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MEDITERRANEA. Partita la seconda missione in mare. I report di una giornalista di "Domani" a bordo

LE MALETESTE

2 nov 2025

I diari quotidiani di MARIKA IKONOMU, giornalista e inviata del quotidiano "Domani" a bordo della nave "Mediterranea" appena dissequestrata dal Tribunale dopo essere stata fermata dal Ministro degli Interni, Piantedosi + Un intervento-preambolo di LUCA CASARINI

Anteprima


“Spazzatura”

di Luca Casarini

30 ottobre 2025, h.7.46


Mentre la nave del soccorso civile Mediterranea lascia finalmente il porto di Trapani, dove il Ministro Piantedosi l’aveva sequestrata, illegittimamente secondo i giudici, vengono in mente le parole dello scrittore Joseph Conrad: ”Una nave in darsena, circondata dalle banchine e dai muri, ha l’apparenza di una prigioniera che medita sulla libertà, con la tristezza di uno spirito libero, messo a freno…”.

Mediterranea era stata imprigionata, fermata, dal Ministero degli Interni. Sarebbe forse il caso, come ha fatto Trump rinominando il Ministero della Difesa in “Ministero della Guerra”, di rinominare anche quello italiano: “Ministero per il blocco ai soccorsi”, o più trumpianamente “Ministero della guerra ai migranti”. Il pretesto utilizzato per fermare l’attività di ricerca e soccorso, aveva a che fare con la “disobbedienza” ad un ordine sempre impartito dallo stesso ministro. Tra l’imbarazzo della Guardia Costiera e della Sanità Marittima, Piantedosi voleva imporre che dopo l’ultimo soccorso, i dieci ragazzi profughi Kurdi salvati dalla morte in mare, fossero sottoposti alla tortura di altri cinque giorni di navigazione, lungo tutta l’Italia tirrenica, su fino al mar ligure, con destinazione Genova. Migliaia di miglia, non solo non verso il “porto più vicino” come prevederebbe la Convenzione di Amburgo, ma fino a quello più lontano possibile. Le valutazioni dei medici sul “grave stato traumatico dei dieci esseri umani soccorsi? Carta straccia per Piantedosi.


Quando il comandante e il capomissione decisero di non obbedire a quell’ordine ingiusto, recandosi al porto di Trapani dove i naufraghi poterono sbarcare ed essere curati, Piantedosi mise in atto la rappresaglia: due mesi di sequestro della nave e diecimila euro di multa. Fece anche uno dei suoi tweet celebrativi dei suoi successi, quelli che ogni giorno ricordano il suo “eroismo” nella guerra contro i migranti: rivendicava la vendetta contro chi aveva osato “disobbedire allo Stato”, e dietro a lui come “un sol uomo”, tutte le truppe della destra. Da Salvini alla Montaruli, da Donzelli alla Donazzan. Il partito della Meloni, con tanto di card ufficiale, tronfio come sempre.


Quando Mediterranea ha vinto il ricorso davanti ad una giudice del Tribunale civile che ha immediatamente sospeso “un provvedimento immotivato, inutilmente penalizzante e dal dubbio profilo legale”, tutti muti. Nemmeno una parola. Il capomissione di Mediterranea, mentre la nave entrava nel porto di Trapani con i naufraghi, aveva rilasciato una dichiarazione forte: “trattano le persone come sacchi di immondizia”. Si riferiva sia alle milizie libiche, quelle che di giorno fanno la polizia di frontiera – usare il termine guardia costiera è un insulto alla storia dei corpi di salvataggio in mare di tutto il mondo- strapagati dall’Italia, e di notte arrotondano con il business del traffico di esseri umani, sia al nostro Ministro, per il quale l’interesse per la salute dei migranti, chiusi in un lager libico o sopravvissuti in mare, è pari a zero.


Sono solo “futura feccia” come diceva dei banlieusard il detenuto Sarkozy, che per coprire i finanziamenti illeciti alla sua campagna elettorale, ha solo scatenato una guerra. Sono sacchi di immondizia quando vengono gettati nei CPR, senza aver commesso alcun reato e trattati peggio del 41 bis. Sono sacchi di immondizia, e non esseri umani, quando l’autocrate Saied in Tunisia, li deporta nel deserto, bambini compresi, o li fa ammazzare a bastonate in mezzo agli ulivi della periferia di Sfax.


Si è mai sentito Piantedosi richiamare qualcuno dei tagliagole con cui si intrattiene al Viminale, quelli tipo Almasri, al rispetto anche minimo dei diritti umani? Si è mai sentita la premier, tra un Piano Mattei e l’altro, protestare per le fosse comuni in Libia, per le torture, per gli annegamenti provocati dai suoi “amici” del governo di Tripoli o della giunta militare di Haftar? No, e non li sentiremo. Per chi considera persone sacchi di immondizia, non vi è ragione di farla tanto lunga. Ci vogliono discariche, si possono buttare a mare, si possono seppellire. E chi vuole l’immondizia a casa sua? Il “rusco”, come dicono a Bologna, bisogna buttarlo fuori da casa, non farlo entrare.


Singolare che papa Leone abbia usato la stessa formula nel suo discorso ai movimenti popolari: “…migranti vulnerabili vittime di abusi e trattati come “spazzatura”. Qualcuno, nei giornali, ha cercato di “delimitare” agli Stati Uniti di Trump e delle deportazioni selvagge, questo riferimento del pontefice al trattamento disumano degli Stati contro le persone migranti. Ci ha pensato il cardinale Czerny, prefetto del Dicastero per lo sviluppo umano integrale e molto vicino a papa Leone, a chiarire in una intervista: “Si riferiva anche all’Italia”. Ma tutti muti, anche davanti alle parole chiarissime di papa Leone. Come facevano con Francesco. Cattolicissimi, cristiani a tal punto da rivendicarlo con il rosario in mano durante i comizi, sempre in prima fila alla Messa domenicale, ma, su questo, muti.


Il loro silenzio, da “sepolcri imbiancati” evangelicamente parlando, permette oggi all’equipaggio di Mediterranea, una straordinaria crew proveniente da molti paesi, di sentire solo il rumore del mare. Perché, per fortuna, se un manipolo di potenti è arrivato a trattare degli esseri umani come spazzatura, ci sono migliaia di persone che invece li considerano per quello che sono: appartenenti alla comune famiglia umana.


La capomissione, Sheila Melosu, giovane donna palermitana, ha le idee chiare: “sentiamo la necessità di intervenire in una situazione drammatica, quella del Mediterraneo centrale: solo nelle ultime due settimane si è avuta notizia di quattro naufragi con conseguenze tragiche, due nei pressi di Lampedusa, uno al largo delle coste tunisine di Madhia e uno a pochi metri dalla spiaggia libica di Sabratha, con decine di vite perdute in mare”.


Secondo le Nazioni Unite, i morti accertati da inizio anno sono 1400. Decine di migliaia sono le vittime di catture e deportazioni nei lager libici, finanziate da Unione Europea, Italia e Malta.


Mediterranea va incontro a questi fratelli e sorelle, per aiutare la vita e contro la morte. Come tutte le altre navi di soccorso che la società civile ha messo in campo per colmare il vuoto di istituzioni che vedono solo sacchi di spazzatura. Non è un vuoto di mezzi, di denaro, di eserciti, di tecnologie, di potere, quello delle istituzioni. E’ un vuoto etico, morale, umano. Il disumano si è accomodato tra di loro, ma non deve stare tranquillo. C’è chi agisce, con gioia e con speranza, per cacciarlo dalle nostre vite. Difronte a questa sfida, conta così tanto Piantedosi?

Buon vento Mediterranea.


Fonte: FACEBOOK (https://www.facebook.com/luca.casarini.54/posts/pfbid02Dqhv5KdwP7tsogWDYVVYUw4EaeQyYTFbPtmSBnFGV3imDPfyvTbjzZFsHXEgJsmZl?__cft__[0]=AZUwBh1h07gCwobIYLfSBgC0aN48TKlNUzokktyJnHUbP3vqo8bDs0LvH9BmDNBe9bU_vox5ugelyFuM2y62Tr8JkexRoCQpLKDvgAL8dLBf0FFRpwszc0ZdM535hIdUC3y54vOR8dfHEJHt4wJPMQmD8f6qhpUcim4Oj0mkvyCjdA&__tn__=%2CO%2CP-R)






Il quotidiano "Domani" è a bordo della nuova nave della ong "MEDITERRANEA" con una sua giornalista, MARIKA IKONOMU


Domani è a bordo di Mediterranea – la nuova nave di Mediterranea Saving Humans in mare per la sua seconda missione – per documentare le attività di ricerca e soccorso che l’organizzazione svolge nel Mediterraneo centrale



diario di bordo dalla nave Mediterranea / 1

Come si prepara una nave di soccorso civile: Mediterranea parte per la sua seconda missione


di Marika Ikonomu

29 ottobre 2025 • 12:13 / Aggiornato, 30 ottobre 2025 • 19:35


 «L’organizzazione inizia mesi prima, con la disponibilità degli attivisti e delle attiviste e la preparazione di ciò che serve per l’equipaggio e per accogliere i naufraghi», spiega la capo missione Sheila Melosu.


L’ultimo passaggio prima della partenza è il gasolio. Ci vogliono ore per fare quello che nel linguaggio della navigazione si chiama bunkering. E per riempire i serbatoi di Mediterranea, la nuova nave di Mediterranea Saving Humans - perché parta per la sua seconda missione di ricerca e soccorso - servono circa 90 tonnellate di carburante, che equivalgono ad almeno 90mila euro.


«Il lavoro della missione inizia mesi prima», spiega Sheila Melosu, capomissione della 23esima operazione nel Mediterraneo centrale, in partenza da Trapani con l’obiettivo di soccorrere le persone migranti che viaggiano dalle coste della Libia e della Tunisia verso l’Europa. 


Non si tratta solo di una missione umanitaria. «Non si può non guardare quello che accade nel Mediterraneo. L’Europa e soprattutto l'Italia hanno un ruolo centrale». Da un lato, spiega Melosu, è un’azione che vede le frontiere come «costruzione inutile e pericolosa», dall’altro denuncia le «violenze continue della cosiddetta guardia costiera libica nei confronti delle persone migranti e delle ong e della Garde Nationale tunisina, che opera respingimenti e violenze, oltre ai naufragi a cui assistiamo quotidianamente».


La flotta civile

Tra il 2018 e il 2025, l’organizzazione ha portato a termine 22 missioni di ricerca e soccorso: prima con la Mare Jonio, un rimorchiatore del 1972, e poi con la nave comprata ad agosto dalla Sea Eye, che ha preso il nome di Mediterranea. In mezzo, c’è stata anche Safira, una barca a vela. In tutto, l’organizzazione ha soccorso 1.457 persone. 


In dieci anni, secondo i dati dell’Oim, 77.330 persone sono morte o scomparse cercando di attraversare un confine. La rotta più letale rimane il Mediterraneo con almeno 32.872 persone scomparse, 1.397 nel 2025. E, nello specifico, il Mediterraneo centrale. I naufragi di cui si viene a conoscenza non sono nemmeno tutti quelli che avvengono: «Non bisogna dimenticarsi i naufragi fantasma», sottolinea la capomissione. 


Nonostante questi numeri, in un mare svuotato dalle politiche delle istituzioni, anche alla Mare Jonio a settembre 2014 è stato di fatto impedito di fare attività di ricerca e soccorso. «Negli ultimi anni è aumentata incredibilmente la criminalizzazione delle ong: dai porti chiusi di Salvini, ai decreti Piantedosi che hanno colpito prima le navi più grandi e ora anche gli aerei della società civile», spiega Melosu. E aggiunge: «Stanno cercando in tutti i modi di bloccarci, come se i trafficanti di esseri umani fossimo noi. È inaccettabile la narrazione del governo, secondo cui noi che andiamo in mare con salvagenti siamo i cattivi, mentre la cosiddetta guardia costiera libica, che arriva con i mitra, è da difendere». 


Il 14 ottobre la maggioranza ha salvato il rinnovo automatico dell’intesa con la Libia, conclusa nel 2017 dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti. A partire dal prossimo 2 novembre l’accordo sarà dunque rinnovato per altri tre anni. Anche Mediterranea ha testimoniato la violenza dei libici, quando ad aprile 2024 la guardia costiera di Tripoli «ha operato manovre violentissime durante un’operazione di soccorso facendo sì che gente si buttasse in mare». Hanno sparato colpi di arma da fuoco contro i naufraghi e contro i soccorritori.


Come si prepara una nave

Preparare la nave per questo tipo di missioni è complesso. «Calendarizzare le disponibilità delle persone, gli attivisti e le attiviste che vengono a bordo, è la priorità», racconta Melosu. Dalla plancia di comando spiega che anche la nave ha molte necessità: «Tutto ciò che serve per accogliere i naufraghi quando operiamo un soccorso. Vestiti, cibo, acqua. Le stesse cose servono all’equipaggio, quindi organizzare la cambusa». Nei giorni al porto di Trapani prima della partenza c’è stato un via vai di rifornimento.


Melosu per la quarta volta copre il ruolo di capo missione. Ha 39 anni e una formazione da Project Manager. Organizzava eventi culturali, prima di ricevere la telefonata che le ha annunciato l’acquisto della Mare Jonio: è tornata a Palermo, la sua città, contribuendo a rendere operativa la nave. Quello della capomissione è un lavoro di coordinamento che deve tenere insieme le diverse aree di una nave e fare in modo che tutta la macchina possa funzionare bene: la Rescue Coordination, la decisione insieme al comandante della strategia di navigazione, il Rescue Team, la Guest Coordination.


Con le persone soccorse a bordo, serve poi gestire l’area medica. E, infine, è la figura che insieme al comandante prende le decisioni e ha la responsabilità di gestire le comunicazioni con le autorità nel momento in cui si parla di Pos, place of safety, il punto di sbarco sicuro.


La vita a bordo

Sulla nave, battente bandiera tedesca, c’è sia personale marittimo sia passeggeri, attiviste e attivisti. Dal comandante al direttore di macchina, al primo ufficiale di coperta. Il coordinatore dell’area Sar, un medico, due infermieri, un cuoco, due Rhib driver, così viene chiamato chi guida i gommoni per il soccorso. Gerda e Maria sono i nomi dei Rhib (Rigid Hull Inflatable Boat) a bordo della nave. Per la capo missione è «un equipaggio bellissimo» perché proviene da diverse parti d’Europa e non: Croazia, Grecia, Polonia, Belgio, Spagna, Canada e Italia. In tutto 22 persone. 


Mentre il comandante e il primo ufficiale tracciano la rotta di Mediterranea sulla carta nautica e segnano i waypoint (i punti di riferimento geografici), prima della partenza, la vita a bordo è stata scandita da turni di pulizia e, soprattutto, dai training. Bisogna prepararsi a tutte le situazioni possibili: lanciare i salvagenti, mettere in mare i Rhib, assegnare i ruoli durante un soccorso ridotto o uno con decine di persone ferite, per cui è necessario che ogni persona dell’equipaggio cambi ruolo. E tra un training e l’altro è arrivata la conferma: si parte e la rotta è verso sud. 


***


Diario di bordo dalla nave mediterranea / 2

Il filo rosso che lega Gaza al Mediterraneo. I corpi raccontano storie


di Marika Ikonomu

30 ottobre 2025 • 19:51 / Aggiornato, 30 ottobre 2025 • 20:47


Il team sanitario a bordo è composto da un medico e due infermieri. Ma lo spazio di una nave è ridotto e tutto l’equipaggio, nel caso in cui ci siano molti pazienti critici, deve essere istruito. Essere in mare è «un dovere assoluto di fronte alla vergogna di quello che continua a succedere nell’indifferenza totale»


«I corpi raccontano, soprattutto le ferite». Amanda Prezioso ha 36 anni ed è tornata da pochi mesi dalla Striscia di Gaza, dove ha lavorato in due missioni come infermiera nella clinica di Emergency. Fa parte del team sanitario di Mediterranea, la nave della flotta civile che è tornata in mare per la seconda volta.


«A Gaza ho visto molte persone con spari alla schiena. Questo racconta una dinamica: fa capire che la persona in quel momento si stava allontanando da chi ha sparato. Significa che era in fuga. Oppure in Afghanistan molti bambini arrivavano in clinica senza una mano: sappiamo che stavano afferrando qualcosa che poi si è rivelata essere una mina», spiega Prezioso. È la sua prima missione in mare, ma ha esperienza nel campo umanitario: a Gaza, in Afghanistan e in Ucraina.


Allo stesso modo le persone che attraversano il Mediterraneo portano sul corpo i segni delle violenze e delle torture subite in Libia: «Percosse, tagli, a volte anche ferite autoinferte per la disperazione di trovarsi in quelle situazioni di detenzione». Ne parla dal piccolo ospedale della nave il coordinatore medico della missione, Gabriele Risica, che tutti chiamano Mimmo. È medico cardiologo in pensione e non è la prima volta che si imbarca con Mediterranea Saving Humans. Ha all’attivo cinque missioni e ha anche partecipato all’apertura di un ospedale cardiochirurgico di Emergency in Sudan.


Chi decide di migrare nella maggior parte dei casi è in buone condizioni di salute. Per questo non ci si trova di fronte a patologie croniche, ma a problemi legati al viaggio, come scabbia, raffreddori, bronchiti, mal di mare. Oppure i naufraghi possono avere ustioni da carburante, intossicazioni quando sono esposti ai fumi dei motori.


«Il loro viaggio non solo viene narrato a parole, ma anche per come sono e per lo stato psicologico in cui si trovano», racconta Risica, sottolineando come con il tempo emergano anche i traumi psicologici, per aver «visto episodi di efferatezza che neanche ci immaginiamo. Molti di loro raccontano di aver assistito all’uccisione di persone perché la famiglia non rispondeva al telefono per pagare ulteriormente i carcerieri libici». 


Il lavoro delle ong nel Mediterraneo è, per il cardiologo, un dovere assoluto, «di fronte alla vergogna di quello che continua a succedere nell’indifferenza totale del nostro paese, del nostro governo, dell'Europa in generale».


Il coordinamento medico

Quello che distingue una missione in mare da altre operazioni umanitarie è il personale ridotto, così come gli spazi. Nella nuova nave di Mediterranea c’è, come detto, anche un piccolo ospedale. Tre posti letto, la strumentazione per cure semi intensive e per monitorare le funzioni vitali. Nella 23esima missione di Mediterranea ci sono un medico e due infermieri. «In tre non saremmo in grado di affrontare l’arrivo di molte persone con necessità sanitarie», dice. 


Prima della partenza, mentre la nave era ferma al porto di Trapani, i sanitari hanno quindi insegnato ai marittimi e agli attivisti le manovre che servono in caso di arresto respiratorio o cardiocircolatorio. «Tutto il personale della nave è addestrato, anche per l'utilizzo del defibrillatore semiautomatico, che abbiamo a disposizione», spiega Risica. 


Ci sono due scenari possibili: un soccorso normale, dove i casi con necessità sanitarie sono pochi. Oppure una Mass Casualty, quando il numero di pazienti supera la capacità delle risorse sanitarie. In quest’ultimo caso il team medico ha riorganizzato tutto l’equipaggio. «In qualità di responsabile sanitario», spiega Risica, «avviso il capo missione e il comandante della necessità di dare l'allarme per la Mass Casualty. Se loro concordano, si lancia l'allarme e tutti sanno che cosa devono fare». 


C’è chi è competente della zona verde, dove si posizionano le persone che riescono a camminare e si misurano i parametri vitali. Alla zona gialla sono portate le persone che non riescono a camminare ma che rispondono agli stimoli. Quella dell’ospedale è invece la zona rossa, dove vengono condotti i pazienti in condizioni più critiche, ma ancora salvabili. E, infine, precisa il cardiologo, «purtroppo in una situazione di Mass Casualty bisogna scegliere tra chi è ancora salvabile e chi è in condizioni troppo gravi per poter essere curato».


Ad esempio, non è possibile affrontare arresti cardiaci. C’è infatti una zona nera, dietro l’ospedale, «dove purtroppo vengono portati i cadaveri che recuperiamo dal mare o le persone che sono in condizioni troppo gravi per essere curate». 


L’idea dietro al Mass Casualty Plan, aggiunge Prezioso, che lo ha applicato anche a Kabul, «è di salvare più persone possibili senza purtroppo dedicare tempo ai casi che richiedono molta attenzione e che rallenterebbero il processo per tutti gli altri».


Il filo rosso

Il personale medico ridotto obbliga dunque a istruire chi non ha una formazione sanitaria, anche attraverso diversi protocolli. Andrea Coltelli ha collaborato a scrivere le Sop, le procedure operative standard, di Mediterranea per tutta l’area pediatrica, in cui lui si è specializzato come infermiere. Ci sono quindi linee guida sulla cura del neonato, del cordone ombelicale, sulla sua corretta alimentazione o sulle manifestazioni cutanee tipiche. Così che tutti sappiano riconoscerle. 


Coltelli, oltre alle missioni in mare, è stato anche in Ucraina con Mediterranea. A Leopoli, per un progetto di assistenza di base: «Eravamo lontani dal fronte, ma erano visibili tutte le conseguenze della guerra», racconta. Ed è ciò che accomuna le persone che i tre sanitari hanno incontrato nelle altre missioni e chi attraversa il Mediterraneo: «Per salvarsi la vita, si è costretti a scappare e spesso ci si ritrova a fare una rotta come quella in cui ci troviamo ora», conclude Prezioso.


Il filo rosso per Risica è «il rispetto della persona, che non è un numero, ma una persona con un trascorso, una famiglia, una cultura, delle aspirazioni. Non sono disperati, ma persone piene di speranza». 


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Diario di bordo dalla nave mediterranea / 3

In mare le tracce dei respingimenti fantasma, il coordinatore dei soccorsi: «Crimini quotidiani»


di Marika Ikonomu

31 ottobre 2025 • 18:23 / Aggiornato, 31 ottobre 2025 • 20:12


«Nel 99 per cento dei casi si tratta di respingimenti da parte delle milizie libiche», spiega Iasonas Apostopoulos, coordinatore del team di soccorso di Mediterranea, denunciando la complicità dell’Unione europea


Gran parte del lavoro delle navi della flotta civile, come Mediterranea, è la ricerca di imbarcazioni in difficoltà. «È la parte in cui si investe più tempo, ma è anche quella più importante», spiega Iasonas Apostopoulos, coordinatore del team di soccorso, durante la preparazione della 23esima missione di Mediterranea Saving Humans. 


Da quello che viene chiamato Monkey Island – la zona che si trova sopra la plancia di comando – venerdì mattina, dopo aver superato l’isola di Lampedusa, è iniziato il primo turno di Sar Watch. Navigando in acque internazionali, a sud di Lampedusa e a nord delle acque territoriali libiche, per ore all’orizzonte sono apparse solo piattaforme petrolifere. Poi, verso le 14.30, quando ormai era il turno del terzo gruppo, Fatima – parte del personale marittimo ed è Rhib Driver (incaricata di guidare uno dei due gommoni di soccorso) – con il binocolo ha intravisto qualcosa di azzurro che fluttuava nell’acqua. Difficile capire da lontano cosa fosse. Così il Bridge ha deciso di cambiare rotta e navigare verso il target. 


Man mano ci si è resi conto che si trattava di un barchino azzurro, di legno, vuoto: nessuno a bordo, mancavano anche i motori. «Questo, 99 volte su 100, testimonia un respingimento effettuato dalle milizie libiche che percorrono quest’area», spiega Apostopoulos, che da dieci anni lavora in ambito migratorio, a partire dalla crisi dei rifugiati a Lesbo in Grecia nel 2015, quando in tre mesi arrivarono circa un milione di persone.


«Dopo aver catturato i rifugiati, le milizie rubano tutto: borse, denaro e anche i motori delle barche», continua. E sottolinea come non si tratti di azioni casuali ma «vengano pagate dall’Unione europea per un unico obiettivo: presidiare i confini marittimi dell’Europa contro le persone migranti, fermare le imbarcazioni, rimandando le persone nel circolo del mercato degli schiavi in Libia».


Documentare

Da qui, uno degli obiettivi delle missioni delle ong e della società civile, che sono rimaste le uniche a pattugliare questo tratto di mare: documentare. «Assistiamo a questi crimini quotidianamente», dice il coordinatore del soccorso, «e riportare le persone in aree in cui sono perpetrate atrocità documentate sulle persone migranti è una grave violazione del diritto internazionale».


Esiste un principio sancito a livello internazionale che lo vieta. È il principio di non-refoulement, che impedisce di respingere una persona in un paese in cui la vita e la libertà sarebbero a rischio. E in Libia sono stati diversi organismi internazionali a documentare gravi violazioni dei diritti, a partire dalla commissione di inchiesta dell’Onu. 


«La nostra missione non ha come unico scopo salvare le persone in mare», precisa Apostopoulos, «ma mira anche a testimoniare e contrastare i respingimenti (pushback) e i crimini in mare finanziati dall’Unione europea».


La Sar libica

Dalla firma del memorandum Italia-Libia nel 2017, promosso dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, ad oggi le violenze documentate della cosiddetta guardia costiera libica nei confronti delle navi del soccorso civile sono state una sessantina. Il 2 novembre l’intesa si rinnoverà automaticamente per altri tre anni, un rinnovo assicurato dalla mozione approvata dalla maggioranza lo scorso 14 ottobre.


Se per il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si tratta di «uno strumento indispensabile per proseguire la strategia nazionale di contrasto ai trafficanti di migranti e di prevenzioni delle partenze dalla Libia», per chi da anni svolge attività di ricerca e soccorso in mare «è un percorso non affatto casuale». Tommaso Basilici viene da Genova, è un soccorritore alpino e fa parte di Mediterranea dalla sua fondazione. È uno dei membri del Rescue Team, la squadra che opera il soccorso. 


«Con il memorandum», spiega Basilici, «si è arrivati prima a costruire una cosiddetta guardia costiera libica, finanziandola, fornendo formazione e imbarcazioni. Per poi, in un secondo momento, riuscire a creare un’area Sar libica». Cioè una zona in cui gli stati si impegnano a fare attività di ricerca e soccorso. Dal 2018 la Sar libica è registrata formalmente all’Organizzazione marittima internazionale, l’Imo.


Ma per Apostopoulos è una contraddizione: «Un’area di ricerca e soccorso richiede un luogo sicuro di sbarco dei sopravvissuti. In Libia non c’è nessun posto sicuro. Come può l’Europa riconoscere la Sar libica?».


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Diario di bordo dalla nave mediterranea / 4

L’alert di Frontex, poi i guardacoste libici. «Ennesimo indizio della loro collaborazione»


di Marika Ikonomu

01 novembre 2025 • 19:46 / Aggiornato, 02 novembre 2025 • 10:17


Mediterranea ha risposto a un May Day dell’agenzia Ue per il controllo delle frontiere, ma è stata preceduta dalle motovedette libiche. «Ci hanno detto che erano stati “soccorsi dalla guardia costiera libica”», racconta l’attivista Castiglione, «non può però essere chiamato soccorso, perché la cosiddetta guardia costiera libica cattura e deporta»  


Alle 9.42 dal canale 16, quello riservato alle emergenze, è stato lanciato un May Day Relay, il più alto grado di allerta in mare. «Una barca con circa 40 persone a bordo, che viaggia a quattro nodi, in direzione 330 gradi. Eagle 1», dice il messaggio via radio. A lanciarlo è stata Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, dal uno dei suoi cinque mezzi aerei. Mediterranea ha risposto al May Day e ha cambiato la direzione, verso il target. 


«Ci siamo messi in rotta con poca speranza: erano a circa 30 miglia dalla costa libica e a 3-4 ore di navigazione da dove ci trovavamo noi. Sapevamo che avrebbero potuto precederci le motovedette libiche», spiega Danny Castiglione. Da anni attivo nei movimenti in Veneto, è dentro Mediterranea dal primo giorno. In questa 23esima missione è Rhib Driver, ha il compito di guidare il gommone di soccorso, ha aiutato con la logistica e si occupa anche della parte informatica. 


E, infatti, è andata così: «Abbiamo chiesto un aggiornamento sulla posizione dell’imbarcazione e Frontex ci ha risposto che erano stati “soccorsi dalla guardia costiera libica”». Non può però essere chiamato soccorso, ribadisce Castiglione, «la cosiddetta guardia costiera libica cattura, deporta, li riporta nei centri di tortura. Non è esattamente quello che fa una guardia costiera istituzionale di un paese democratico».


Da anni le organizzazioni denunciano che la Libia non può essere considerata un luogo di sbarco sicuro. Lo ha sancito anche la Cassazione a febbraio 2024. 


«Ma l’Italia e l’Unione europea continuano a riconoscere le autorità libiche come partner strategici e come una guardia costiera a tutti gli effetti – dice Castiglione – e oggi purtroppo abbiamo visto l’ennesima violazione dei diritti umani e l’ennesima sospetta collaborazione di Frontex con le autorità libiche».


La strategia di Frontex

L’agenzia Ue per il controllo delle frontiere ha via via cambiato strategia, virando sugli assetti aerei e sui droni e abbandonando l’uso di imbarcazioni nel Mediterraneo. Questo significa non avere l’obbligo di soccorso, ma pattugliare dall’alto. Per Castiglione «la motivazione è politica», in questo modo «si danno le informazioni alle autorità libiche e tunisine e, di conseguenza, la possibilità di far catturare le persone». 


Ne sono la prova le decine di barche che si trovano nel mare che separa Lampedusa dalla Libia e dalla Tunisia. In soli due giorni, Mediterranea ne ha viste tre, due – una di legno e un gommone – ancora galleggianti e un altro gommone affondato. Se la nave della flotta civile fosse passata qualche giorno dopo non ci sarebbe stata traccia di quell’imbarcazione. E nessuno avrebbe saputo. 

Le organizzazioni della società civile tengono traccia e documentano, ma «quante persone c’erano a bordo? Ci sono stati morti?», continua l’attivista, «dovrebbe essere il governo a chiedere dati precisi, visto che considera la Libia un partner strategico».


Castiglione dal 2022 ha partecipato a tutte le missioni di Mediterranea, in alcune anche con il ruolo di capo missione. E nella sua esperienza, così come in quella delle altre organizzazioni della flotta civile, la nuova prassi di Frontex consiste spesso nel lanciare il May Day dopo che ci sono già state interlocuzioni con la cosiddetta guardia costiera libica o la Garde Nationale tunisina. «Molto spesso mandano la segnalazione via radio perché vedono che nell’area ci sono gli assetti della flotta civile», dice l’attivista.


Negli anni, poi, le organizzazioni del soccorso civile in mare hanno osservato un’escalation di violenza da parte della cosiddetta guardia costiera libica. Ad aprile 2024, dalla motovedetta Fezzan sono stati sparati colpi di arma da fuoco verso i naufraghi e i soccorritori di Mediterranea. Ad agosto 2025, i guardacoste hanno gettato dieci persone in acqua e poche settimane dopo hanno colpito la nave di Sos Méditerranée, la Ocean Viking. E anche oggi, sabato 1 novembre, si sono intraviste due imbarcazioni dei guardacoste libici. Castiglione stava facendo il primo turno di Sar Watch quando ha visto due assetti veloci in lontananza. 


Come arrivano le segnalazioni

I May Day Relay lanciati da Frontex sono solo uno dei modi in cui le organizzazioni del soccorso civile ricevono le segnalazioni di imbarcazioni in difficoltà. Solitamente, spiega, «capiamo che c’è un target quando il velivolo dell’agenzia inizia a girare intorno a un punto». Spesso, anche se non viene dato l’allarme, si capisce che c’è interesse in quell’area vedendo i tracciamenti degli aerei di Frontex. Ma anche aerei militari o aerei della flotta civile – come Sea Bird di Sea Watch – possono lanciare allarmi. 


C’è poi Alarm Phone, una centrale operativa che mappa la maggior parte dei casi perché viene contattata con i telefoni satellitari, qualora le persone migranti che attraversano il Mediterraneo ne abbiano uno. A volte l’organizzazione riesce a fornire informazioni precise e poi contatta tutti i centri di coordinamento marittimi che coordinano le guardie costiere, quindi Malta, Tunisia, Italia e Libia. 


E, infine, c’è il binocolo. Tre turni da quasi quattro ore l’uno dal Monkey Island, la zona che si trova sopra la plancia di comando. Da qui, finora in questa missione si sono viste piattaforme petrolifere e gommoni fantasma. 


«Quello che vuole la politica italiana e europea nel Mediterraneo centrale è la normalizzazione di ciò che accade. Le morti in mare non devono più far notizia», conclude Castiglione. E ricorda: «L’Ue, l’Italia, potrebbero tranquillamente aprire una missione internazionale di ricerca e soccorso. Se qualcuno se ne occupasse noi smetteremmo subito». Ma l’Unione e gli stati membri continuano a investire in operazioni di polizia, abbandonando invece quelle di ricerca e soccorso.



Fonte: DOMANI (https://www.editorialedomani.it/tag/diario%20di%20bordo%20mediterranea)




Marika Ikonomu

Giornalista di Domani. È laureata in Giurisprudenza

e ha frequentato la scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso.

Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di diritti, migrazioni,

questioni di genere e questioni sociali

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