top of page

MOVIMENTI TERRITORIALI. "Zone di sacrificio" e territori in lotta

🌾 LE MALETESTE 🌾

25 mag 2025

NO-TAV INFO intervista la ricercatrice-militante PAOLA IMPERATORE (I e II parte)

VALLE DI SUSA. I primi due cantieri stanno cominciando a mostrare le loro conseguenze disastrose sul nostro territorio, un terzo sta per essere installato e sarà potenzialmente il più impattante su tutto l’eco-sistema (ambientale, economico e sociale) valsusino. Vediamo sempre meno risorse stanziate per il nostro territorio, servizi basilari dal trasporto pubblico all’istruzione, dalla sanità alle opere per il dissesto idro-geologico, sempre più in difficoltà, il tutto per dirottare denaro su guerra e grandi infrastrutture che hanno funzioni “dual-use” (civile e militare).


La Val di Susa è stata eletta a zona di sacrificio in favore di una opera “strategica” (ma per chi?) e non importa quanta devastazione, impoverimento, disastri ambientali, perdita di biodiversità, salute, abbandono della propria terra dovrà costare al territorio e all* valsusin*, noi siamo solo un “prezzo che loro sono disposti a pagare” per il loro obiettivo.


Ribellarsi a questo destino già segnato è ciò che ci sta muovendo oggi a continuare una lotta trentennale e quella dello scorso sabato è solo la prima tappa di un percorso per continuare a liberarci da un colonizzatore interno e garantirci la possibilità di un futuro.


Movimento NO TAV, inizi di maggio 2025



L'intervista di No-Tav info alla ricercatrice-militante Paola Imperatore


Se ti va di iniziare cominciando a presentarti e posizionarti, così inquadriamo un po’ le tue ricerche e da dove si sviluppa il tuo punto di vista.

Sono una ricercatrice precaria all’Università di Pisa dove mi occupo di ecologia politica, ecologia operaia, e sono anche una militante; quindi, sono impegnata nel mio territorio nelle varie battaglie, come quella contro la base militare prevista nell’area del parco di San Rossore.


Da ormai una decina d’anni faccio ricerca nell’ambito di conflitti ambientali e territoriali. Sono partita da un evento più vicino a dove abito, l’alluvione che nel 2014 ha colpito Carrara, che ha fatto emergere il legame tra la distruzione del territorio, l’estrattivismo legato al settore lapideo nelle Alpi Apuane e gli effetti che poi si registravano a valle sulla comunità.


In quell’occasione ci fu una mobilitazione enorme che portò all’occupazione del Comune che durò per più di due mesi e che diede vita ad un’Assemblea Permanente. In quel caso, quello che mi colpì molto fu vedere come quel meccanismo di devastazione avesse innescato un processo comunitario molto forte, senza precedenti. In generale, mi incuriosiva la capacità di aprire intorno alla difesa del territorio uno spazio politico nuovo.


A partire da questa esperienza, ho continuato a fare ricerche sui conflitti territoriali e ho avuto un po’ la fortuna e l’occasione di incontrare territori e lotte differenti: da quelle contro gasdotti come Tap e Rete Adriatica, a quelle contro le Grandi Navi, il Muos, il Terzo Valico, l’estrazione intensiva di marmo. Allargare lo sguardo a quello che succedeva lungo tutto lo stivale mi fede anche rendere conto che alcune dinamiche di sfruttamento non sono eccezionali, ma ordinarie e strutturali, e che d’altra parte era necessario approfondire in modo altrettanto strutturale anche il lato della contestazione e quello che da essa poteva nascere.



Partiremmo con la prima domanda che un po’ ci interessa approfondire, per poi arrivare sulla parte che ci tocca più da vicino alla lotta in Val di Susa. Che cos’è una zona di sacrificio, quali sono le sue caratteristiche e quali sono i meccanismi che portano un territorio a trasformarsi ed a essere eletto in quanto tale?

La definizione proviene dagli Stati Uniti e dal gergo burocratico-militare che definì Zone di Sacrificio Nazionale quelle aree del Paese che venivano individuate per depositare le scorie radioattive legate ai test nucleari. Quindi, già nella sua origine, pur venendo dall’alto come concetto, emerge subito la dimensione di sacrificio per alcuni luoghi considerati di serie B. Negli ultimi anni questo concetto è stato recuperato dal basso, dai movimenti sociali e dall’ecologia politica per identificare territori e comunità di scarto che in qualche modo vengono definite sacrificabili in nome di un presunto interesse collettivo.


La domanda interessante è, non solo cosa denota il concetto di zona di sacrificio, ma anche come si diventa una zona di sacrificio e quali processi innescano questa dinamica centro-periferia che ha tante forme e che dà luogo a una geografia del potere che non è granitica ma che si muove continuamente secondo linee di potere. Se storicamente il rapporto gerarchico tra centro e periferia si innestava nella frattura tra paese colonizzatore/colonie e in quella città/campagna, credo che la violenta ondata di mercificazione del vivente sostenuta dalle politiche neoliberiste degli anni Novanta abbia moltiplicato in modo significativo il numero di territori e comunità divenute sacrificabili, mettendo in evidenza come la periferia non sia tanto una delimitazione geografica quanto una condizione di marginalità che tocca da vicino anche le nostre vite.


Quando si pensa alle zone di sacrificio, si pensa a quei territori che vengono ritenuti ricattabili, poveri, a basso costo, competitivi e convenienti per il capitale. La competitività proviene dal fatto che i costi della terra, i costi fondiari, siano bassi, che si possa reclutare manodopera a basso costo e che si possa contare su istituzioni con scarso potere di negoziazione. Inoltre, molto spesso, una delle scommesse di chi investe nei territori marginali – o meglio, resi marginali – è quella di non incontrare resistenza. Questa è una cosa molto interessante perché, prima di essere presentati e messi in atto, molti dei progetti che vengono valutati e stimati dalle imprese, sono stimati anche in base al rischio di eventuali contestazioni (per esempio furono proprio questi criteri che mossero la scelta di Melendugno in Puglia per posizionare TAP).


Da questo punto di vista è però importante notare che tante volte queste valutazioni sono errate, perch non tengono conto delle capacità di reazione delle comunità e dei territori, e della loro attitudine a mettersi in moto quando le proprie condizioni di vita e sopravvivenza vengono minacciate.


Questi sono sicuramente elementi di contorno che le aziende e le istituzioni valutano quando scelgono chi può essere sacrificato, ma ce ne sono anche altri: quali vite, quali comunità contano di meno dentro la scala del valore capitalista? A tal proposito, mi viene in mente una riflessione di Razmig Keucheyan (1), un sociologo francese, sul razzismo ambientale. Lui partiva un po’ dal fatto – emerso grazie alle mobilitazioni delle persone razzializzate – che negli Stati Uniti la maggior parte delle discariche di rifiuti chimici e tossici fossero localizzate vicino ad aree abitate da persone nere.


Nello spiegare questo meccanismo cercava di mettere in chiaro un elemento: non è che un’azienda individua una comunità di persone nere o – traslando il discorso all’Italia – una comunità di persone meridionali o persone povere e decide di conseguenza di andare lì. Semplicemente il mercato ha un meccanismo molto razionale di allocazione delle risorse e sceglie di andare dove i prezzi sono più bassi. Il punto è che la presenza, in quei territori, di alcune categorie inferiorizzate fa sì che il prezzo di quelle terre e quegli immobili sia più basso, che valga meno, rendendo competitivo per il mercato investire lì. Questo evidenzia la dinamica di sedimentazione spaziale delle diseguaglianze, ovvero come la discriminazione agisce su scala spaziale aumentando i margini di accumulazione del capitale.


Quello che poi caratterizza la zona in sacrificio è la logica di scambio ecologico ineguale. Il modello estrattivista regge sullo strutturale processo di estrazione di risorse, manodopera e natura, da territori considerati inferiori verso i centri economici e finanziari. Questo è un meccanismo che va messo bene a fuoco perché ci aiuta a capire quando viene riprodotto anche in chiave green o con retoriche diverse.

Concentrarsi su cosa si produce è necessario ma non sufficiente. Sicuramente ci sono un produzioni o infrastrutture problematiche di per sé, ma anche quando non sono immediatamente e chiaramente problematiche dobbiamo capire entro quale meccanismo si iscrivono e quindi quale logica vanno ad asservire e assecondare.


Per concludere, quindi, in questo senso ciò che caratterizza la zona in sacrificio è l’elemento di costante inferiorità rispetto ai centri economici e finanziari che determinano quel flusso e quella logica.



Secondo te, i processi di industrializzazione quanto sono contati in passato nell’elezione di alcuni territori a zone di sacrificio e quanto contano al giorno d’oggi in questo sistema nuovi processi come, ad esempio, la transizione energetica?

Pur concentrandomi negli anni in particolare sui processi che si sono innescati con il neoliberismo e con la globalizzazione, di sicuro, puntando lo sguardo al Novecento, ci si rende conto che il polo industriale è un po’ la cifra del modello di sviluppo di quel secolo: in qualche modo intorno a questo si sono innescate delle trasformazioni, dei meccanismi e dei processi che successivamente abbiamo conosciuto anche noi e che hanno portato a delle impasse in cui siamo ancora oggi impantanati. Penso all’Ilva, ma anche a tantissimi poli petrolchimici o altre industrie con le quali abbiamo difficoltà a trovare delle forme di fuoriuscita dal ricatto strutturale.


Guardando invece dagli anni Novanta ad oggi – e il TAV in Valsusa ha fatto un po’ da preludio a quello che poi sarebbe successo altrove – la grande opera è diventata a mio avviso il principale meccanismo di accumulazione del capitale: una volta cambiata e riorganizzata lacatena del valore su scala globale, i territori a quel punto dovevano fungere da supporto economico alla globalizzazione, quindi in qualche modo funzionare da anelli di questa catena economica globale che aveva bisogno sempre di più di linee di trasporto ad alta velocità, hub del gas e tutta un’altra serie di infrastrutture che oggi sono pensate, progettate su scala globale e che rispondono a esigenze di un mercato finanziario su scala mondiale. Tanto intorno al TAV quanto intorno a TAP gli interessi in gioco non possono assolutamente essere circoscritti né al territorio né al contesto nazionale, ma chiamano in causa tutta un’altra serie di soggetti, di attività, di strategie speculative.


Quando parliamo di grande opera parliamo di qualcosa di molto specifico. Non parliamo di un’infrastruttura che è grande, ma parliamo di un paradigma ben preciso che ha delle caratteristiche e che è totalmente disgiunto e dissociato dalla dimensione sociale. I movimenti popolari ed ecologisti negli anni hanno lottato per avere delle infrastrutture, quindi è fazioso trattare i movimenti contro le grandi opere come movimenti che si oppongono all’esistenza di infrastrutture e al progresso. Al centro della discussione c’è un’altra questione, ovvero: “questa infrastruttura a chi serve? per quale motivo la facciamo? a quale bisogno risponde?”, ed è questo che in qualche modo i movimenti hanno messo in evidenza negli ultimi anni nel contestare la grande opera appunto come paradigma di governo dei territori.


Da un lato la grande opera risponde alle logiche di trasformazione del capitalismo su scala globale, dall’altro agisce su una serie di assi che consentono in qualche modo a questo meccanismo di stare in piedi e di riprodursi.


Il primo è la socializzazione dei costi e la privatizzazione dei profitti che è un elemento che abbiamo visto essere ricorrente ma anche strutturale, nel senso che la maggior parte degli investimenti in grandi opere non avrebbero senso di esistere, non sarebbero mai promossi da nessuno se non ci fosse la possibilità sistematica di scaricare tutti i costi sociali, ambientali e sanitari verso il basso e incassare solo i profitti. Questo aiuta anche a capire per quale motivo si aprono cantieri che non terminano mai: il vero obiettivo è mettere in moto un meccanismo di spartizione economica e non raggiungere un fine che potrebbe essere contestato ma quantomeno chiaro.


Il secondo elemento è l’imposizione di un regime di eccezionalità nel governo dei territori. Questa condizione, se nei primi anni si è in qualche modo manifestata come una conseguenza della grande opera, in quanto, di fronte all’incapacità di gestire il conflitto e le contestazioni, le istituzioni e i capitali si riorganizzavano creando un’impalcatura straordinaria di governo per annientare la protesta, in un secondo momento questo regime di eccezionalità da conseguenza è diventato condizione della grande opera. Oggi, in qualche modo, chi sostiene questo paradigma di distruzione e sviluppo, si prepara le carte in tavola facendo del regime di eccezionalità unmodello ordinario di governo dei territori. Questo, ad esempio, lo stiamo vedendo tantissimo anche con il Ponte sullo stretto di Messina, dove tutta una serie di dispositivi di militarizzazione, controllo e repressione sono stati disposti in maniera preventiva, ma lo vediamoanche nel lento, graduale ed inesorabile processo di svuotamento dei processi democratici attraverso decreti di semplificazione, decreti sicurezza, decreti sblocca cantieri, e così via, che, uno per uno, hanno cercato di smontare tutta l’impalcatura di norme che erano state frutto delle lotte e che senza altro erano insufficienti, ma che comunque garantivano degli spazi di partecipazione della società alle decisioni.


Il terzo asse su cui si fonda il paradigma grande opere è l’utilizzo di un modello coloniale di rapporto ai territori che si rivela sia nel modo in cui vengono narrate le contestazioni delle persone che si oppongono, sia nella militarizzazione, che è l’espressione più esplicita di un controllo su una colonia che non risponde all’autorità centrale. Si tratta di un meccanismo che evidenza il volto più violento del sistema capitalista sorretto dalle istituzioni e che appoggia su una modalità di narrazione delegittimante, che agisce in modo costante a screditare chi si oppone.


Ritorno al tema del Ponte sullo Stretto per fare un esempio: una delle tante pagine Facebook che fanno propaganda pro-ponte ha creato una grafica in cui fa vedere tutte le città (secondo loro evolute) con un ponte e poi rappresenta Messina con il volto di una scimmia, associando gli autoctoni ad un atteggiamento primitivo, come fatto anche dal Ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini in visita a Messina. Vediamo quindi questo tentativo costante di ricodificare le opposizioni secondo il linguaggio coloniale del progresso.


Oggi la grande opera è esattamente questo meccanismo che trova nell’interesse strategico nazionale la saldatura tra l’interesse del capitale e l’interesse dello Stato-Nazione. Mi sembra importante evidenziare un’altra cosa: la grande opera è un po’ la cifra del neoliberismo e quindi anche del mercato globale.  Per quanto la globalizzazione ci sia stata raccontata come la fase in cui i confini andavano a erodersi, stiamo vedendo un affermarsi violentissimo degli stati-nazione e dei confini, e le grandi opere che dovevano servire i flussi economici globale sono improvvisamente divenute anche strategiche in ambito militare.


Credo che questo sia un esito in qualche modo naturale del neoliberismo. Il punto, secondo me, è avere una politica delle infrastrutture che sia vincolata ai valori etici e sociali di una comunità. Nel momento in cui questi due elementi – infrastruttura e comunità – non vannoinsieme, l’infrastruttura diventa uno strumento di violenza che agisce e trasforma il territorio, spesso anche in modo irreversibile, ridisegnando completamente la geografia sociale ed ecologica di un territorio.



Passando alla reazione delle comunità a questo tipo di paradigma, tu hai fatto un grande lavoro di ricerca sulle lotte ambientali del nostro territorio. Ti volevamo dunque chiedere se hai notato delle omogeneità, degli elementi che hanno accumunato il ribellarsi a questo tipo di imposizione sul proprio territorio e sulle proprie comunità e quali sono, secondo te, le rivendicazioni ambientali che sono riuscite a emergere maggiormente all’interno della tua ricerca.

Partirei dalle peculiarità, per poi andare invece ai tratti generali, e parto dalle tipicità perché sono state proprio quelle su cui all’inizio mi sono soffermata di più. Incontrando, all’inizio del mio percorso, il territorio di Carrara e andando ad approfondire cosa significasse il settore estrattivo lapideo sul territorio, uscivano tantissimi record nazionali: record di polveri sottili, record di morti, record di indebitamento pubblico. Ampliando un po’ lo sguardo ad altri territori, ti rendevi conto che questa condizione che sembrava eccezionale in realtà purtroppo era una condizione di straordinaria ordinarietà: ognuno aveva un record, ma quei record messi insieme ti davano la cartina tornasole, la fotografia di una realtà in cui la violenza ambientale è profondissima e capillare, ed è insita a questo meccanismo. Penso, quindi, che sia stato importante portare lo sguardo fuori per capire che nessun territorio può dirsi estraneo a questo sfruttamento e che, nella misura in cui il sistema produce costantemente questa violenza ambientale, è necessario riconnettere queste lotte in una prospettiva più ampia.


Sicuramente ogni luogo ha le sue peculiarità, sia come tipo di infrastrutture che come storia ambientale. Attraverso e grazie alle persone che ho incontrato, ho appreso che il processo trasformativo che ogni territorio intraprende è il frutto di storie diverse e di lotte che hanno radici lontane e che hanno lasciato in eredità un bagaglio di saperi e relazioni per l’emergere di nuove battaglie.


Riconoscere la processualità delle lotte è stato molto importante perché aiuta a uscire dalla dicotomia vittoria-sconfitta e permette di leggere i movimenti come un fenomeno carsico che si palesa solo in alcuni momenti, ma che al contempo, nel substrato della comunità, sedimenta nuovi processi giorno per giorno.


Quindi penso che, sicuramente, la differenza sta nelle tante storie ambientali che sono peculiari: c’è chi ha lottato contro il militarismo, chi ha avuto la lotta contro Xylella, chi le lotte in fabbrica come Marghera (che poi sono state fondamentali nel Movimento No Grandi Navi). Ogni territorio è un intreccio di storie che poi riemergono e riaffiorano in queste lotte.


Credo, però, che gli aspetti comuni siano quelli più importanti da evidenziare in prospettiva politica e trasformativa. Mi sembra fondamentale sottolineare questo aspetto perché, sia in Italia che su un piano più generale, è presente una lettura della lotta politica molto concentrata sui contesti urbani, di fabbrica o comunque in situazioni in cui in qualche modo c’è una struttura di capitale politico e sociale, dimenticandoci così di tutti questi territori, zone di sacrificio, zone marginali, che in realtà costituiscono ancora un’ampia fetta di paese.


In Italia, più del 60% della popolazione vive in piccoli e medi centri urbani o in aree rurali, quindi, capite bene, che questo non è un aspetto che possiamo trascurare e dimenticare. Ed è proprio quella parte di comunità che spesso non ha altri strumenti di attivazione politica che trova in queste lotte il modo di rilanciare il proprio protagonismo portando i margini al centro.


Giocando anche un po’ sulla parola “margine”, mi sembra anche importante sottolineare che, sebbene parliamo di aree marginali, abbiamo a che fare con un fenomeno che non è marginale, perché le lotte legate alla difesa del territorio sono uno dei fenomeni più capillari e strutturali in Italia, in cui il livello di mobilitazione che si può raggiungere sprigiona una capacità molto importante.

Uno degli altri elementi che caratterizzano queste lotte è la capacità di essere capillari e di innescare dei processi politici in contesti molto eterogenei. Questa, secondo me, è un’altra condizione fondamentale, perché fa in modo che, proprio nello spazio comunitario, si riesca a costruire un nuovo linguaggio politico che non trova come forma solo l’assemblea o il volantino, ma trova lo stare insieme come rinnovata forma di politica.


Devo dire che, almeno nella mia esperienza, quello che mi ha insegnato di più questa ricerca, (che poi è diventata anche un rapporto ovviamente umano) è stata la capacità di questi territori di


ricostruire comunità attraverso due processi paralleli: da un lato quello di politicizzare i rapporti umani e quindi intorno a quelle relazioni trovare anche un senso politico e dare delle spiegazioni politiche a quello che succede nelle nostre vite; dall’altro quello di umanizzare i rapporti politici e quindi trovare una forma di rapporto umano che portasse le relazioni, comprese le tensioni politiche, su un piano comunque di mutuo riconoscimento e di collaborazione.

Un esempio che mi viene sempre in mente, anche se non è l’unico, è quello delle Mamme No Tap e delle Mamme No Muos per le quali, il fatto di trovare uno spazio politico per riconoscersi e organizzarsi, ha significato iniziare a dare un nome a problemi comuni. Uno di questi era la presenza di moltissime famiglie con figli e figlie con malattie ambientali, problemi che venivano vissuti come una vergogna e un dolore individuali e affrontanti come una fatica individuale, ma che proprio nello spazio della lotta sono state collettivizzate.


In questa collettivizzazione non solo c’è, ovviamente, un riconoscimento reciproco, ma anche la capacità di iniziare a dare un nome ad un problema e a individuare i responsabili: se non è solo mio figlio o solo tua figlia che ha una malattia ambientale, ma i nostri figli e le nostre figlie vivono tutte strutturalmente questo problema, allora chi è che li e le ha avvelenate e a chi dobbiamo chiedere il conto di quello che è successo? Si tratta, quindi, di una struttura che, come dicevo prima, a partire dai rapporti umani innesca un processo politico.


Questo meccanismo si può vedere anche sotto altri punti di vista: per la prima volta in questi territori si creano sostanzialmente dei movimenti femminili che diventano poi intrinsecamente anche femministi, anche se non parlano questo linguaggio.

Per la prima volta delle casalinghe e delle donne che per lo più avevano una vita confinata alla sfera privata, usano la maternità come questione politica, la portano in piazza, la mobilitano e lo fanno in un modo che fa impazzire le autorità, perché le istituzioni impazziscono ad avere di fronte ai cantieri e ai blocchi stradali queste madri e cercano, di conseguenza, di dipingere su di loro l’immagine di cattive madri che, anziché stare a casa a proteggere i propri figli scendono in strada. Tutto ciò, nel suo insieme, innesca in queste donne un processo di coscientizzazione politica rispetto alle dinamiche di potere patriarcali che attraversano i rapporti dentro lafamiglia, e fuori, rispetto allo Stato. In questo senso, tutto quello che si innesca all’interno di un processo di lotta, non è meno importante del dove stiamo andando. Infatti, mentre si procede in una direzione cambiano le relazioni quotidiane e il modo in cui lo facciamo, cambiamo noi stessi come individui e come collettività.

Questa è proprio la dimensione trasformativa che hanno i territori e che credo vada riconosciuta maggiormente.


Nella maggior parte dei casi, uno degli altri aspetti che hanno in comune questi territori, è stata la mancanza di una prospettiva politica, ovvero la capacità di dare un senso ad un certo percorso anche oltre l’obiettivo immediato. Questo è quello che ci aiuta a capire perché, da 30 anni, assistiamo ciclicamente al nascere ma anche all’esaurirsi di numerosi cicli di lotta. Ne vediamo nascere tantissimi ma sappiamo anche che altrettanto velocemente la maggior parte di queste lotte muore o comunque, in qualche modo, tende un po’ ad esaurire il proprio ciclo espansivo.


Penso che proprio questo sia il punto da cui ripartire, immaginare qual è il nostro traguardo.

Ad esempio, affrontando questo argomento insieme ad altri compagni e altre compagne  del Movimento No TAP, loro stessi hanno riflettuto su quale fosse il loro obiettivo: se lo scopo era fermare il TAP allora non ci siamo riusciti se l’obiettivo, invece, era quello di costruire un altro tipo di società allora ci troviamo un passo più avanti perché proprio nel camminare verso l’obiettivo di bloccare il gasdotto si sono innescate così tante cose che nessuna persona è oggi quella che era dieci anni fa, né singolarmente né come collettività, perché quest’ultima non esisteva prima della lotta.


Quindi io credo che la lotta sia lo spazio dove si costruisce la comunità perché poi nominata così la comunità non vuol dire niente, se la mettono in bocca tutti, tanto gli imprenditori quanto le banche quanto le istituzioni: le comunità non esistono di per sé, sono il frutto delle lotte. Quindi penso che i territori siano lo spazio dove materialmente possiamo fare comunità, senza la quale ogni altra forma di lotta – ecologista, di classe e femminista – non può crescere, non può consolidarsi, non può avere futuro.



A partire dai tuoi studi e ricerche, in una valle come la nostra molto antropizzata, quali possono essere le conseguenze principali e più impattanti sul territorio e sulla popolazione se tutto verrà (come già in parte sta accadendo) sacrificato a causa della costruzione della linea ad alta velocità Torino-Lione?

Tornando al tema grande opera come paradigma, uno degli elementi che lo caratterizza è la funzione regolatrice che svolge rispetto a tutti i processi che la circondano: la grande opera, prima o poi, diventa l’epicentro intorno al quale si ridisegna e ripensa tutto il territorio.


La grande ambizione del capitale è quella di fare del territorio un foglio bianco dove si può depositare dall’alto verso il basso qualsiasi opera e progetto secondo una logica meramente economica, rimuovendo così la sua storia, la sua identità, il suo substrato di relazioni. La grande opera, oggi, agisce esattamente in questo modo perché diventa l’elemento che ridisegna e giustifica ulteriori interventi invasivi, da un lato chiamate compensazioni, dall’altro chiamate opere collaterali necessarie.


Riflettendo sul fatto che intorno alla realizzazione del Tav si è innescata un’altra serie di opere collaterali necessarie che probabilmente verranno terminate ancor prima che l’intero progetto venga realizzato,  mi viene da pensare a una situazione che viviamo anche nel nostro territorio, tra Pisa e Livorno, in cui, intorno alla base militare statunitense di Camp Derby, si è sviluppata tutta un’economia militare che, sostanzialmente, nel corso degli anni è andata ad allargare e aggiungere basi militari, comparti, pezzi legati alla funzione e alla costruzione di un hub logistico. Quindi da Camp Derby a Cisam, poi all’aeroporto civile, poi la Folgore, poi l’Accademia Navale e gradualmente questa infrastruttura ha iniziato a trasformare tutto il territorio espandendosi oltre le aree maggiormente limitrofe.


Questo è esattamente il frutto di quel meccanismo di scambio ineguale che dicevamo all’inizio, che crea coscientemente un meccanismo di dipendenza: la grande opera dove arriva lascia il deserto, cancella ogni traccia di socialità, società ed economia esistente per rimporre il proprio modello monoculturale, diventando l’unica economia che si assume persino la prerogativa di essere l’unica opzione nel territorio. Il gioco del ricatto arriva così: prima arrivo in un territorio che ha una complessa rete di economie e relazioni sociali e successivamente le asfalto tutte perché nego la possibilità di queste altre forme di riprodursi, a quel punto mi presento come unica opzione arrogarmi il diritto di mettere la comunità di fronte al ricatto “o me o niente”.


Tutto ciò evidenzia la dimensione relazionale dell’infrastruttura che – in quanto paradigma di governo del territorio – arriva e trasforma il sistema di relazioni esistenti, cancellandole.

Quello che sta avvenendo oggi in Valsusa intorno ai temi dei pendolari, delle stazioni, delle linee ferroviarie che vengono chiuse per fare spazio a questi cantieri, fa capire qual è la direzione, l’ambizione del capitale: creare un territorio spopolato in cui non c’è più nessuno a fare resistenza e che quindi si presta bene a un intervento di questa entità.


Questa forma di violenza infrastrutturale che impatta e trasforma il rapporto quotidiano che abbiamo col territorio e tra le persone che lo abitano ci pone anche di fronte alla sfida di capire come agire quando abbiamo a che fare con una violenza che non è spettacolare ma lenta, che scava ogni giorno, che si insinua nel nostro territorio, nelle nostre comunità, andando a frammentarle e impoverirle un poco alla volta.

 


Fonte: notav.info - 13-19 maggio 2025



Paola Imperatore

svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. I suoi interessi di ricerca includono la giustizia ambientale, l’ecologia operaia e le politiche climatiche. Ha pubblicato insieme a Emanuele Leonardi per Orthotes Editrice, L’era della giustizia Climatica. Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso, nel 2023. Nello stesso anno, per Meltemi Editore, pubblica Territori in lotta. Capitalismo globale e giustizia ambientale nell’era della crisi climatica.


© 2025 le maleteste

  • Neue Fabrik
  • le maleteste / 2023
  • Youtube
  • le maleteste alt
  • le maleteste 2025
bottom of page