La sottile linea nera: da Sant’Anna di Stazzema al G8 di Genova
Intervista a Lorenzo Guadagnucci
Parte 1
di Andrea Biagioni e Gianluca Bindi
Eccovi di seguito la prima parte dell’intervista integrale a Lorenzo Guadagnucci, apparsa in forma ridotta sul numero 21 di StreetBook Magazine. Buona lettura!
Quando Lorenzo Guadagnucci ci ha chiesto dove incontrarci per questa intervista, Le Murate si prestavano perfettamente per quella chiacchierata. Lì, sono stati incarcerati e torturati prima i partigiani che hanno contribuito a liberare Firenze e l’Italia dall’occupazione nazifascista; poi i brigatisti, emblema di quegli “anni di piombo” ancora avvolti da inquietanti zone d’ombra. Oggi, Le Murate sono un luogo di cultura e di memoria ma anche d’intrattenimento, sempre più stritolato dalle spinte di un turismo frenetico e globale, mirato al solo profitto. Un percorso di riqualificazione iniziato nel 2001, l’anno del G8 di Genova, che Lorenzo ha vissuto in prima persona da giornalista e da testimone diretto, suo malgrado, dei fatti della Diaz. Non solo, Lorenzo è anche nipote di Elena Guadagnucci, una delle vittime di Sant’Anna di Stazzema. Sessantasei anni di storia italiana che sembrano avere un legame quasi carsico: una sottile linea nera che unisce le stragi nazifasciste a quella che è stata definita “la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale”.
Andrea Biagioni: Penso sia inutile ripercorrere per filo e per segno quello che è successo in quei giorni a Genova, anche perché è quasi tutto documentato e sappiamo quindi molto sul come certi fatti sono avvenuti da piazza Alimonda alla Diaz, passando per Bolzaneto. Sarebbe inutile anche venire a chiederti di ripetere la tua testimonianza sulla Diaz, con aspetti che hai già riferito mille volte e peraltro in maniera molto dettagliata e approfondita nei tuoi libri. Quindi, la prima domanda è un po’ anticonvenzionale, perché sarebbe l’ultima che dovremmo farti. Sul G8 di Genova ci sono siti, libri, film, documentari, c’è quindi molto materiale e in questi casi può essere difficile raccapezzarsi, penso magari a chi come i più giovani il G8 non l’hanno vissuto, ne hanno appena sentito parlare e ci si vogliono avvicinare, sia a chi l’ha vissuto ma l’ha approfondito in maniera parziale e anche a chi è più esperto però magari gli mancano alcune fonti, alcuni documenti che possono aiutare a capire meglio quello che è successo. Tu per esempio che cosa consiglieresti di andare a guardare, siano dei libri, film, siti, facciamo tipo livello facile-intermedio-difficile.
Lorenzo Guadagnucci: Diciamo che per partire si può andare verso l’accesso alle testimonianze raccontate in maniera quasi colloquiale, quindi per esempio il mio libro Noi della Diaz è un accesso. Un altro accesso sempre alla Diaz, è la graphic novel Quella notte alla Diaz. Una cronaca del G8 a Genova di Christian Mirra che era fra noi novantatré e che è l’unica rappresentazione visiva di quello che è successo alla Diaz perché non c’erano immagini, fotografie, niente. Questo penso sia già un livello di accesso facile per lo stile, per come si propone e anche il mio è un racconto che è quasi un diario giorno per giorno. Qualcosa di difficile, ma non so se dire più difficile, quindi direi di più specifico, più ampio, più complessivo sicuramente è il libro di Carlo Gubitosa, Genova nome per nome, che uscì già diversi anni fa, però è – anche per la parte processuale nonostante i processi non si fossero ancora conclusi – una bella ricostruzione di tutto quello che è successo a Genova non solo per la parte degli scontri, ma anche per quella politica e del movimento. È un bel volumone, disponibile gratuitamente in rete, anche se all’epoca uscì su carta. Un’altra testimonianza che però forse potrebbe andare anche fra le prime è quella di Marco Poggi, l’infermiere penitenziario di Bolzaneto, che è stato uno dei pochi – anzi sostanzialmente sono stati due tra le forze dell’ordine – a rompere la consegna del silenzio, dell’omertà: l’altro era il suo collega Ivano Pratissoli. Entrambi all’epoca hanno raccontato tutto al magistrato circa un mese dopo e hanno fatto un libriccino, quasi introvabile, che si intitola Io, l’infame di Bolzaneto. E poi il libro che ho fatto con Agnoletto, L’eclisse della democrazia, credo sia quello più completo; me lo dico da solo ma tanto voglio dire non è che stiamo parlando di grandi vantaggi economici né di altro tipo.
Gianluca Bindi: Chiaro. Che sia un testo molto completo, lo si capisce leggendolo. Racconta bene tutta la nascita del movimento e di qual era la situazione politica e sociale all’epoca.
LG: Sì, è aggiornato, facciamo nomi e cognomi, è forse la sintesi migliore e sarebbe un livello medio, nel senso che si può leggere o è fatto per essere letto da chiunque. Insieme ci metterei Gridavano e piangevano, che è un libro su Bolzaneto, scritto da Roberto Settembre, ovvero il magistrato che fece da giudice relatore nella sentenza di secondo grado; una volta andato in pensione ha scritto questo libro, in maniera narrativa diciamo così, ma tutto basato ovviamente sulla documentazione: un libro che fu scritto per lo shock provocatogli da quell’esperienza di giudice. A livello di documentari secondo me il lavoro migliore è quello di Blu Notte di Carlo Lucarelli. ( All’epoca dell’intervista, nessuno di noi aveva ancora visto il documentario Il G8 di Genova – La Ricerca della Verità di Elio Mazzacane con la consulenza storica di Donatella Della Porta, proposto da Rai 3 all’interno della trasmissione La grande storia – Anniversari, condotta da Paolo Mieli. Il documentario di Mazzacane rappresenta un importante “aggiornamento” riguardo i fatti di Genova e soprattutto l’evoluzione dei procedimenti processuali dopo il 2007, anno in cui venne trasmesso l’ottimo lavoro di Carlo Lucarelli, ndr).
AB: C’è anche un sito spesso citato che è processig8.net: quanto è “accessibile”?
LG: È ottimo perché è pieno di materiali accumulati all’epoca, però lì bisogna essere un po’ addetti ai lavori per orientarsi. Non l’ho citato perché ti perdi se non sei abituato. Fu usato dalla segreteria legale, cioè questo gruppo di avvocati e tecnici che supportarono i processi per anni, e via via che questi materiali venivano fuori, venivano accumulati lì e messi a disposizione; però sono molto, molto specifici, se non sai di che si parla, ti perdi, non capisci cos’è importante e cosa non lo è. Rimane comunque è una fonte fondamentale per chi si avvicina professionalmente a questo tema. C’è un lavoro dietro professionale molto approfondito, di anni.
AB: Chiuso questo capitolo, come dicevamo, è inutile ripercorrere tutto visto che di documenti appunto ce ne sono moltissimi per avere una conoscenza generica dei fatti. Andiamo quindi direttamente al sodo, ai dubbi che ancora ci sono sul G8 del 2001: c’è stata a Genova l’incapacità di gestire l’ordine pubblico, è sfuggito di mano il tentativo da parte delle istituzioni di demonizzare il movimento impropriamente definito No-Global e quindi il Genoa Social Forum, oppure tutto questo faceva parte di una strategia, una sorta di prova generale per un golpe da parte della destra come scrive Andrea Camilleri nella prefazione a “L’eclisse della democrazia” libro da te scritto insieme a Vittorio Agnoletto (portavoce del GSF, ndr)?
LG: Ti posso dire la mia verità, la spiegazione che mi do. Credo che il problema sia stato non di ordine pubblico ma di ordine politico, che tutto quello che è accaduto, è avvenuto dentro una cornice di senso e di indirizzo che è quella di un sistema ideologico e di potere: il potere dominante delle forze politiche maggiori, dei governi dell’epoca. Parlo al plurale perché quello che è avvenuto a Genova, per il rilievo che aveva quell’evento, è stato più vistoso nelle proporzioni e per l’importanza delle mobilitazioni, però non è troppo diverso da come fu affrontato quel movimento anche in altri paesi, anche in altri contesti prima di Genova, e da governi di diverso colore politico che gestivano il potere in quelle situazioni specifiche. Quello era un movimento politico, il primo movimento di critica alla globalizzazione liberista e allo stesso tempo il primo movimento globale; un movimento competente, che aveva una capacità di elaborazione molto alta, che aveva alle spalle delle storie anche molto consolidate e che superava gli stereotipi sulla contestazione, perché l’arco ideologico-culturale andava veramente dalle suore missionarie ai centri sociali: tutte organizzazioni e realtà che capivano come per il proprio ambito di azione fosse necessario fare un passo in più, fare un passo politico. Anche solo concentrandoci sulla composizione del Genova Social Forum c’erano migliaia di associazioni (circa 1500, di cui 900 italiane, ndr) con una storia importante in vari ambiti: l’ambientalismo, il sindacalismo, l’associazionismo. C’erano Ong, associazioni legate alla cooperazione internazionale e al commercio eco-solidale, insomma tutte esperienze consolidate. Non erano quindi contestazioni fini a sé stesse o teste calde che scendono in piazza, così. Ricordo che il primo Social Forum Mondiale di Porto Alegre nel gennaio 2001 era, come dire, frastornante quasi per la quantità di argomenti. In questo campus all’Università di Porto Alegre, c’erano decine di seminari, ognuno su un argomento diverso, ognuno con competenze diverse. Quindi era un forum di discussione, l’interesse era per i temi, era per le questioni che erano nuove, c’era voglia di capirle di conoscerle. Era un movimento che poneva una questione politica e apriva un fronte politico nuovo, perché diceva: “Attenzione, il mondo è cambiato. Lo scenario sul quale agire politicamente è quello globale, gli interlocutori non sono più i governi nazionali, i parlamenti nazionali. Sono le nuove organizzazioni sovranazionali che hanno un potere molto maggiore dei singoli governi. I processi politici ed economici si decidono in altre situazioni che non sono quelle canoniche e che siamo abituati a pensare che siano i luoghi di decisione. Non si decide più a Roma, per dire, si decide altrove, alla riunione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization,ndr), si decide nel consiglio di amministrazione del Fondo Monetario Internazionale. Lì si prendono le decisioni strategiche che cambiano le vite delle persone”. Basta pensare ai piani di aggiustamento strutturale che sperimentarono in America Latina, cioè dei piani di ripianamento del debito in cambio delle cosiddette ‘riforme’, dove riforme vuol dire ‘liberalizzare e privatizzare’: ebbene queste erano decisioni che prendevano il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, la WTO e che i parlamenti locali subivano, non decidevano. Erano come ricattati e sottoposti a una pressione dovuta alle dinamiche globali. Quel movimento disse: “Il nuovo potere è questo”, a Seattle contestò la WTO. Chi la conosceva prima l’Organizzazione Mondiale del Commercio? Inoltre quello del Social Forum era un movimento che sfondava gli stereotipi, lì superava gli stereotipi sulla contestazione, perché non era etichettabile come un movimento di estrema sinistra. Non si poteva dire questo, perché magari c’era l’estrema sinistra ma l’arco ideologico-culturale andava veramente dalle suore missionarie ai centri sociali passando per i Medici con l’Africa Cuamm o Medici Senza Frontiere: tutte organizzazioni e realtà che capivano come per il proprio ambito di azione fosse necessario fare un passo in più, fare un passo politico. Allora con questo movimento fu deciso, fu scelto di non confrontarsi con gli strumenti della politica e del dialogo, fu scelta la via del rifiuto, della contrapposizione attraverso gli strumenti classici, se vuoi: l’uso della forza e la criminalizzazione. Una criminalizzazione che è stata anche mediatica. Mentre in Italia ci si organizzava, ci si rendeva conto che c’era un fermento che da tanto non si vedeva e che non s’è più visto in questi anni: questa voglia di fare, di organizzarsi, di discutere. Invece, nel pre-Genova politicamente e mediaticamente s’è parlato di tutt’altro rispetto alle questioni che dicevamo prima e che il Social Forum affrontava e voleva affrontare. Si è parlato degli scontri, delle violenze in arrivo, del pericolo che questo movimento rappresentava e basta.
GB: A questo punto viene da chiedersi che ruolo abbiano avuto le forze di polizia e in generale le autorità, le istituzioni: al servizio delle organizzazioni sovranazionali a cui accennavi prima come Fmi, WTO eccetera?
LG: Sì, diciamo di sì.
GB: Secondo te c’è stato anche l’interesse, da parte del nuovo governo Berlusconi appena è instaurato, a dare subito un impatto autoritario al Paese?
LG: Io non credo sarebbe andata molto diversamente se non ci fosse stato il governo Berlusconi, perché la risposta e il modo di confrontarsi con quel movimento è stata simile fra governi di centrodestra e centrosinistra.
AB: Non a caso, Genova era stata scelta per il G8 dal governo D’Alema: scelta che era già stata contestata.
LG: Sì, ma lo trovo poco rilevante. Spesso si cita l’esempio di Napoli qualche mese prima, dove ci fu una manifestazione del Global Forum a marzo [1] che fu affrontata nello stesso modo, cioè con un uso sproporzionato della forza con eventi molto simili a quelli poi avvenuti a Genova, con la gente prelevata nei pronto soccorso, maltrattata nelle caserme. Credo che il punto sia proprio questa risposta politica che fu data, cioè di ostracismo e di criminalizzazione mediatica, di confronto con gli strumenti della forza pubblica. Ce lo conferma la preparazione che ci fu con questa grancassa mediatica di fake news, come le chiameremmo oggi. All’epoca non si usava questa espressione, ma di questo si tratta quando si divulgano notizie come appunto sequestri di poliziotti oppure cose anche più incredibili come il lancio di sangue infetto che se uno comincia a pensarci cosa significa, voglio dire… come si fa per esempio procurarsi del sangue infetto? Eppure erano informazioni che venivano riportate su giornali importanti, rivelandosi poi prive di fondamento.
AB: Tra quelle testate c’erano appunto Corriere, Repubblica, Il Secolo XIX e tante altre per intendersi. E quando parlavano dell’imminente G8, ne parlavamo con i termini di una guerra batteriologica, come se all’interno del Genova Social Forum ci fossero delle organizzazioni paramilitari.
LG: Sì, ma poi anche molto specializzate, come se ci fosse un laboratorio, perché ripeto, prendiamo quella del sangue, che si diceva fosse infetto di AIDS: intanto procurarsi del sangue, non so, forse una donazione di sangue dei manifestanti, boh; oppure doveva essere infettato da qualcuno che lo sa fare, ma come disse Vittorio Agnoletto che è un medico (a lungo non a caso, presidente della Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS), il sangue che entra a contatto con l’aria smette di essere infetto. Quindi, son cose anche fantasiose che però entravano in questa cornice e quindi venivano accettate per quanto fossero inverosimili. E poi, che ci fosse nei confronti del movimento un ostracismo premeditato, ce lo conferma la preparazione delle forze di polizia a Genova: fu una preparazione di tipo militare, con un impiego direi sistematico di forze speciali da parte dei vari reparti, in particolare i carabinieri che misero in campo i loro reparti di ‘pronto intervento’, direi bellico. C’erano dei reparti che erano reduci dalla Somalia, che poi dopo Genova sono stati in Iraq, per dire, quindi non erano reparti specializzati nella gestione di manifestazioni politiche-sindacali, dove è tutt’altro lo scenario e così la modalità di intervento, perché non hai un nemico davanti, ma dei manifestanti. Tu porti questi reparti specializzati, gli usi in piazza – perché non è che siano stati a guardare, in piazza Alimonda c’erano reparti di questo tipo – e in qualche modo precostituisci quello che poi accadrà ed è puntualmente accaduto. Quindi io non credo che ci sia stata una genesi delle violenze all’interno delle forze di polizia indipendente da questa cornice. Credo che la genesi delle violenze si spieghi dentro questa cornice e le forze di polizia hanno agito con modalità che è difficile sintetizzare, però alcune cose le abbiamo capite anche semplicemente da certi comportamenti.
GB: Tu che idea ti sei fatto, riguardo la condotta delle forze dell’ordine?
LG: Io credo di poter dire che in generale tutte le condotte sono state attuate nella consapevolezza di avere come minimo una copertura politica rispetto ai propri comportamenti, in molti casi anche una copertura giudiziaria, cioè un’aspettativa di impunità. Non si spiegherebbe altrimenti la quantità di violenze plateali, anche di fronte ai propri colleghi. A Bolzaneto, le torture sono andate avanti per tre giorni e, a parte alcune decine di agenti che le hanno praticate e le hanno attuate in qualche modo o con l’omissione o con l’azione, altre decine se non centinaia di agenti, hanno frequentato questo posto per tre giorni e nessuno ha detto niente, nessuno è intervenuto, quindi come dire, c’era un largo consenso sulla liceità di azioni che poi si sapeva essere illecite. Allo stesso modo, non si spiega la violenza dentro la scuola Diaz così brutale, così selvaggia, così pericolosa. Che non sia morto nessuno è assolutamente casuale…
AB: Si son fermati solo perché hanno visto o pensavano che qualcuno fosse morto.
LG: Sì, pensavano di averne ammazzato uno, e comunque qualcuno è andato in coma, quindi il fatto che siamo vivi, non vuol dire che non si sia rischiato… e un comportamento così violento a mio avviso si spiega solo se hai la certezza di non doverne mai rispondere. Allo stesso modo, la quantità incredibile di falsi in atto pubblico, è difficile spiegarla se non in termini appunto di sapere che non se ne dovrà mai rendere conto. Sono stati falsificati una quantità incredibile di verbali, di documenti, verbali d’arresto e rapporti della magistratura, false testimonianze una dietro l’altra. È quasi tutto falso quello che è stato scritto ufficialmente dalle forze di polizia. E poi l’omertà come regola rigidissimamente rispettata. Quindi tutto questo a mio avviso non si spiega con un’improvvisa perdita di lucidità collettiva.
AB: Un’altra delle questioni che non tornano, è quella riguardante i black bloc, il grande spauracchio dietro cui si è creata la demonizzazione del Social Forum, perché è tutto stato impostato su quello: il rischio erano i black bloc. Però, dovevano fermarli alle frontiere, e non è successo; dovevano fermarli lì a Genova e non è successo. A Genova questo gruppo è presente e agisce in una maniera ben precisa: arriva, crea disordine, sparisce e si raduna in un altro punto. La Polizia, e in generale le forze armate arrivano sempre in ritardo e, a quanto mi risulta, di black bloc fermati in quei giorni, nemmeno mezzo. È un po’ strano. Ma intanto, tu li hai visti agire?
LG: Sì sì, io li ho visti, nel libro Noi della Diaz l’ho raccontato. Questi gruppi erano pressoché sconosciuti in Italia. Il Black Bloc era più un fenomeno degli Stati Uniti, del nord Europa e si era cominciato a parlarne nei mesi precedenti a Genova, in alcuni degli appuntamenti che ci furono fra gennaio e luglio 2001: si manifestavano ogni volta che c’era una riunione di questi organismi di cui abbiamo parlato, però in Italia, se ne sapeva veramente poco perché non c’erano state occasioni per loro di manifestarsi.
AB: A Napoli non si erano presentati.
LG: No, infatti non si erano mai visti e fu a Genova che si videro in azione. Io ricordo di aver visto, sabato 21 luglio, che si avvicinavano allo schieramento delle forze di polizia sul lungomare. Ricordo di aver descritto una ragazza che passava in mezzo a corteo, tutta vestita di nero, apparentemente del nord Europa, che si univa a questo gruppo per poi andare a fare questi lanci di pietre, di molotov. Abbastanza estranei al resto dei manifestanti. D’altra parte i black bloc si presentano non come un’organizzazione ma come un modo di agire, quindi chiunque può fare il black bloc e star dentro il Black Bloc, anche semplicemente decidendolo sul momento, senza conoscere gli altri: non è richiesto di partecipare.
AB: Ciò che stupisce e spiazza un po’, già dal venerdì, è proprio il loro modo di agire: arrivano a Marassi, incendiano il portone di Marassi, scappano, li inseguono, si riuniscono in altre aree e ricominciano, portando di fatto i disordini nei luoghi dove le forze di polizia caricheranno in manifestanti della rete Lilliput in piazza Manin e le tute bianche in via Tolemaide, a cui seguiranno gli scontri in piazza Alimonda. Arrivo, colpisco, creo disordine, fuggo, mi riunisco e riparto, in sequenza: una modalità quasi paramilitare, non molto anarchica. E poco anarchiche, come diceva Lucarelli nel documentario di Blu Notte, appaiono le pseudo parate militari in cui si esibiscono. Perché c’è questa modalità di attacco da parte del black bloc?
LG: Bisogna riconoscere che esiste questa idea di azione di piazza, che si attua attraverso queste forme e che sì, a me sembrano paramilitari: facevano anche delle marcette con dei tamburi, un abbigliamento non proprio innocente, anche nel modo di proporsi. Bisogna anche dire che in questi gruppi del Black Bloc, c’erano alcuni che si organizzavano, che si preparavano. Poi via via si sono uniti altri che a loro volta praticano, teorizzano e rivendicano tuttora la necessità, l’opportunità, la loro scelta di stare in piazza anche facendo delle azioni diciamo più muscolari, che si possono non condividere. Io la trovo una modalità abbastanza superata, secondo me meglio trovarne altre, però bisogna riconoscere che c’è questa modalità, non è fuori dalla storia dei movimenti, è dentro la storia dei movimenti. A Genova però questo aspetto si è totalmente inserito in quella cornice che dicevo prima, ha fatto comodo. Se non ci fosse stata si sarebbe dovuto inventare, tant’è che sappiamo come le forze di polizia si fossero premunite, perché nel caso non ci fossero state abbastanza occasioni di pretesti, di azioni violente, di teppismo o quello che sia da parte di manifestanti, si era pronti a crearle.
GB: C’era bisogno di un casus belli, comunque.
LG: No, però sai se fosse stato un sit-in sarebbe stato problematico criminalizzare, dire “vedete sono violenti, questo è un problema di ordine pubblico, non è un problema politico”. È chiaro che se qualcuno tira delle pietre, spacca delle vetrine, saccheggia il supermercato è meglio dal punto di vista della rappresentazione mediatica di ‘movimento violento’, eversivo e che non deve essere ascoltato perché sa solo spaccare vetrine, perché poi alla fine è questo: “il no-global è lo spacca-vetrine”, questo è il messaggio che si è cercato di trasmettere. Si erano premuniti con l’infiltrazione, che è uno strumento di polizia secolare.
AB: Ecco appunto, le infiltrazioni della Digos all’interno, ci sono, si sono viste e si sono visti i video, personaggi ambigui che parlavano con le forze armate.
LG: Certo, sono documentate. Qui in Italia è un argomento di cui si parla malvolentieri, però secondo me è un dato di fatto. Devo dire comunque che, secondo me, la pietra tombale sopra qualsiasi discussione ce l’ha messa David Graeber, antropologo prestigiosissimo d’ispirazione anarchica, docente universitario ma militante morto purtroppo l’anno scorso. Lui era vicino a queste posizioni di protesta anche più muscolare, per cui non si scandalizzava se qualcuno spaccava una vetrina, e in uno dei suoi libri parla tranquillamente di pesante infiltrazione nel Black Bloc a Genova.
AB: C’era anche un altro tipo di possibile infiltrazione di cui si parlò un po’ all’epoca ma di cui adesso non si parla quasi mai. Mi riferisco al rischio d’infiltrazione nel Black Bloc dei gruppi di estrema destra. Ci sono segnalazioni, testimonianze riguardo la loro presenza, ma oltre a questo il vuoto.
LG: Diciamo che sono stati segnalati in più occasioni, Forza Nuova e altri gruppi, però che io sappia non c’è documentazione e anche da parte loro, come dire, di racconto della loro presenza, c’è pochissimo o niente. Furono segnalati, questo sì. Mi ricordo che anche Vittorio Agnoletto, come portavoce del Social Forum, trasmise alle forze di polizia segnalazioni che aveva ricevuto di presenza di gruppi organizzati di estrema destra, con potenziali azioni di disturbo, però non mi risulta altro.
GB: Incredibilmente sono spariti.
LG: Sì, sono spariti e non ci sono state indagini di nessun tipo. Rispetto al Black Bloc, una cosa che balza agli occhi è che abbiano agito indisturbati a fronte di un dispiegamento di forze senza precedenti. Si parla di decine di migliaia di agenti di tutte le forze dell’ordine, e anche di militari, che hanno permesso quelle azioni. La giustificazione che qualcuno ha balbettato è che sarebbe stato troppo pericoloso intervenire, poi però gli interventi ci sono stati in realtà. Le cariche ai cortei sono state pesanti, violente e quindi non è che si è scelto di non intervenire. Gli interventi sono stati fatti, però guarda caso non a colpire chi poteva essere fermato anche a norma di legge – perché ci son delle regole che alcuni hanno consapevolmente infranto. Quindi, diciamo che la gestione dell’ordine pubblico, se la vogliamo analizzare da un punto di vista tecnico, è stato un fallimento gigantesco, perché da un lato dici che Genova è stata saccheggiata, dall’altro hai un pugno di mosche in mano perché non hai né controllato né hai fermato i responsabili e quando hai sostenuto di averli fermati, come nel caso della Diaz, neanche uno di quelli sei riuscito a ricondurlo a comportamenti illegali. Poi ovviamente tutto va inserito in quella cornice di cui si parlava all’inizio.
AB: Passiamo un attimo alla Diaz e a un personaggio nello specifico: Vincenzo Canterini (comandante del Primo reparto mobile di Roma VII Nucleo Sperimentale, élite antisommossa i cui agenti furono i primi a fare irruzione alla Diaz, ndr). Rivedendo il confronto di qualche anno fa tra Agnoletto e Canterini – che per l’altro non si erano mai visti da quel giorno alla Diaz – con Enrico Mentana a moderare, c’è un aspetto che mi ha colpito. Vincenzo Canterini cerca di difendere sé stesso e i suoi con ogni mezzo fondamentalmente, questo è evidente, però all’interno di questa “difesa” qualcosa dice. Addirittura molto spesso ad Agnoletto dice, “Vengo sulle sue posizioni”, arrivando anche a dargli ragione perché altro non può fare. Agnoletto non gli contesta quello infatti, gli contesta ovviamente altro, gli contesta molto semplicemente il fatto di volerne uscire completamente pulito come se lui e i suoi uomini fossero i salvatori della Diaz e non tra i responsabili. Però ripensando al discorso della strategia e della cornice, il ragionamento di Canterini fila: “Sì, c’è qualcuno che ha voluto la Diaz, qualcuno dall’alto”. Il problema è che Canterini si ferma lì, rimane a metà strada, fa nomi che ormai già son venuti fuori e non altri: non ti dice chi dall’alto ha voluto la Diaz, non lo vuol dire probabilmente ed è difficile pensare che uno come Canterini, che era a capo del Nucleo Antisommossa, non sapesse assolutamente niente, che non sia venuto a sapere qualcosa. Comunque, arriviamo al punto. L’irruzione alla Diaz è stata decisa quindi per ‘portare il punto a casa’ visto il disastro di ordine pubblico che era stato fatto nei giorni precedenti? O c’era un altro motivo specifico, politico e da inserire in quella famosa cornice?
LG: Diciamo innanzitutto che rispetto a tutto quello che è avvenuto, c’è stata una consegna del silenzio che i magistrati hanno forse chiamato con la parola giusta: omertà. Ed è stata rispettata in maniera militare oserei dire, tassativa quasi. Questa è una costatazione che dobbiamo fare, perché tuttora è così. Sulle motivazioni che lo portano ancora a tacere su alcuni aspetti sai, a noi risulta ovviamente difficile andarle a indagare perché ragioniamo su parametri che non credo siano quelli che può avere un appartenente a un corpo di polizia come Canterini, il quale pur essendo ora un civile ha di fatto un’etica di tipo militare e ha vissuto una lunghissima stagione di leadership carismatica, sulle cui caratteristiche abbiamo tanti dubbi, poche certezze, parecchie sensazioni. C’è un gruppo di persone che ha fatto quadrato, si sono protetti l’uno con l’altro e nessuno ha osato spezzare il fronte tranne, Ansoino Andreassi, l’allora vice capo della Polizia, che è morto pochi mesi fa. Andreassi non era per storia personale legato al gruppo di Gianni De Gennaro, che è stato un po’ il deus ex machina della Polizia per qualche decennio e capo della Polizia in quel luglio 2001; è stato il poliziotto italiano di maggior successo, di maggiore prestigio internazionale, cresciuto nell’Antimafia, braccio destro di Falcone: è lui che ha gestito Tommaso Buscetta per riportarlo in Italia. Nella sua carriera dentro la Polizia, si è portato dietro una serie di persone, di suoi collaboratori che sono poi tutti quelli che hanno gestito la vicenda Diaz. Andreassi aveva una storia un po’ diversa, si è trovato come vice capo e non è un caso che sia stato esautorato nel momento di maggiore difficoltà di De Gennaro. Quel sabato 21 luglio, De Gennaro era in una posizione difficilissima, perché la gestione dell’ordine pubblico da un punto di vista tecnico era stata peggio che disastrosa. La città, come dicevano i politici, messa a ferro e fuoco. E tu cos’hai portato a casa? Quanti di questi violenti e terribile appartenenti ai black bloc hai arrestato? Nessuno. Allora Andreassi non era imputato perché quando ci furono le riunioni preparatorie dell’intervento alla Diaz lui si pronunciò contro e disse che non andava fatta questa cosa, quindi poi non partecipò all’operazione, ergo non era imputato perché non era coinvolto. Fu ascoltato come testimone. E lui diede una spiegazione ‘del perché la Diaz’, una spiegazione poi accolta di fatto dalla sentenza. Disse che c’è questa regola non scritta dentro le forze di polizia: quando tu hai accumulato degli insuccessi, sono successe delle cose che non dovevano succedere in piazza, tu hai bisogno di contrapporre qualcosa, cioè devi arrestare della gente. Fu così che la mattina – e sottolineo la mattina, non la sera – del sabato 21 luglio, arriva a Genova il braccio destro di De Gennaro, Arnaldo La Barbera. Andreassi viene accantonato e si cominciano a fare questi “pattuglioni” cosiddetti, cioè bisogna arrestare gente e attribuirgli le colpe di quello che è successo in piazza nei giorni precedenti. Per cui fecero una perquisizione e alcuni arresti collettivi alla scuola ‘Paul Klee’ e poi la sera fecero questa operazione alla scuola Diaz, che non era una scuola a caso come poteva essere la ‘Paul Klee’, dove c’erano stati e c’erano passati – secondo le informazioni che loro avevano – alcuni black bloc, tanto che fecero un arresto di gruppo, ma poi i giudici non confermarono gli arresti, quindi anche tecnicamente un po’ maldestra come operazione. La scuola Diaz, invece no. La Diaz era il quartier generale del Genova Social Forum, di Agnoletto e del GSF, che dicevano “noi siamo contro i black bloc, sono nostri avversari, siete voi che li dovete prendere. Che c’entriamo noi, non siamo noi la Polizia. Siete voi la Polizia”. Allora, la Polizia voleva poter dire: “Quelli del Black Bloc li abbiamo presi a casa vostra”. È anche un assist che fai alla politica, perché è come se tu gli dicessi: “Il GSF che fanno i santi in realtà sono complici, tant’è che quelli del Black Bloc sono passati da loro”. E la Diaz è stata raccontata così in conferenza stampa. Quindi la spiegazione del perché si fa questa operazione alla Diaz c’è. Sul piano tecnico è stata gestita in quel modo, diciamo. Sul perché sia stata condotta così, sul perché gli agenti (del Primo reparto mobile di Roma VII Nucleo Sperimentale, gruppo d’élite antisommossa comandati da Vincenzo Canterini, ndr) e quelli delle altre squadre mobili abbiano agito in quel modo, io devo pensare fossero persone disposte e preparate a fare questo. Sul perché il gruppo di Canterini abbia agito in quel modo, siccome io li ho visti all’azione gli uomini di Canterini, non è che mi venga a raccontare tante storie. Loro non hanno fatto alcuna perquisizione in nessun momento, hanno semplicemente picchiato selvaggiamente chi si sono trovati davanti.
GB: Tutti. Sia loro del reparto antisommossa sia altri.
LG: Loro sicuramente sono i primi che sono entrati e sono i più responsabili.
AB: Gli altri reparti chi erano?
LG: Erano squadre mobili di varie città. Invece quelli di Canterini erano stati preparati prima del G8, in vista del G8. Avevano i manganelli tonfa e gli era stato spiegato che cosa sono quei manganelli, che non sono i manganelli ordinari. Se io uso con forza un manganello su una spalla, per dire, ci sta si spezzi il manganello: col tonfa si spezza la spalla e sono di un materiale che non si spezza. Quando a Michelangelo Fournier, il vice di Canterini, gli fu fatta una domanda in tribunale su questi tonfa, lui disse che gli istruttori americani che gli presentarono questi strumenti gli fecero notare che – lui usò questa espressione – spezzano le ossa di un bue e sono armi letali. A seconda di come le usi tu puoi ammazzare una persona perché le ossa del cranio si sfondano. Con lo sfollagente no, ti fai un bernoccolo al massimo. Questo è il punto. Loro hanno agito così perché, io devo pensare, fossero persone disposte e preparate a fare questo. Canterini sostiene che il reparto fu selezionato fra quelli psicologicamente più stabili, più affidabili. Io francamente non ci credo. Se venissero fuori, si facessero conoscere magari ne potremmo parlare. Non sappiamo il nome e cognome di nessuno di loro. Rimane il fatto che loro hanno agito in quel modo, ci sono testimonianze inoppugnabili e a mio avviso se hanno agito in quel modo – non so se fosse una loro valutazione o una loro sensazione o ancora se qualcuno glielo avesse detto esplicitamente, non lo posso sapere – però loro hanno agito in quel modo nella certezza dell’impunità, non trovo altre spiegazioni per cui una persona di una squadra mobile che guadagna 1300 euro al mese, rischia di ammazzare una persona per nulla.
AB: Canterini scarica la colpa solo sugli agenti delle squadre mobili, quella grande macedonia di quasi quattrocento agenti, a suo dire sconosciuti, scagionando parte della sua squadra.
LG: Questo è falso, scaricare sugli altri è facile.
AB: Di fatto l’unico gruppo davvero preparato per un intervento come quello che era stato preparato alla Diaz, erano loro.
LG: Non c’è alcun dubbio, perché ci sono testimonianze convergenti di chi, come me, stava dall’altra parte manganelli. Non ci conoscevamo fra di noi, continuiamo a non conoscerci, eppure abbiamo detto tutti detto la stessa cosa. Ci sono i filmati che mostrano i suoi uomini che entrano per primi, quindi quelli che sono entrati per primi e che hanno cominciato i pestaggi sono loro, non c’era nessun altro dentro la scuola Diaz prima che entrassero loro. Canterini una volta ha citato anche il mio libro per dire che lo dicevo anch’io che c’era questa macedonia di agenti, ma non è proprio così. Prima sono entrati loro, perché hanno mandato loro come testa d’ariete e hanno cominciato loro a pestare. Poi è vero che sono entrati anche altri e alcuni degli altri si sono aggiunti.
AB: Insomma, anche quello di Canterini sembra un tentativo maldestro di depistaggio.
LG: Un tentativo maldestro che non ha avuto nessuna eco da nessuna parte, cioè nessuno gli ha dato retta, in tribunale è roba che non resiste un minuto. Non puoi usare queste parole così a casaccio di fronte a decine di testimonianze e di filmati. Non valgono niente. Lui ha eseguito degli ordini.
AB: Certo, l’unico dubbio che ti viene nell’ascoltarlo è di questa concertazione dall’alto, che rispondeva evidentemente anche a delle necessità politiche non solo italiane ma internazionali, nella quale Canterini e i suoi uomini, come molti altri, si sono trovati a svolgere il ruolo del perfetto braccio armato.
LG: Esatto, non è Canterini la persona più importante di quella sera. Operativamente non era lui a comandare, lui era sottoposto a una catena di comando dove c’erano persone ben più importanti di lui.
[1] La manifestazione era stata organizzata in opposizione alla riunione dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) sul digital divide. Nel frattempo, il governo D’Alema era caduto e si era instaurato il governo Amato, sempre di centrosinistra.
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La sottile linea nera: da Sant’Anna di Stazzema al G8 di Genova
Intervista a Lorenzo Guadagnucci
Parte 2
di Andrea Biagioni e Gianluca Bindi
GB: Adesso facciamo un salto di quasi sessant’anni. La tua storia familiare purtroppo passa anche dall’eccidio nazifascista di Sant’Anna di Stazzema, del 12 agosto ’44. Leggendo le storie degli eccidi in Toscana, tante volte c’è questo dettaglio che risalta, quello della ‘bava alla bocca’ che non si capisce come sia stato indotto. Parlavi prima di catena di comando e di eseguire gli ordini e basta: come Kesselring nel ‘44 che ha dato proprio la ‘cambiale in bianco’ a tutte le truppe naziste. Quindi in entrambi i casi Sant’Anna e Genova c’entra il fatto che i peggiori istinti sotto certe ideologie vengono fuori soprattutto quando ci sono queste cambiali in bianco? Potresti tracciare dei parallelismi e delle differenze fra questi due tipi di macelleria?
LG: Sono contesti ovviamente molto diversi, per questo si parla di una guerra da un lato e di una situazione invece di diritto civile e di ordine pubblico dall’altro. Ci sono però delle affinità sicuramente, perché mi colpisce questo uso estremo della violenza con intensità diverse. Ci sono dei punti di contatto che hanno a che fare secondo me proprio nella relazione fra le persone, fra chi pratica la violenza e chi la subisce. Quello che si nota nell’uno e nell’altro caso è una sorta di deumanizzazione dell’altro. Quello che è successo a Sant’Anna, ma anche nelle altre stragi, è che si arriva a sopprimere vite con grandissima disinvoltura senza apparente rimorso, con grande freddezza, perché l’altro in quel momento non è più una persona, è una non-persona rispetto a te. Questa è una delle modalità che rendono possibile tenere certi comportamenti da parte di persone ‘umane’, perché comunque anche chi apparteneva alle SS lo era e inoltre le stragi anche in Toscana non sono state fatte solo dalle SS – che erano i reparti più fanatizzati e che quindi avevano anche una componente ideologica personale di trasporto, di furore legata anche a un vissuto – c’erano reparti della Wehrmacht, quindi civili che erano stati impiegati in guerra, richiamati alla bisogna, e anche loro hanno fatto compiuto azioni di questo tipo. Il contesto e la situazione ti portano a sentirti poco responsabile per cose che altrimenti non faresti mai, che neppure in una vita precedente e neanche in quella successiva riterresti inconcepibili.
GB: Insomma, ti hanno convinto che quelle persone siano il nemico da abbattere, pur non essendolo, e quindi arrivi anche a commettere certi atti.
LG: Il problema nasce dal fatto che le vittime sono bambini, sono persone inermi, non armate, inoffensive verso le quali potresti fare una gradualità enorme di cose possibili, prima di chiuderli in una stalla e buttarci dentro una bomba a mano e poi smitragliare a casaccio.
Nel libro che ho scritto su Sant’Anna di Stazzema c’è questa particolarità legata alla mia famiglia e a quell’episodio – ed è un ragionamento che riguarda anche gli animali – perché a Sant’Anna molte persone, tra cui mia nonna, furono rinchiuse nelle stalle; furono tolti gli animali dalle stalle, messe dentro le persone, tirate le bombe a mano, aperte le porte e smitragliato chi era ancora vivo, un po’ a casaccio, non in maniera precisa e infatti alcuni si sono salvati. Poi però furono ammazzati anche gli animali, le mucche furono fucilate. Spesso questa cosa è stata descritta come un elemento che indicava la crudeltà: “Guarda quanto sono feroci queste SS, che bisogno c’era di ammazzare gli animali?”
In realtà, la spiegazione che ho cercato di dare è che in quel momento erano tutti animali, c’era stato un processo di deumanizzazione delle persone ridotte tutte alla condizione di animali, cioè delle vite che si possono sopprimere senza riguardo e senza rimorso. Io la penso diversamente sugli animali, quindi non sto facendo un discorso di buon senso che non condivido, però questo è forse il percorso per cui a Sant’Anna sono stati ammazzati tutti allo stesso modo, perché facevano tutti parte della stessa categoria. Sarebbe stato paradossale salvare gli animali, perché avrebbe voluto dire attribuire agli animali nella ‘loro gerarchia’ un valore addirittura superiore agli umani deumanizzati: dalle SS è un po’ troppo forse aspettarsi un capovolgimento, una considerazione superiore degli animali rispetto agli umani deumanizzati. D’altra parte, anche la campagna contro gli ebrei si era basata molto sulla metafora animale: gli ebrei come topi da sopprimere perché sono infestanti, portano infezioni, malattie. Una subumanità, una non-umanità insomma; l’inferiore che è più di un nemico: è un non-umano, un’erbaccia da estirpare.
E anche dentro la Diaz, alla fine, noi per loro non eravamo delle persone. Alle persone si chiede il nome, si dà un’identità e si riconosce una possibilità di dialogo perché anche in un rapporto di potere o di squilibrio di potere si può riconoscere una dignità. Lì non c’era, siamo stati trattati come dei sacchi di patate; di nuovo, come degli animali.
Io su questa cosa qui ci ho ragionato su anni dopo, quando ho scritto un libro animalista Restiamo animali che comincia proprio dalla mia esperienza alla Diaz. Un libro in cui racconto la prima intervista che io ho fatto, da intervistato, dopo la Diaz e che mi è venuta in mente ad anni di distanza. Erano domande che mi fece una collega amica, quando era venuta a prendermi in ospedale per portarmi a casa, e nel tragitto in macchina ne approfittò per farmi un’intervista per un giornale online dell’epoca. Lei mi chiese non tanto di raccontare i fatti ma di dare un’immagine di quello che era successo alla Diaz. “Ma come la descriveresti?” mi chiese. “C’è un’immagine che restituisca quello che avete vissuto lì dentro?” E io le dissi: “Hai presente una tonnara?”
Effettivamente a pensarci, noi eravamo dei tonni in quel momento per la nostra condizione, perché eravamo come in una tonnara dove i tonni aspettano il loro turno: sei ingabbiato, vedi i pescatori che pescano e uccidono altri tonni e poi tocca a te. È una questione fisico-geografica: sei dentro un recinto, prima uno e poi l’altro. Prima hanno picchiato quelli vicino a me, poi è toccato a me. Io ero un tonno per loro, per i Canterini-boys, perché loro si sono comportati con noi non come ci si comporta con delle persone. Non eravamo niente per loro, non avevamo la dignità della persona perché a una persona gli si riconosce quanto meno un diritto all’identità. Nelle perquisizioni si chiede il nome, si dice: “Questa è una perquisizione”. Quando c’è uno scontro fisico in piazza, per dire, c’è il Black Bloc che è disposto a un confronto fisico e tu sei attrezzato con manganelli, con scudi, con delle regole che puoi infrangere. Noi in quel caso non lo accettavamo lo scontro fisico, noi eravamo con le mani alzate a difenderci dalle botte. C’era troppa sproporzione.
AB: C’è anche un altro parallelismo, che mi sovviene ascoltandoti. Nel 1944, il capro espiatorio erano i partigiani, che furono usati come scusa dai tedeschi così che potessero rifarsela sui civili; nel 2001, la scusa sono stati i black bloc e anche lì le forze dell’ordine se la sono presa con gente che non c’entrava niente. Nel 2001, e nel caso particolare della Diaz, si sono schermati dietro al 41 Tulps [1] in quanto loro sostenevano che ci fossero lì sia le armi con cui erano stati creati i disordini sia un pericolo terrorismo e quindi poterono agire come hanno agito; mentre nel ’44 si schermarono dietro appunto i famosi ordini scritti o presunti tali.
LG: Sì, con la differenza che alla Diaz applicarono il 41 Tulps perché se avessero chiesto l’autorizzazione al magistrato, dubito che gliela avrebbe data.
GB: Tornando al ’44, mi verrebbe da farti una domanda più tecnica, che in certo senso è affine al punto da cui siamo partiti parlando di Genova: cos’è successo veramente a Sant’Anna? Era la solita tattica tedesca, come in tanti altri eccidi, di seminare il terrore fra la popolazione per allontanarli dalle zone di copertura tedesche – e allontanare anche il consenso che la Resistenza aveva fra i civili; oppure, come ricostruisce Paolo Paoletti nel suo libro (Sant’Anna di Stazzema: 1944, La strage impunita, ndr), è stato più un fatto isolato, una reazione a caldo per un proiettile sparato da un civile a Vaccareccia che ha colpito un sottufficiale tedesco? Perché i partigiani non c’erano più dall’8 di agosto, anzi la banda garibaldina del luogo si era proprio divisa, e per sessant’anni si è cercato di incolpare in tutte le maniere Walter Reder che era responsabile di altri eccidi in Italia, però fondamentalmente lui lì non c’era. Ti sei fatto un’idea su questo?
LG: La tesi dello sparo mi sembra sia stata ampiamente smentita dalla ricerca storica e anche dai processi, quindi non la ritengo credibile. Mi pare che si possa dire qualcosa sia sulla base della ricostruzione storica sia del lavoro fatto dai magistrati, anche attraverso le testimonianze che ci sono state. Sicuramente la strage di Sant’Anna rientra dentro questa strategia di fare terreno bruciato intorno ai partigiani, che era una strategia decisa dai tedeschi, ma era già stata praticata anche altrove.
GB: In Est Europa, per esempio.
LG: Tant’è che fu importato dalla Polonia, dalla Romania il reparto della 16.a divisione. Fu fatto arrivare in Italia quando il fronte si spostò lì e si capì che ci sarebbe rimasto per un lungo periodo. Quindi, quel reparto serviva per gestire questo tipo di situazioni: un esercito in ritirata, con lunghi periodi di sosta lungo le fortificazioni e col problema di questo fastidio dei partigiani – che quindi erano un fastidio, non erano un elemento ininfluente. Per lo specifico di Sant’Anna, a me sembra abbastanza convincente questa tesi, cioè che sia stata la prima di una serie di stragi che sono state definite eliminazioniste, nel senso che non avevano la caratteristica di mirare a un preciso gruppo partigiano; non c’era un gruppo operativo da colpire, non c’era neanche una rappresaglia da fare, perché non c’era stato un episodio che potesse essere inserito in una dinamica causa-effetto, un episodio di azione partigiana che avesse causato la strage di Sant’Anna. Quindi è una strage eliminazionista, decisa a freddo sostanzialmente, con premeditazione, organizzata, con un fine terroristico: spaventare. Quindi sacrificare quel posto, attuare questa strage voleva dire trasmettere un messaggio ben più ampio e infatti ce ne sono poi state altre in seguito con le stesse caratteristiche, pensiamo a Vinca.
GB: Al padule di Fucecchio.
LG: Appunto; ce ne sono state una serie che non hanno una spiegazione militare, dove si colpiscono civili inermi, in maniera massificata, perché più di 500 persone sono veramente tante da eliminare nell’arco di una mattinata. Mi sembra che sia la spiegazione più plausibile e quella più coerente con i fatti che conosciamo.
GB: Quindi scarti completamente l’ipotesi del Paoletti.
LG: Francamente sì. Non mi sembra che abbia avuto riscontri tra l’altro. Non torna anche con il tipo di organizzazione che c’era. Fu attuata proprio una strategia: le quattro colonne che arrivano, le vie di fuga bloccate, il raggruppamento delle persone e la concentrazione nelle stalle a Vaccareccia. Onestamente non mi sembra una reazione, ma sembra molto più una strategia di caccia e di gestione efficiente di un disegno d’eliminazione: è cominciato la mattina alle 7 a mezzogiorno era già finito tutto.
GB: Con l’aggravante poi dei corpi incendiati per cancellare tutto.
LG: Sì, cancellare poi sommariamente, perché in realtà hanno incendiato i corpi lì sul sagrato della chiesa. Anche tutti gli altri gruppi non erano pochi, solo a Vaccareccia erano 70 persone, pure lì hanno un po’ incendiato, però è stata una cosa non del tutto scientifica, nel senso che la tecnica probabilmente era codificata perché è stata replicata in tante situazioni. Ripeto: tolgo gli animali dalla stalla, metto le persone la stalla, chiudo le porte, tiro dentro le granate, apro le porte, i più sono morti, qualcuno si muove ancora, metto il mitra, smitraglio e poi do fuoco; però volevano evidentemente fare in fretta, non avevano questo bisogno di eliminare tutti. Se qualcuno scappava, se qualcuno gemeva, pazienza. Non è che c’avessero da nascondere qualcosa, perché avevano il controllo del territorio e non c’era qualcuno che gli inseguiva. Bisogna mettersi nell’ottica terribile, spietata della situazione.
AB: Si torna sempre sulle convergenze: arrestiamone il più possibile, eliminiamone il più possibile.
LG: Sì, ciò che voglio dire è che quello che è successo a Sant’Anna, s’è visto anche a Marzabotto, s’è visto anche a Vinca e così via. Non è che hanno ammazzato tutti, ci sono testimoni perché qualcuno è sfuggito.
GB: Si dice che abbiano ucciso anche militari tedeschi, perché si rifiutarono di sparare a donne e bambini.
LG: No, questo non è vero, almeno secondo me no. Questo è un punto che è stato affrontato nel processo, sono state richieste anche testimonianze di storici, perché effettivamente questa è una delle cose che hanno cercato di introdurre a discolpa del comportamento di singoli militari e cioè che non potevi esimerti dall’eseguire degli ordini. In realtà il processo di Sant’Anna va in direzione opposta a questo, se andiamo a vedere cos’hanno detto i magistrati militari. E c’è anche un nesso molto stretto, che io cito nel mio libro, fra Sant’Anna e la Diaz perché incredibilmente – per me incredibilmente, perché nella mia famiglia c’era anche il processo di Sant’Anna – i magistrati Enrico Zucca e Cardona Albini nella loro requisitoria al processo sulla Diaz, ovvero nella sintesi finale quando sono arrivati a chiedere le condanne, hanno costruito l’accusa sulla ‘catena di comando’ e quindi non solo sugli autori materiali dei pestaggi, sostenendo che c’era una responsabilità di tutti, anche della gerarchia perché erano stati loro che avevano organizzato e reso possibile l’esito finale del pestaggio. Questa è una costruzione giuridica non scontata, che ci siano responsabilità di uno che non ha fatto niente, perché non ha torto un capello a nessuno il caposquadra Canterini, non ha picchiato nessuno. E allora nel costruire questo piano giuridico, questo tipo di responsabilità, i giudici del processo Diaz si sono rifatti al processo di Sant’Anna di Stazzema, perché è stato il primo processo a parlare di ‘catena di comando’, rispetto ai processi fatti su altre stragi; perché c’era stato qualche processo, come per la strage di Marzabotto con il processo Reder negli anni Cinquanta e Reder fu condannato. In quei processi, però, si dava per scontato che la responsabilità fosse dei singoli capi, per cui si chiama solo Reder a processo perché era il responsabile di quella squadra che faceva pattugliamenti e che fu protagonista dei massacri a Monte Sole; si chiama Max Simon che era capo della 16.a Divisione, e ci fu un processo Simon a Venezia, condannato. D’altro canto, si dava per scontato che i sottoposti non fossero responsabili di questi eccidi. A Sant’Anna non si è fatto un processo così, si è fatto un processo completamente diverso e si è detto che i responsabili sono esattamente quelli che rendono possibile tecnicamente la strage. I dieci che hanno avuto l’ergastolo, noi non lo sappiamo se hanno fatto qualcosa, probabilmente no. È probabile che non abbiano toccato un capello a nessuno, però erano tutte persone che avevano un ruolo di comando dentro una catena gerarchica e sono stati tutti condannati per la strage all’ergastolo. Allora quel tipo di sentenza non significa che tu vieni esentato perché hai dovuto obbedire, perché eri dentro una scatola gerarchica; vieni condannato proprio perché hai obbedito. Tu dovevi disobbedire. Filosoficamente e giuridicamente è tutto un altro mondo, quindi c’era un dovere di disobbedienza e gli storici interpellati sul punto hanno detto due cose: uno, che nelle regole di ingaggio dell’esercito tedesco questa regola dell’obbedienza dovuta non c’era, neanche nelle SS. Non c’era questa sentenza di morte in arrivo se ti rifiutavi di sparare alla Vaccareccia, non c’era una normativa che potesse far pensare che uno che alla Vaccareccia non volesse sparare con una mitragliatrice, sarebbe incappato in un procedimento penale fino a la pena di morte, non risulta; secondo elemento, che fu riportato dal professor Paolo Pezzino, a precisa domanda se ci fossero casi di procedimenti penale, esecuzioni addirittura di personale delle SS che avesse disobbedito a ordini di questo tipo, rispose di no. Anzi, ci sono casi che semmai testimoniano l’opposto. Lui fece l’esempio della strage delle Fosse Ardeatine, che originava da un attacco a questo reparto ausiliario altoatesino (Polizeireegiment “Bozen”, ndr). Quando fu fatta la rappresaglia, raccolte le persone e furono messe al muro, i capi (il generale Kurt Mälzer e il tenente colonnello Herbert Kappler, ndr) diedero l’opportunità al maggiore Dobek, capo del reparto altoatesini attaccato e vittima quindi dell’attentato di via Rasella, di essere il reparto incaricato delle esecuzioni. Una sorta di vendetta sostanzialmente, di risarcimento: “Vi hanno ammazzato i vostri commilitoni, voi fate il plotone di esecuzione”. E lui rispose di no, che non se la sentivano, che loro erano cattolici e questa cosa non la volevano fare e non l’hanno fatta. L’esecuzione è stata fatta da altri, ma non è che questo comandante o i suoi sottoposto hanno avuto procedimenti penali militari, assolutamente. Semplicemente lo ha fatto qualcun altro, quindi ci si poteva esimere, certo. E giuridicamente è stato detto che ci si doveva esimere.
AB: Questo trincerarsi dietro la scusa del “stavamo eseguendo gli ordini” si è sentito ripetere con costanza anche a Norimberga.
LG: Ed è una leggenda.
AB: È un modo per trovare il capro espiatorio, anzi i capri espiatori – fra virgolette, perché non lo erano – scaricando la responsabilità sui gerarchi nazisti o fascisti che stavano in alto: “scarichiamo tutta la colpa solo su Hitler e simili, tanto sono già morti o condannati, noi abbiamo solo eseguito gli ordini”, appunto. È un po’ la stessa cosa che fanno Canterini o altri che come lui sono stati processati per i fatti del G8: si incolpa qualcuno che o per vari motivi non si può difendere o non esiste o, se c’è, è molto fumoso.
LG: Ecco appunto, è tutto molto fumoso, perché gli autori materiali dei pestaggi alla Diaz hanno avuto cura di non rendersi riconoscibili. E quando qualcuno si poteva riconoscere, è stato detto che non sapevano come si chiamava. Per cui in realtà si sono protetti, non è che hanno detto: “Potevamo picchiare perché ce l’ha detto Canterini o quello sopra Canterini”. Lui sapeva bene che non poteva picchiare, perché non c’è nessuna legge che ti autorizza a picchiare chi è seduto in terra con le mani alzate.
AB: Però si sono difesi, anzi si è difeso in particolare Canterini dicendo che lui non sapeva niente, che i suoi uomini sono arrivati, che a fare i pestaggi sono stati altri reparti mobili che lui non conosceva e così via, anche se poi è risultato evidente che i primi a entrare e picchiare sono stati i suoi uomini.
LG: Diciamo che essendo imputato ha il diritto di mentire, ecco. Facoltà più che diritto.
AB: Abbiamo parlato dei processi di Sant’Anna, di Marzabotto, eccetera. Molti sono stati interrotti, tanti altri non sono mai iniziati e molte stragi sono state lasciate a marcire nel famoso ‘armadio della vergogna’, scoperto nel ’94, in un periodo peraltro decisamente particolare per la Repubblica Italiana, perché erano gli anni successive allo stragismo mafioso e quindi si era nella fase in cui si sarebbe raggiunto il cosiddetto ‘accordo Stato-Mafia’. In quell’armadio c’erano nomi e cognomi di persone, non solo italiane, che dopo la guerra hanno comunque avuto una carriera politica o nelle forze dell’ordine – fossero Polizia, Arma dei Carabinieri, Esercito o Servizi Segreti – che è un po’ la stessa cosa avvenuta dopo Genova, dove i responsabili hanno addirittura ottenuto delle promozioni. Nel mezzo, tra le stragi nazifasciste e il G8 del 2001, sono accaduti molti fatti ancora oggi meno chiari di quanto dovrebbero essere: dai golpe, su tutti il Golpe Borghese, a Capaci e agli altri attentati mafiosi passando per il terrorismo nero, la strage di Bologna, il Gladio e la P2, in una parola la ‘strategia della tensione’. Insomma, c’è stata e c’è tuttora una serie di misteri italiani che ancora non trovano chiarezza e sono talmente tanti che quasi ce la battiamo veramente con gli Stati Uniti in quanto a ‘cospirazioni’, reali o presunte, e informazioni o documenti secretati dalle istituzioni su eventi che hanno avuto risvolti anche a livello internazionale. Apro una parentesi: in molti casi, c’è una palese contiguità tra alcune zone d’ombra della storia americana del dopo guerra e quelle della storia repubblicana italiana; penso in particolare all’Operazione Condor attuata dalla Cia in Sudamerica, in cui per esempio emergono, tanto per dirne una, i legami tra la P2 e alcune dittature militari come l’Argentina. Chiudo parentesi e ti chiedo: il fatto che in Italia si sia sempre tentato di oscurare questi fatti, di nasconderli sotto il tappetto, fa parte di una strategia appunto, o è la conseguenza dell’indolenza di un Paese che non riesce fare i conti con sé stesso e col proprio passato, concedendo involontariamente e ingenuamente a queste frange più estreme e ai loro istinti autoritari un margine di manovra che consente loro di agire nell’ombra, di infiltrarsi e di emergere in aree strategiche del potere politico ed economico, anche attraverso reazioni, atti estremamente violenti, come alcune delle vicende che abbiamo citato. Sono insomma fenomeni politici e sociali che hanno una medesima origine magari, ma sono slegati tra loro, non consequenziali l’uno con l’altro, oppure c’è un filo rosso, anzi un filo nero che li unisce.
LG: Ecco appunto, forse il filo è nero. Sì, io penso che ci sia un po’ un filo nero, nel senso che si può fare una storia delle istituzioni italiane, anzi è stata fatta, ci sono delle fonti alle quali attingere. Anche limitandoci alla storia unitaria, dove tutto sommato non è che si parli di chissà quanto tempo e certamente sono cambiate storicamente tante cose, però se vai a vedere, non ci sono stati dei grandi punti di rottura. Per esempio, concentriamoci sulle forze dell’ordine, sugli apparati polizieschi e militari, partendo dal modello della polizia del re. È un fatto storico, le polizie nascono dentro situazioni non democratiche. C’è il re e la sua polizia: la gestione dell’ordine pubblico è una cosa autoritaria. Ci sono i diritti dei cittadini da garantire, la polizia del re rimane per un periodo 1ungo, quindi si consolida, si forma una cultura, si allarga il numero degli appartenenti a queste forze dell’ordine, ai carabinieri e si cresce dentro una cultura di tipo militare. Non si ipotizza neanche che possano essere non militari, la polizia, i carabinieri eccetera. Ci sono gerarchie, ci sono gradi, ci sono le mostrine, il cappello e così via. Poi si arriva al fascismo.
GB: Nel fascismo c’è un altro tipo di polizia, quasi ‘privata’ fondamentalmente.
LG: Il fascismo ci mette dentro qualcos’altro ancora, un carico da novanta.
AB: C’è una forza paramilitare che si unisce…
LG: E che si affianca in qualche modo. C’è una convivenza fra il fascismo e le forze dell’ordine, perché c’è il Fascismo inteso come movimento e il fascismo che diventa Stato, che eredita tranquillamente quella tradizione di tipo militare, che mette i suoi semmai a guidare, a controllare. Arturo Bocchini, allora capo della polizia per esempio, è un personaggio che viene comunque da una sua storia militare che diventa poi fedele al regime.
AB: Anche i reparti militari non è che si trovassero a disagio con il fascismo.
LG: Non mi pare che ci sia stata una contestazione nei reparti militari, anzi penso che il grado di consenso degli apparati militari e della polizia per il fascismo sia stato piuttosto alto, non si sono avute notizie di disagi per un nuovo corso che non era poi così nuovo.
AB: Anzi, forse meglio, almeno leggendo alcune fonti storiche su figure come il generale Cadorna per dire, che esaltò Mussolini scrivendo più o meno che se ci fosse stato lui nel ’17 non ci sarebbe stata Caporetto.
LG: Esattamente. Quindi poi arriviamo all’unico punto di rottura possibile, quello del passaggio dal fascismo alla Repubblica, dove indubbiamente ci sono stati dei cambiamenti, però le linee di continuità sono state fortissime sia negli uomini sia nelle forme. Per cui la polizia del fascismo non è stata smantellata. Se andiamo a vedere addirittura le biografie dei prefetti, dei capi della polizia, è il personale che è stato fascista e che diventa antifascista.
GB: E poi anticomunista.
LG: Sì. Intendo antifascista, per dire che si inseriscono nello stato democratico, che è antifascista. Forse il termine antifascista non è proprio il termine corretto…
AB: Però in effetti, anche nella Democrazia Cristiana, che faceva parte della Resistenza ed era quindi un ‘reparto’ dell’antifascismo, sono entrati molti che avevano un passato fascista.
LG: Esatto, non c’è stata una rottura vera in quel momento, in cui può veramente cambiare qualcosa. C’è stata una continuità sostanzialmente. La gestione di Scelba [2] per dire, non ha avuto niente da invidiare alla modalità d’azione della polizia del re o della polizia fascista, era più o meno la stessa cosa. È chiaro che quando dura così tanto, che nemmeno la frattura fascismo/democrazia riesce a cambiare veramente indirizzo, è difficile poi riportare le forze di polizia dentro i binari della cultura democratica che nel frattempo si è consolidata. C’è stato questo sforzo, perché nel 1981 fu fatta una riforma della Polizia, ci fu un movimento anche all’interno delle forze di polizia che agivano clandestinamente, perché il sindacalismo era vietato. Ci sono poliziotti che sono andati in galera per tentata costruzione di un sindacato interno e che è stato possibile organizzare solo dopo l’81, cioè quando il Parlamento ha votato questa riforma di smilitarizzazione della Polizia di Stato con l’ammissione del sindacalismo, che era uno dei portati di questo cambiamento sociale che c’era in Italia negli anni Settanta, quando ci son state riforme di tutti i tipi: la chiusura manicomi (meglio conosciuta come ‘Legge Basaglia’, ndr), la riforma scolastica, la riforma sanitaria, la legge sul divorzio, la legge sull’aborto, la legge sull’obiezione di coscienza. E fra queste c’era anche una riforma della Polizia. Per cui c’è stata questa finestra, però francamente le esperienze del G8, per come è stato vissuto il G8 dopo dalle forze di polizia, ci fanno dire che la riforma dell’81 è morta e sepolta. È ancora formalmente vigente, ma non nel suo spirito.
GB: Che la riforma fosse stata attuata in seguito alla scoperta della P2, sempre nell’81, e per i relativi processi o conseguenze è possibile?
LG: No, secondo me no. La riforma dell’81 si spiega con i movimenti degli anni ’70, con la democratizzazione della società italiana in quegli anni, che oggi vengono descritti come gli ‘anni di piombo’ e gli anni delle BR, che è anche vero, però sono soprattutto gli anni delle riforme. Tutte le riforme importanti italiane sono state fate negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta. La legge sul divorzio è del ’74 [3], la riforma sanitaria è del ’78, la legge sull’aborto è del ’78 e fu confermata nell’81 [4], la chiusura dei manicomi è ancora del ’78, la riforma scolastica del ’77 [5]. Tutte le riforme sono state fatte in quella stagione di enorme mobilitazione.
AB: Sono concessioni che uno Stato è costretto a un certo punto a fare per evitare l’implosione.
LG: C’era una richiesta della società fortissima. C’erano i movimenti dentro la scuola, non solo di studenti ma anche di professori. C’era una richiesta da parte del movimento delle donne, per cui la legge sul divorzio e sull’aborto. Sono cose che nascono dalla società e poi arrivano in Parlamento. Non è che il Parlamento si è messo lì a decidere di sua iniziativa.
AB: In pratica, si trattava di un momento storico in cui si richiedevano dei cambiamenti sociali alla grande forza politica di maggioranza dell’epoca, che era appunto la Democrazia Cristiana, la quale di fronte a queste spinte si rese conto che la pressione sociale aumentava, aumentava il rischio di perdere il controllo della situazione e quindi venne un po’ costretta a fare delle concessioni. Ed è un po’ anche il processo che aveva dato il via al Compromesso Storico col Partito Comunista Italiano, che avvenne proprio in quegli anni e che in qualche modo ‘giustificava’ quelle concessioni della DC.
LG: Però, questo ragionamento è un po’ viziato dalla situazione che viviamo oggi, dove l’attenzione è tutta sui partiti e sui governi. In realtà, negli anni Settanta non era così. C’era una centralità del Parlamento per cui queste leggi, tutte quelle che abbiamo nominato, sono state approvate in Parlamento con maggioranze che non corrispondevano affatto alle maggioranze di governo, che era guidata dalla DC con nel mezzo i partiti di centro/centrodestra e al massimo il PSI (Partito Socialista Italiano, ndr); per cui, la maggioranza per fare la riforma sanitaria o per approvare la legge per la chiusura dei manicomi o la legge di polizia e così via, si trovava in Parlamento con i voti dell’opposizione e spesso con la contrarietà del governo. La legge sul divorzio è stata fatta con la DC contraria ed era la DC, che esprimeva il Presidente del Consiglio, a organizzare per esempio un referendum per abrogare una legge che era stata appena approvata. Il governo era contro. Fanfani era il capo della DC, che aveva il controllo governo, ed è lui che organizza le firme per abolire una legge approvata dal Parlamento. Quindi, in quel momento il Parlamento aveva una centralità, per cui era normale che vi si facessero delle leggi indipendentemente dalle scelte del governo, dalle sue opinioni. Oggi non sarebbe più possibile, perché oggi le maggioranze sono blindate, il Parlamento è terreno di scontro. Non fanno una legge nemmeno a morire. La legge sullo ius soli perché non l’hanno votata nella scorsa legislatura? C’era la maggioranza, ma il governo in quel momento riteneva che se si fosse approvata quella legge, non avrebbe più retto. Ci sono altre dinamiche, altri modi di ragionare. Allora non funzionava così.
AB: Se oggi il PSI della situazione o comunque le forze che sono all’interno di un governo di “larghe intese”, votassero una legge proposta dall’opposizione sulla quale la maggioranza di governo è contraria, crollerebbe il governo e bisognerebbe ripartire da capo. Non che ci fosse tutta questa stabilità anche negli anni Settanta, però magari si andava ai rimpasti. In ogni caso, il Parlamento aveva comunque una centralità che a tuo avviso oggi manca.
LG: Aveva un’autonomia. Gli stessi parlamentari ragionavano diversamente, perché quando è stata presentata la legge sui manicomi, il relatore era un deputato democristiano, non è che l’ha fatta chissà chi.
AB: E qui, rimanendo sugli anni Settanta, viene da pensare che all’interno del lato più conservatore della DC – il quale ebbe risvolti anche estremi e di contatto per esempio con l’MSI (Movimento Sociale Italiano, partito neofascista, ndr) e con certe forze dell’estrema destra extraparlamentari che erano legate fra loro e formavano proprio una sorta di “sottobosco nero” dell’epoca – in una situazione come quella che hai descritto insomma, forse questa ala più estrema riteneva che la Democrazia Cristiana o comunque il governo si fosse indebolito progressivamente e stesse concedendo troppo, arrivando quindi a dire “ora basta concedere” e cercando a più riprese di dare una svolta più conservatrice e magari anche autoritaria al Paese. Proprio in quel periodo poi viene fuori il discorso che riguarda la P2 e molto altro e a quel punto sembra la strategia cambi; si cerca di dare un altro tipo di svolta, magari meno autoritaria ma più adatta a conservare certi interessi di potere. E infatti, è una strategia che sembra pagare, perché da lì in poi, come dicevi, basta riforme.
LG: Le cose effettivamente sono cambiate. Quello che poteva succedere negli anni ’70-’80, adesso non succede più, perché non c’è più questo collegamento fra Parlamento, partiti e resto della società. Adesso il parlamento e i partiti si concepiscono come altro dalla società: non hanno più relazioni con essa.
AB: Quando c’è stato questo cambiamento che ha di fatto svalutato il Parlamento in favore dei partiti di maggioranza?
LG: Ha cominciato a sgretolarsi quando sono comparse queste figure tipo Craxi, che hanno cominciato ragionare su forme di presidenzialismo, sulla personalizzazione della politica; e sul piano normativo, quando si è passati a preferire al ‘principio di rappresentanza’ il ‘principio di governabilità’. Per cui all’inizio degli anni Novanta cominciarono a dire basta a “questi governi che cadono, che si succedono di continuo, perché ci vuole più stabilità”. Nel frattempo, crescevano questi fenomeni sociali e politici di disinteresse per la politica, di perdita di peso politico dei partiti, anche di minore peso delle ideologie con il 1989 e il crollo dei partiti comunisti, in particolare del PCI in Italia che fu un disastro. A livello normativo, forse gli anni più significativi sono quelli del cambiamento della legge elettorale, dell’elezione diretta dei sindaci, dove il sindaco diventa un individuo che risponde alla collettività ogni 5 anni, non ci sono più delle forze politiche che si relazionano costantemente con la società. Lì te la giochi tutta in due mesi di campagna elettorale: e poi? Non c’è da rispondere a un consiglio comunale, tu hai già la tua legittimazione una volta vinte le elezioni e il discorso è chiuso.
AB: Come se ci fosse un’onda lunga che dagli anni ’80 si indebolisce sempre di più – o si rinforza, dipende dai punti di vista – arrivando poi ai primi anni Duemila, al G8 appunto, al governo Berlusconi e tutto quello che ne consegue successivamente. Che poi non a caso quel governo Berlusconi è l’unico governo della storia repubblicana, a parte quello di De Gasperi forse, che fino a prova contraria è durato cinque anni.
LG: Sì, poi appunto questa stabilità si è rivelata un mito, anche perché l’idea di proporre questi sistemi maggioritari bipolari, in culture politiche che non sono bipolari, non ha funzionato, mi sembra. Ci sono sempre almeno tre o quattro poli. Quindi ti puoi anche mettere insieme al momento delle elezioni, ma dopo le elezioni poi ti spacchi. È successo anche a Berlusconi con Fini. È un mito più che altro questo del bipolarismo, che però ha delle conseguenze pesanti, perché la rappresentatività si perde, il ruolo del Parlamento si perde, la democrazia è sempre meno democratica e tende a privilegiare la parte esecutiva rispetto a quella rappresentativa: in quello che prima era un bilanciamento, ora conta molto di più l’esecutivo del rappresentativo. I parlamenti oggi hanno un ruolo minimo. Guarda come vengono trattati, anche in questo governo. Draghi gli consentono tutto per cui non c’è opinione pubblica, non c’è giornalismo. Pensa a come hanno dato il Piano Nazionale di Ricoveri e Resilienza [6], praticamente dalla mattina per la sera, anche in maniera violenta e brutale. Chi aveva osato uno sgarbo del genere? Nessuno. Il Piano è stato presentato a mezzogiorno, alle 3 è iniziata la discussione e la sera alle 8 avevano già votato. Il Parlamento però non ha avuto la dignità di dire: come ti permetti? Insomma, almeno il rispetto dell’istituzione, ma ormai è pacifico che il Parlamento non conta niente. Conta il voto e basta.
[1] L’articolo 41 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Tulps – R.D. 18 giugno 1931 n.773) prevede che ”gli ufficiali e gli agenti della polizia giudiziaria, che abbiano notizia, anche se per indizio, della esistenza, in qualsiasi locale pubblico o privato o in qualsiasi abitazione, di armi, munizioni o materie esplodenti, non denunciate o non consegnate o comunque abusivamente detenute, procedono immediatamente a perquisizione e sequestro”: ciò consente alla polizia giudiziaria di procedere alla perquisizione senza la preventiva autorizzazione di un magistrato.
[2] Mario Scelba, ex ministro dell’Interno ed ex presidente del Consiglio della Repubblica Italiana di ala democristiana.
[3] La legge n. 898 sul divorzio, o legge Fortuna-Baslini, entrò in vigore il 1° dicembre 1970, ma fu oggetto di scontri e a rischio abrogazione fino al 1974, anno in cui venne effettuato il referendum promosso dalla DC con il sostegno in particolare di MSI e gran parte del mondo cattolico e richiesto già nel gennaio del 1971. Il 12 maggio 1974 alle urne referendarie prevalse il ‘No’ all’abrogazione e la legge Fortuna-Baslini rimase in vigore.
[4] La legge n. 194 sull’aborto seguì più o meno lo stesso percorso della legge sul divorzio. Fu promulgata il 22 maggio 1978, fu a lungo oggetto di scontro finché si arrivò nel maggio del 1981 a un referendum, che prevedeva due quesiti sull’aborto: il primo era proposto dal Partito Radicale e richiedeva la totale liberalizzazione della pratica abortiva; il secondo era stato proposto dal Movimento per la Vita e richiedeva l’abolizione della legge stessa. Entrambe le proposte furono bocciate e la legge sull’aborto rimase in vigore, così come promulgata nel 1978.
[5] La legge 517 fu emanata il 4 agosto e nei suoi 17 articoli prevedeva, la modifica dell’assetto organizzativo della scuola italiano abolendo le classi speciali e inserendo nelle classi comuni gli alunni disabili, la modifica dell’ordinamento scolastico e delle norme sulla valutazione degli alunni, abolendo gli esami di riparazione.
[6] All’epoca dell’intervista, il cosiddetto Pnrr stava svolgendo l’iter di approvazione, che arrivò in maniera definitiva il 13 luglio 2021, dopo essere stato presentato a Camera e Senato rispettivamente il 26 e 27 aprile 2021 e, in seguito al via libera delle camere, trasmesso ufficialmente in data 30 aprile alla Commissione Europea (che avrebbe dato parere positivo) e , subito dopo, al Parlamento italiano.
da: https://threefaces.org/
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