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Immagine del redattoreLE MALETESTE

Italia 1950: appunti su una strage operaia (Modena, 9 gennaio)



Perché in silenzio bambino di Modena, e il gioco di ieri non hai continuato? Non è più ieri: ho visto la Celere quando sui nostri babbi ha sparato.

Non è più ieri, non è più lo stesso: ho visto, e so tante cose, adesso. So che si muore una mattina sui cancelli dell’officina, e sulla macchina di chi muore gli operai stendono il tricolore.

GIANNI RODARI sull'eccidio di Modena, 9 gennaio 1950






La strage

Verso le dieci del mattino del 9 gennaio una decina di operai giunse ai cancelli delle Fonderie Riunite, le quali erano circondate da carabinieri armati. All'improvviso un carabiniere sparò un colpo di pistola in pieno petto al trentenne Angelo Appiani, che morì sul colpo. Subito dopo, dal tetto della fabbrica i carabinieri aprirono il fuoco con le mitragliatrici verso via Ciro Menotti contro un altro gruppo di lavoratori, che si trovavano al di là del passaggio a livello sbarrato in attesa dell'arrivo di un treno, uccidendo Arturo Chiappelli e Arturo Malagoli e ferendo molte altre persone, alcune in maniera molto grave.

Dopo circa trenta minuti, in via Santa Caterina l'operaio Roberto Rovatti, che portava al collo una sciarpa rossa, venne circondato da una squadra di carabinieri, linciato con i calci dei fucili e poi buttato dentro ad un fossato per essere freddato con un proiettile alla nuca.

Infine, giunse in via Ciro Menotti un blindato T17 che iniziò a sparare sulla folla, uccidendo Ennio Garagnani.

Appena appresa la notizia della strage, i sindacalisti della Cgil iniziarono ad avvisare, con gli altoparlanti montati su un'automobile, i manifestanti di spostarsi verso piazza Roma. Tuttavia, verso mezzogiorno, un carabiniere uccise con il fucile Renzo Bersani, il quale stava attraversando a piedi l'incrocio posto alla fine di via Menotti, posto a oltre 100 metri dalla fabbrica.

Il bilancio della giornata fu di 6 morti, 200 feriti e 34 arrestati con l'accusa di resistenza a pubblico ufficiale, radunata sediziosa e attentato alle libere istituzioni.





Antefatti e contesto storico (1)

MODENA nel dopoguerra

Tra gli anni 1947 e 1949, nella sola città di Modena erano stati arrestati 485 partigiani per vicende legate alla lotta di liberazione, mentre circa 3.500 braccianti agricoli erano stati denunciati per l'occupazione delle terre.

Nello stesso periodo, gli industriali di Modena iniziarono una politica di aumento della produzione finalizzata all'esportazione, il che però presupponeva la drastica riduzione del salario degli operai.

Al fine di azzerare le resistenze dei lavoratori e dei sindacati, le aziende iniziarono a licenziare gli operai, soprattutto quelli legati al sindacato e ai partiti politici di sinistra, e a compiere numerose serrate.

Inoltre, al fine di indebolire ulteriormente il potere contrattuale di sindacati e "commissioni interne", introdussero una maggiore disparità salariale, legando massicciamente la retribuzione operaia alla produzione.

Infine, iniziarono a chiedere la collaborazione delle forze dell'ordine per impedire forme di protesta come picchetti o altre manifestazioni: in appena due anni la polizia era dovuta intervenire 181 volte per sedare conflittualità sul posto di lavoro.


A Modena, dalla fine degli anni quaranta alla metà degli anni cinquanta, nonostante un ininterrotto clima antisindacale si perdevano complessivamente più di 1200 posti di lavoro.

Per diversi studiosi, la strage alle Fonderie di Modena ha rappresentato il culmine della guerra fredda in Italia, iniziata nel 1947 con la strage di Portella della Ginestra.






Antefatti e contesto storico (2)

MARIO SCELBA (1901-1991)

era il ministro dell'Interno al momento dei fatti di Modena. Rimase infatti Ministro dell'Interno del governo De Gasperi dal 2 febbraio 1947 al 7 luglio 1953 e dal 26 luglio 1960 al 21 febbraio 1962.

Il banditismo siciliano costituì la prima grande questione da affrontare. Di fronte alla strage di Portella della Ginestra del 1º maggio 1947, l'atteggiamento del Ministro dell'Interno fu inizialmente teso a minimizzare l'accaduto, definendo l'eccidio un caso circoscritto di «banditismo feudale», negandone la natura politica.

In vista delle elezioni politiche del 1948, preparò lo Stato al possibile scoppio di una guerra civile, rafforzando la polizia, espellendo da essa elementi considerati, dal suo punto di vista, di dubbia fedeltà, conseguenti ad arruolamenti provvisori avvenuti sul finire della guerra, come la cosiddetta polizia ausiliaria, di cui fece parte un numero di ex partigiani, per la maggior parte provenienti dalle Brigate Garibaldi.

Scelba riteneva che essendo composte da un'alta percentuale di comunisti avrebbero potuto agire dall'interno delle forze dell'ordine per attuare la rivoluzione comunista in Italia.[5] Tali elementi vennero quindi sostituiti con uomini di fiducia - chiamati in maniera dispregiativa «scelbiatti» - la cui risolutezza e spicciatività provocò tumulti sia in piazza che in Parlamento. Gli effettivi della polizia, dal luglio del 1947 al gennaio del 1948, aumentarono di 30.000 unità, fino a raggiungere una forza complessiva di 70.000 uomini, in aggiunta ai 75.000 effettivi dell'Arma dei Carabinieri e ai circa 45.000 agenti della Guardia di Finanza. Il titolare dell'Interno impegnò la macchina organizzativa del Ministero e delle questure nel lavoro per la costituzione e la dislocazione nelle aree nevralgiche del territorio nazionale di reparti mobili e di pronto intervento.





La gestione di Scelba determinò una rapida riorganizzazione del Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza. La celere, nata sotto il suo predecessore Giuseppe Romita, crebbe perfezionando l'equipaggiamento (fu dotata di mitragliatrici pesanti e addirittura di mortai) e distinguendosi come un vero e proprio reparto di pronto impiego militare, idoneo a situazioni belliche che l'insorgente guerra fredda rendeva non improbabili. I reparti della celere divennero unità assai organiche e coese, la cui complessità e consistenza quantitativa variavano in funzione dei problemi d'ordine pubblico previsti.





Antefatti e contesto storico (3)

LE FONDERIE RIUNITE DI MODENA

Fondate nel 1938, le Fonderie Riunite erano un'azienda di proprietà dell'industriale Adolfo Orsi, il quale possedeva anche la Maserati (la cui produzione fu trasferita da Bologna a Modena nel 1940) e una sua fabbrica di candele di accensione e accumulatori.


Subito dopo le elezioni politiche del 18 aprile 1948, Adolfo Orsi decise tre giorni di serrata della fonderia, chiedendo l'intervento della polizia per eliminare i picchetti degli operai in protesta.


Alla fine del 1949 Adolfo Orsi licenziò tutti i suoi 560 dipendenti, al fine di poter riassumere altri operai non iscritti né al sindacato né ai partiti. Il piano industriale di Alfredo Orsi prevedeva inoltre di diminuire i premi di produzione, abolire il Consiglio di gestione, addebitare il costo della mensa nella busta paga degli operai, rimuovere ogni bacheca sindacale o politica all'interno della fabbrica e discriminare le donne (ad esempio, eliminando la stanza dove le operaie potevano allattare i figli che si portavano in fabbrica).

Dopo aver sottoposto la fonderia ad una lunga serrata di un mese, i sindacati risposero proclamando uno sciopero generale di tutte le categorie e in tutta la provincia per il 9 gennaio 1950, nonostante gli ostacoli posti dalla prefettura e dalla Questura di Modena, che negarono l'uso di qualsiasi piazza per poter tenere la manifestazione sindacale.


Secondo alcune fonti, il questore arrivò a minacciare esplicitamente (“vi stermineremo tutti”) la delegazione di parlamentari e dirigenti sindacali che avevano richiesto l'uso della piazza. Di fatto, il giorno prima dello sciopero arrivarono a Modena circa 1.500 poliziotti appartenenti ai distaccamenti III° Mobile di Piacenza, VI° Mobile di Bologna e Ferrara e XX° Mobile di Cesena, per presidiare le Fonderie Riunite con camion, autoblindo T17 Staghound e armamento pesante, appostandosi con le armi anche sui tetti della fabbrica.





Ai funerali, l’11 gennaio, l’Unità invia il poeta e scrittore Gianni Rodari, allora giovane cronista. Scriverà Rodari nell’articolo 300.000 lavoratori ai funerali delle sei vittime: “La città gloriosa, ammutolita dal dolore e stretta intorno ai suoi assassinati del 9 gennaio si è riempita stamani di passi pesanti che popolavano le sue strade, le sue piazze […] I sei avevano l’espressione contratta del dolore e dello spaventoso stupore in cui li sorprese la morte. Caduti allineati l’uno a fianco dell’altro nelle bare avvolte in bandiere. I tre ragazzi di 20 anni sembravano ancora vivi e la terribile espressione dei loro volti sembrava dovuta ad un sogno angoscioso e passeggero… Sulle fotografie i volti sembravano anche più giovani. Garagnani e Malagoli avevano una luce quasi infantile”.


“Le bare – prosegue Rodari – erano portate a spalla da operai, ferrovieri tramvieri, braccianti. Su ognuna di esse un modesto cartello col nome e l’età del caduto: Appiani Angelo, anni 20; Bersani Renzo, anni 21; Garagnani Ennio, anni 21; Chiappelli Arturo, anni 43; Malagoli Arturo, anni 21; Rovatti Roberto, anni 36. Niente altro. Da tutti i muri della città le fotografie dei caduti rispondevano a quei cartelli. Dietro le bare camminavano i familiari composti nell’atroce dolore, Alcuni di loro, poche ore dopo la morte dei loro cari, sono intervenuti al comizio di protesta a cui ha partecipato tutta la città, e solo la parola «eroismo» può definire questa capacità di fondere un dolore personale alla grande voce di una protesta collettiva”.




Antefatti e contesto storico (4)

UNO STILLICIDIO CONTINUO E CRUENTO Nel solo 1948, l'anno del 18 aprile e della DC trionfante, sono 17 i lavoratori uccisi, centinaia i feriti, 14.573 gli arrestati (tra essi 77 segretari di Camere del lavoro). L'impiego della polizia nelle vertenze sindacali è una prassi costante; il ministro-mitra, che di nome fa Mario Scelba, mantiene il proposito espresso al momento dell'insediamento del governo De Gasperi: «Farò seguire un 18 aprile sindacale». È lo "scelbismo; ogni agitazione di lavoratori vista come la lunga mano della cospirazione comunista in agguato e le "forze dell'ordine" chiamate a sparare sui braccianti intese come difensori della minacciata libertà italica. È lo "scelbismo", quasi una guerriglia. Nei soli due mesi prima di Modena, ci sono tre eccidi - Melissa, Torremaggiore, Montescaglioso - poveri braccianti stroncati dal piombo sul lungo, sanguinoso cammino della occupazione delle terre. Ma non ci sono metodi meno pesanti nel Nord delle industrie, sono considerati illegittimi e perseguibili a colpi di fucile anche gli scioperi a scacchiera o a singhiozzo, il picchettaggio delle fabbriche "serrate" dai padroni, persino la propaganda sindacale. 185mila militi tra poliziotti, carabinieri, guardie di finanza sono pronti in campo, 50mila in più che sotto il regime fascista.

Durante la lotta dell’Agro romano, la Camera del lavoro di Roma è posta in stato d'assedio la stessa vigilia di Natale a San Giovanni Persiceto «durante lo sciopero, la polizia batte i campi in jeep e motociclette... Chi non riesce a fuggire viene caricato sulle camionette... I braccianti, uomini e donne, vengono trasportati dieci o dodici chilometri lontani dalle loro abitazioni, si tolgono loro le scarpe e poi vengono abbandonati in aperta campagna. Nel corso dello stesso sciopero, la polizia ha arrestato 32 lavoratori, ne ha feriti 505 e ha distrutto 155 biciclette» (già, nella guerra dei poveri in corso, sono in campo anche distruttori di biciclette, gli sterminatori di abitazioni formate da un solo locale per dieci persone, le spedizioni punitive in luoghi dove la gente non possiede nulla di nulla). Volti di operai e contadini trucidati ci guardano da queste pagine che sembrano sepolte. E i fatti - i fatti che annunciano Modena - sono una sequenza lunghissima di violenze soprusi, sparatorie, Morti e feriti, operai e contadini colpiti solo nell’ultimo anno; nella lista Gravina, Cosenza Andria, Rovigo, Pistoia, Ferrara, Molinella di Bologna, Cremona, Brescia, Sulmona, Salerno, Ostia, Marsala, Sesto S. Giovanni, Catanzaro, Urbino, Ancona, Pesaro. Il massacro di Modena è però come una deflagrazione che scuote tutta Italia.

Le Fonderie Riunite sono il cuore della città operaia, e il padrone, il conte Adolfo Orsi, ex boss fascista, pezzo grosso della Confindustria, proprietario di altre fabbriche metalmeccaniche, di grandi imprese commerciali, di cave nel Bresciano, di vasti possedimenti terrieri, è un vero padrone delle ferriere.

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