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L’Europa è morta a Gaza, ma ha cominciato a morire in Bosnia

  • Immagine del redattore: LE MALETESTE
    LE MALETESTE
  • 11 lug
  • Tempo di lettura: 8 min



L’Europa è morta a Gaza, ma ha cominciato a morire in Bosnia


di Paolo Rumiz

4 luglio 2025


Tutti noi sappiamo dov’eravamo l’11 settembre 2001, quando arrivò la notizia dell’assalto alle Torri gemelle. Pochissimi ricordano dov’erano l’11 luglio 1995, quando cadde Srebrenica e iniziò l’ultimo massacro del secolo. Fu il triplo dei morti rispetto a New York, ma quasi nessuno se ne accorse. Non c’erano immagini, in quei giorni, in tv. Srebrenica, che roba era? Un buco tra le montagne dal nome impronunciabile. L’Europa era al mare, la Bosnia non faceva notizia, la guerra stava finendo. E poi, a che pro sapere? Eravamo complici. L’Europa, le Nazioni Unite, la Nato. Avevamo lasciato che il massacro avvenisse. Dieci anni dopo, sappiamo. I criminali al tribunale dell’Aja hanno parlato. Sappiamo che migliaia di musulmani bosniaci (musulmani solo per l’anagrafe, va ripetuto, in Jugoslavia il fattore religioso era secondario) erano fuggiti a Srebrenica fin dal ’92, all’inizio delle ostilità, perché l’Onu l’aveva dichiarata zona protetta. Fuggiti, dunque, per salvarsi la pelle. Invece, Srebrenica è diventata la loro trappola. Un lager sovraffollato di denutrizione e isolamento.


Un filmato ci inchioda alla nostra vergogna. Il generale francese Philip Morillon, capo dei Caschi Blu, dice agli abitanti: ‟Tranquilli, sarete protetti”, e quando questi gli offrono il loro pane miserabile fatto di corteccia di nocciolo, decide di fingere ancora. ‟Salubre”, gongola, ‟ottimo per la digestione”. E difatti li tradisce. Sequestra loro le poche armi di autodifesa, e non fa lo stesso con gli assedianti, infinitamente più equipaggiati. La cronaca di una morte annunciata inizia allora. Tre anni di solitudine cosmica, di impotenza, consumati in una valle tetra, fatta apposta per impazzire. Li racconta Emir Suljagic nel libro Cartolina dalla tomba appena uscito a Sarajevo e di prossima apparizione in Italia con l’editore Scheiwiller. ‟La gente”, scrive, ‟aveva scelto quel luogo per sopravvivere, e questo rende la loro morte più terrificante”. Suljagic si salva per caso. Viene risparmiato perché il generale Ratko Mladic, latitante, accusato numero uno per il massacro, l’ha voluto come interprete d’inglese. La guerra è ‟mors tua vita mea”. A Srebrenica non è guerra. Uno dei contendenti sa di essere stato venduto in anticipo. I Caschi Blu olandesi di stanza in paese stanno a guardare. Quando possono, si godono le donne dei vinti, i musulmani. E fanno baldoria con i vincenti, i serbi, dei simpaticoni. E appena – a fine estate del ‘94 – questi ultimi cominciano a premere sulla città, loro calano le brache. Chiedono allo stato maggiore Onu un bombardamento dissuasivo sugli assedianti, ma non ottengono nulla.


Le Nazioni Unite hanno già perso l’onore.Quando l’11 luglio ’95 le truppe di Mladic occupano l’enclave, la gente terrorizzata si riversa nella sede dei Caschi blu. ‟Difendeteci”, implorano, ‟voi ci avete preso le armi, dunque voi ci difendete ora”. Ma i soldati Onu non fanno nulla. Piangono lacrime di coccodrillo, dichiarano la loro impotenza. Non hanno l’autorizzazione a sparare. E il panico si diffonde. Mladic convoca in un albergo due ufficiali Onu. Per intimidirli, fa sgozzare un maiale nel cortile appena fuori la sala, sbatte sul tavolo l’insegna spezzata del Comune di Srebrenica e intima: ‟Adesso farete quello che dico io, non me ne frega niente dei vostri capi”. Spadroneggia, è abituato all’impunità. La ottiene ancora, gli alti comandi Onu sono paralizzati, non mettono mano alle armi nemmeno allora. Ha tutto ciò che vuole: la consegna dei maschi validi, persino la benzina per evacuarli. Il resto è l’indicibile, l’inimmaginabile, disperso in brandelli di sequenze, articoli, intercettazioni, testimonianze, filmati amatoriali. 11 luglio, Potocari, periferia di Srebrenica. La gente è ammassata attorno alla sede dell’Onu. Arrivano soldati serbi con pastori tedeschi, prelevano uomini. La sera la gente comincia a urlare, tutti si alzano in piedi, chiedono che succede. Altri uomini sono portati via, a volte arriva uno sparo, poi silenzio, poi altre grida. Così per tutta la notte. Alcune donne impazziscono dalla paura, corre voce che qualcuna si sia impiccata. 12 luglio, località imprecisata. Un video mostra sei bosniaci che scendono da un camion e tremano di terrore. Quelli in divisa non sono soldati ma poliziotti serbi giunti da Belgrado. Corpo d’élite, detti Skorpions. ‟Guarda, questo s’è cagato addosso”, ridono di un condannato. Si sente la voce dell’operatore che dice agli agenti di spicciarsi perché ha poca batteria. Poi, la raffica sulla schiena di un ragazzo, e un pope di nome Gavrilo che benedice. Non i morituri ma gli assassini.


Altre testimonianze, raccolte da Andrea Rossini dell’Osservatorio del Balcani, il miglior portale d’informazione sul Sudest Europa. 13 luglio, frazione di Kravica. Mille, forse millecinquecento civili sono ammassati in un magazzino e fucilati. Il generale Borovcanin telefona al generale Krstic, brontola che ci sono ‟altri 3500 pacchi da distribuire” e che servono altri trenta soldati. L’altro protesta che non li ha, manda i colleghi a farsi fottere. Ma il primo insiste. Dice ‟pacchi”, ma intende uomini. E ‟distribuire” significa ovviamente ‟liquidare”. 15 luglio, un prato sulle sponde della Drina. Prigionieri maschi ammassati, costretti a sdraiarsi per terra e gridare ‟Viva il re”. Vengono scherniti: ‟Non avrete la cena, tanto non ne avrete bisogno”. Poi, il trasferimento in un’aula piena di gente. Racconta un sopravvissuto, creduto morto dopo la fucilazione: ‟Eravamo assetati e coperti di piscio, qualcuno ha tentato di aprire la finestra ma una guardia ha aperto il fuoco e fatto sei feriti”. I prigionieri sono denudati, ammanettati, caricati su camion, portati via. 16 luglio, Zvornik, zona serba. Il plotone di esecuzione deve liquidare oltre mille uomini. Usa una mitragliatrice, che però mutila i prigionieri senza ucciderli, e obbliga i soldati a giustiziare la gente con colpi singoli. Nessuno viene risparmiato. Poi tocca ad altri settecento uomini, chiusi in un cinema. Il plotone è esausto, qualcuno chiede di essere sostituito. Si sentono le raffiche in città, ma la gente fa finta di nulla. Dei fatti di luglio sappiamo tutto, ormai. Da qualche settimana anche in Serbia si fanno i conti con la verità. Ma l’informazione sul ‟come” non aiuta a capire il perché di quel tradimento.


La pace di Dayton, ibernando la Bosnia al 1995, non ha risolto nessuno dei nodi politici di allora. Perché la Nato non è intervenuta? Perché le Nazioni Unite sono scomparse? A che serve questo anniversario se, di fronte all’Iraq e all’Afghanistan, i Balcani scompaiono dalle agende della politica? Che futuro immaginiamo per queste terre dietro casa? Irfranka Pasagic, psichiatra, premio Langer 2005, è tornata a lavorare nella sua città per curare i traumi della gente. ‟A Srebrenica”, ne è certa, ‟la cappa di orrore permane” C’è chi vive accanto all’assassino dei suoi figli, chi lo incontra ogni giorno per strada. I criminali sono in circolazione, hanno cariche pubbliche, si sono sfacciatamente arricchiti. E i giovani vanno ‟in scuole sporche di sangue, in palestre che hanno conosciuto esecuzioni”. ‟La città continua a morire”, racconta Roberta Biaggiarelli, che lavora a un documentario sull’evento. ‟La vita è nera come la terra che copre mio figlio” le ha detto una madre dimenticata in un campo profughi. E mentre nelle camere mortuarie di Tuzla e Visoko ancora si accumulano candidi sacchi pieni di ossa senza nome, i banditi smascherati già schierano i morti serbi in un contro-monumento, una gigantesca croce ai Caduti. A troppi fa comodo che non si sappia la verità su Srebrenica.




I frammenti della Storia che non passa: trent'anni dal genocidio di Srebrenica


04 Luglio 2025


Ricostruire dal caos

“Per il prossimo 11 luglio sono state confermate soltanto cinque salme”, scrive un giornale bosniaco in occasione della sepoltura collettiva, che si svolge al Memoriale di Potočari, dei resti delle persone massacrate tra l’11 e il 18 luglio del 1995 e ritrovati dagli antropologi forensi a distanza di decenni. Non è strano, siamo materiale biodegradabile, sono passati esattamente trent’anni e il numero dei ritrovamenti nel tempo è sempre più esiguo.

L’articolo continua spiegando che sono stati esumati i resti di altri 47 corpi, tuttavia i famigliari non hanno ancora acconsentito alla sepoltura, poiché i ritrovamenti consistono in piccoli frammenti, schegge di ossa, quindi le famiglie preferiscono aspettare, hanno atteso così a lungo per poter ricostituire il corpo e non  possono arrendersi adesso, non possono seppellire quel misero mucchietto che non ha alcuna somiglianza con il marito, il figlio, il padre che, a distanza di tutti questi anni, nemmeno loro sanno più come ricordare. È così umano questo desiderio di interezza, ricostruire i pezzi, ridare un ordine al caos che ha devastato tutto. Eppure, la prima cosa che ci ha insegnato la guerra quando ha stravolto le nostre vite è stata proprio questa: mai più saremmo stati interi.


Il massacro di Srebrenica

In quei giorni di luglio di tre decenni fa noi non sapevamo ancora che cosa stava davvero accadendo; chiunque non fosse a Srebrenica ma si fosse messo in salvo prima, attendeva di veder ricomparire i propri cari dal buio e dal silenzio che erano seguiti alle immagini dell’arrivo di Ratko Mladić e del suo esercito a Srebrenica. Le sue dichiarazioni di vittoria sull’Impero ottomano, un tantino fuori tempo, e le sue rassicurazioni alla massa umana radunatasi davanti alla base Onu. A nessuno sarebbe accaduto nulla di male, ripeteva mentre accarezzava teste di bambini in braccio a genitori dietro il filo spinato, tutti sfigurati dalla carestia patita nei tre anni di assedio.

Nei giorni successivi, quando le telecamere si sono spente, l’interesse fugace del mondo per le sorti di Srebrenica esaurito e circa quindici mila persone sono state inghiottite nel nulla, noi continuavamo a dirci che non potevano averli uccisi. Insomma, tutti avevano visto quella marea di gente fuori dalla base ONU, il mondo, l’Europa non l’avrebbero permesso. All’epoca coltivavamo speranze di disarmante ingenuità.


Il dopo è storia nota…

La deportazione, l’esecuzione e l’occultamento di ottomilasettecentotrentadue esseri umani, numero non definitivo secondo il Memoriale di Potočari. Il dopo è la storia di un tradimento e dell’abbandono totale di un’intera popolazione da parte dei caschi blu dell’ONU lì presenti e, in generale, da parte della comunità internazionale. Il dopo è la storia di una ingiustizia protratta nel tempo poiché nella spartizione su base etnica della Bosnia ed Erzegovina, Srebrenica è stata assegnata alla Republika Srpska, rendendo così legittime le pratiche genocidarie per la conquista di un territorio.

Non è strano allora che i tribunali si siano occupati principalmente di gettare un pò di fumo negli occhi di chi chiedeva giustizia: arresti tardivi, Ratko Mladić nel 2016 e Radovan Karadžić nel 2019, condanne riparatorie e soprattutto rare ammissioni di colpevolezza. È del novembre scorso il caso di una lettera dell’ generale serbo Radislav Krstić, il primo imputato ad esser condannato in via definitiva per il genocidio di Srebrenica, in cui riconosce la sua colpa. L’Associazione delle Madri di Srebrenica e Žepa chiede quindi a Krstić di svelare la posizione delle rimanenti fosse comuni e di quelle in cui i cadaveri furono successivamente riallocati, oltre a fornire i nomi di coloro che avevano partecipato alle esecuzioni.


Un genocidio irrisolto 

Tuttavia, episodi come questo di Krstić sono di eccezionale rarità. Al contrario, tutt’oggi il governo della Republika Srpska e in particolare il Presidente Milorad Dodik negano in maniera assoluta che a Srebrenica sia stato perpetuato un genocidio, sostengono sia tutta una messinscena contro i serbi. Nulla di sorprendente considerata la politica nazionalista di Dodik, il fatto è che questo tiene ancora la Bosnia ed Erzegovina sull’orlo del baratro, sempre sul punto di sprofondare nel caos. Allo stesso modo il governo bosniaco nazionalista utilizza Srebrenica come il fiore all’occhiello della propria propaganda, lo spauracchio identitario con cui continuare a vincere le elezioni. Trent’anni dopo siamo ancora fermi a questo: nomi dei responsabili da svelare, fosse comuni da individuare, corpi da ritrovare, una Storia condivisa ben lungi dall’essere immaginata, figuriamoci scritta.

Come si può pensare che un passato irrisolto di ingiustizie e soprusi porti a un presente e un futuro radiosi? Potrebbe essere una domanda seria e doverosa da farsi a distanza di tempo. Una domanda che forse sarebbe il caso di assumere come un chiaro monito e una lente di ingrandimento per guardare al nostro presente, alle ingiustizie, alle sopraffazioni, alle pratiche genocidarie che stiamo lasciando accadere, salvo pentircene inutilmente con il senno di poi.



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