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LIBIA. La crisi libica ha tre facce: politica, militare ed economica

🪖 LE MALETESTE 🪖

31 mag 2025

Scontri armati tra le fazioni, manifestazioni antigovernative, interessi di Paesi stranieri, in primis Turchia e Russia, petrolio, e banche - ANDREA SPINELLI BARRILE

di Andrea Spinelli Barrile

31 maggio 2025


Mentre nel sud della Libia si continua a morire di speranza, in mezzo al deserto, le truppe del feldmaresciallo Khalifa Haftar, guidate dal figlio Khaled, hanno ripreso la loro avanzata verso Tripoli. Lentamente, uomini e mezzi stanno muovendo da ieri mattina, dopo una decina di giorni di stallo nei pressi di Ash-Shuwayrif, 400 chilometri a sud della capitale libica.

Se è ancora presto per parlare di “nuova offensiva”, balza all’occhio la tempistica: a Tripoli, dove è fallita la stretta sulle milizie ordinata dal primo ministro Abdulhamid al-Dbeibah, sempre più traballante, sono riprese le manifestazioni antigovernative tre giorni fa, con i manifestanti sempre più convinti nell’invocare il nome di Haftar.


La morte di Abdulghani al-Kikli, detto Ghaniwa, il ras del quartiere Abu Salim, ha rotto lo stallo alla messicana tra milizie e governo nella capitale libica, costringendo Dbeibah a avviare una riorganizzazione profonda degli apparati di sicurezza: l’obiettivo principale è la milizia Rada, la Forza di deterrenza speciale guidata dal salafita Abdoulraouf Kara, ma l’insuccesso del governo è anche nelle decine di morti causati da questa operazione. Morti che, a loro volta, hanno gettato benzina sul fuoco del malcontento.


Dietro le quinte, la Turchia osserva con occhio attento e uomini sul campo: se ufficialmente continua a sostenere Dbeibah – offrendo persino rifugio in caso di sue dimissioni e fuga – Ankara non sembra voler ostacolare i piani del generale di Bengasi. Al contrario: secondo fonti locali, tra 1.500 e 2.000 uomini delle forze di Haftar sarebbero attualmente addestrati da istruttori turchi e il governo di Ankara avrebbe anche autorizzato la vendita di droni armati all’esercito orientale. Una cooperazione militare ambivalente, i cui contorni non sono ancora delineati.


Negli ultimi giorni Haftar ha mostrato i muscoli: tre giorni fa, il viceministro della Difesa russo Yunus-Bek Yevkurov ha visitato la nuova “Città militare del maresciallo Khalifa Haftar” vicino Qaminis, a ovest di Bengasi, e ha assistito alla parata militare organizzata per l’anniversario dell’inizio dell’Operazione Dignità, dove sono sfilati gli ultimi pezzi pregiati che il feldmaresciallo ha portato a casa dal viaggio in Russia di inizio maggio: in particolare, è stato fatto sfilare il sistema missilistico a corto raggio Tor-M2E ma anche il lanciarazzi a medio e lungo raggio Smerch, anche se non si hanno ancora evidenze che questi siano presenti nella colonna di mezzi che sta muovendo verso Tripoli da sud.


Le manifestazioni nella capitale e l’avanzata del feldmaresciallo non sono l’unico termometro della crisi libica: il governo di Dbeibah ha perso pezzi e se Haftar non commenta, ma muove le sue pedine, il presidente della Camera dei rappresentanti, con sede a Tobruk, Alguila Saleh invece ci va giù pesante contro il primo ministro, invocando le sue dimissioni volontarie «o con la forza» e avviando consultazioni, la cui legittimità tuttavia non è chiara nemmeno al giurista più raffinato. Ma, in realtà, nulla è chiaro nella Libia di oggi, se non una crisi politica che potrebbe diventare militare.


C’è inoltre un terzo fronte, meno appetibile ai media ma che è un buon barometro della crisi attuale: l’economia. La Banca centrale libica, nei primi quattro mesi dell’anno, ha registrato un disavanzo mostruoso, 4,5 miliardi di dollari di deficit che non si capisce dove siano andati a finire e a cui si sommano circa 1,5 miliardi di dollari di arretrati con i fornitori, specialmente quelli di carburante raffinato. Questo debito nasce dalla sospensione, tre mesi fa, del programma – piuttosto controverso – che permetteva alla Libia di scambiare petrolio greggio con prodotti raffinati.

Questo ha creato un terremoto nel sistema della spartizione delle risorse tra Tripoli e Bengasi, tra gli uomini di Dbeibah e quelli di Haftar, e non a caso sono ripresi gli atti vandalici contro gli impianti e gli oleodotti e Bengasi minaccia di dichiarare lo stato di “forza maggiore” sui pozzi della Cirenaica. La produzione petrolifera stabile (1,4 milioni di barili di petrolio e 2,6 miliardi di piedi cubi di gas al giorno) e l’assenza di regole nello spartirsi questa immensa torta è certamente una concausa delle altre due crisi.



Fonte: ilmanifesto.it - 31 maggio 2025

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