non ho avuto notizie dalle autorità israeliane. È una cosa molto irrispettosa. Ma non ho smesso di lavorare. Ho avuto incontri ad Amman, ma anche incontri [online] con palestinesi e israeliani. Ho incontrato minori detenuti, genitori di bambini uccisi dalle armi israeliane e i cui corpi non sono mai stati restituiti. Israeliani e palestinesi mi hanno accompagnato in tour virtuali. Se Israele pensa di impedirmi di ottenere le informazioni, si sbaglia.

Trovo che, in qualche modo, la guerra contro di me crei opportunità di contatto con gli israeliani, perché la gente è curiosa. Non avrei avuto questa visibilità se il mio mandato non fosse stato così controverso. Prima di parlarmi, la gente pensa che io sia una specie di creatura diabolica il cui unico scopo è infangare Israele e gli israeliani. Poi mi parlano e si rendono conto che sono un essere umano comune. Un avvocato che indaga sui fatti, li analizza e li commenta da un punto di vista legale. Posso sbagliare, come ogni persona, ma dentro di me c’è un desiderio profondo, vero e sincero di vedere applicato il diritto internazionale in questo paese martoriato. Perché vedo davvero il potenziale per la popolazione di vivere in pace. Lo vedo davvero, e non vedo altro modo per arrivarci se non attraverso il rispetto della legge.


Meron Rapoport

è redattore di Local Call


da: assopacepalestina.org - 7 feb. 2023

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