A Torino, nell'estate del 1917, i problemi economici e le difficili condizioni in cui si trovavano a lavorare la maggior parte dei proletari italiani sfociarono in una serie di rivolte che assumeranno anche un carattere antimilitarista contro la guerra in atto.
I fatti
Il mancato rifornimento di farina (ma si trattò di un ritardo di poche ore), del 22 agosto 1917, fu il varco attraverso il quale le dimostrazioni per il pane si tramutarono in moti antimilitaristi che durarono circa una settimana.
Il 23 agosto gli scontri si fecero più violenti. In vari punti della città, i rivoltosi si fronteggiarono con le forze di polizia e dell'esercito. I teatri degli scontri più aspri e violenti furono a Borgo San Paolo, la Barriera di Nizza e la Barriera di Milano (quartiere in cui vi era una fortissima presenza di socialisti 'rigidi' e anarchici, tra cui Maurizio Garino, Italo Garinei e Pietro Ferrero.
Le rotaie dei tram vennero divelte, furono erette barricate in diversi punti della città e molti negozi vennero saccheggiati. In Barriera di Milano, un gruppo di anarchici costituì un centro organizzativo della sommossa. Alla fine della giornata si contarono 7 dimostranti uccisi dalle forze dell'ordine, 37 feriti e 200 arrestati.
Il giorno seguente, 24 agosto, gli scontri continuarono, ma stavolta l'esercito passerà ad una ancor più dura controffensiva.
Il 24 agosto, venerdì, è la giornata che decide la sorte dell'insurrezione. Gli operai in rivolta cercano, specie la mattina, di rompere lo sbarramento frapposto ai due focolai maggiori della periferia, ma senza successo. Prima di sera la forza pubblica e l'esercito passeranno alla controffensiva.
Sarà questa, anche, la giornata più sanguinosa. Dalle otto di mattina sino al calare della sera è un susseguirsi continuo di scontri, di episodi di lotta narrati in modi contrastanti dai due campi, separati - è il caso di dirlo - da vere barricate. I dimostranti sono poco e male armati: rivoltelle, bombe a mano, qualche fucile; l'esercito impiega mitragliatrici e tanks. Oltre che ai confini della Barriera di Milano e di San Paolo, un nuovo epicentro di scontri si forma nella Barriera di Nizza.
Qui, nella mattinata, gli insorti lanciano due bombe a mano e fanno uso di armi: sono uccisi un dimostrante e un soldato. Frattanto, rudimentali manifestini invitano i soldati a gettare le armi e a fraternizzare, mentre un altro distribuito a mano in Borgo Vanchiglia dice:
"Amici e compagni lavoratori, unitevi tutti alle barriere di Milano, Lanzo, Orbassano, ribellatevi sempre più e vedrete che vinceremo contro gli assassini e i carnefici, vi saluto! Viva i ribellatori e i rivoluzionari".
Da martedì 28 agosto furono sedate le rivolte e le autorità poterono annunciare con enfasi che «l'ordine regnava a Torino».
Durante questi giorni di protesta la folla cantava un ritornello che poi divenne famoso:
«Prendi il fucile e gettalo (giù) per terra
vogliam la pace, vogliam la pace,
vogliam la pace, mai vogliam la guerra!».
Testimonianza
Durante i due giorni di rivolta antimilitarista, alcune donne furono protagoniste di un episodio, testimoniato da una giovane operaia:
«...un migliaio di donne sbucarono dai portoni di tutte le case, ruppero i cordoni e tagliarono la strada ai carri blindati. Questi si fermarono un momento. Ma l'ordine era andare ad ogni costo, azionando anche le mitragliatrici. I carri si misero in moto: allora le donne si slanciarono, disarmate, all'assalto, si aggrapparono alle pesanti ruote, tentarono di arrampicarsi alle mitragliatrici, supplicando i soldati di buttare le armi. I soldati non spararono, i loro volti erano rigati di sudore e lacrime. I carri avanzavano lentamente. Le donne non li abbandonavano. I carri dovettero arrestarsi.»
Altri fatti
Incendiata la chiesa di San Bernardino
Anzi, la sommossa tende, forzatamente, a rinchiudersi nei vari rioni periferici e non avrà un suo centro motore.
In Borgo San Paolo, nella stessa mattinata avvengono alcuni dei fatti più gravi. La folla saccheggia e incendia la chiesa di San Bernardino e l'attiguo convento dei frati. L'episodio ha alcune radici lontane: l'anno precedente aveva destato grande emozione nel quartiere il fatto che due ragazzi, entrati nell'orto del convento per rubare della frutta, fossero stati percossi dai frati i quali, - scriveva Gramsci, - «li hanno sfregiati tracciando loro sul cranio il segno della croce».
Saccheggiata la chiesa della Pace
Quasi contemporaneamente, anche la Chiesa della Pace alla Barriera di Milano viene invasa e saccheggiata. «Sul campanile fu issata la bandiera rossa, la cantina del parroco fu vuotata del vino e delle provviste che vi erano contenute e che furono distribuite alla folla».
Sempre nella stessa zona, due caserme delle guardie di città sono assalite: è evidente la caccia alle armi che organizzano gli animatori della rivolta. Si cerca di allargare il movimento ai paesi vicini: a Pianezza, a Collegno, a Rivoli, e a Trofarello, dove, in effetti, parte degli operai abbandona il lavoro.
Ci si procura le armi
Secondo la cronaca di «Stato operaio» - sull' episodio le fonti governative tacciono.
Nella stessa mattinata del 24 un intero reparto di alpini, ricevuto l'ordine di sparare, consegnò i fucili agli operai, e questo parve il segnale che si poteva allargare la rivolta. La folla comprese che occorreva, prima di tutto, armarsi in massa. Perciò l'assalto ai negozi fu diretto verso nuovi negozi di armi.
Un negozio di armi in piazza dello Statuto fu assaltato e vuotato di tutte le armi che conteneva.
Contemporaneamente, si combatte sulle barricate di corso Ponte Mosca e il locale Commissariato di P.S. è preso d'assalto dai rivoltosi. Si giunge qui, alla fase culminante della rivolta. Rotto lo schieramento della forza pubblica una gran massa di insorti, per Porta Palazzo e via Milano, si avvia verso il centro cittadino.
L'attacco, - narra il cronista di «Stato operaio», - procede vittorioso fin quasi al centro. Se si arriva in piazza Castello dove è la Prefettura, in via Roma, dov'è la Questura, in via Cernaia dove sono le caserme, la città è presa e la rivolta - che non ha avuto né capi né direzione - ha vinto. La folla sente che può vincere e lotta con furore, con eroismo: semina le strade di morti e di feriti. Ma la riscossa della forza pubblica è terribile. Entrano in campo le auto mobili blindate e si scagliano a corsa folle per le vie gremite, scaricando le mitragliatrici all'impazzata, sulla gente che fugge, su coloro che resistono, nelle finestre delle case, nelle porte e nei negozi alla cieca.
I morti non si contano e l'attacco dei rivoltosi è respinto ancora una volta. In questo momento la folla si spezzetta nel dedalo delle vie che stanno tra il centro e corso Regina Margherita e lungo questo corso. Cento combattimenti individuali e di piccoli gruppi hanno luogo e gli operai e le donne operaie dimostrano cento volte il loro coraggio, il loro eroismo.
Dopo la bufera
Lo stesso Antonio Gramsci scriverà qualche anno appresso:
« .. Gli operai, i quali erano armati dieci volte peggio dei loro avversari, furono battuti. Invano avevano sperato nell'appoggio dei soldati: i soldati si lasciarono trarre in inganno che la rivolta fosse stata provocata dai tedeschi».
La «fraternizzazione si è quindi ridotta a qualche caso provato di disarmo, più o meno volontario, dei soldati. Nel pomeriggio del 25 agosto, ancora a San Paolo, due soldati di scorta ad un carro viveri vengono disarmati, e in Barriera di Milano, lo stesso accade a un caporale e tre soldati. Ma sono gli ultimi bagliori dell'incendio ora quasi spento. Nel pomeriggio di sabato, - citiamo dal cronista del «Grido», - risultò evidente l'impossibilità di continuare il movimento e la convenienza di invitare alla ripresa del lavoro. Il Comitato sorto per l'occasione che aveva il venerdì diramato l'invito di continuare nello sciopero pure astenendosi da inutili violenze, decideva di diffondere il seguente manifestino che trascriviamo per la documentazione:
«Sezione di Torino del Partito Socialista. Camera del Lavoro. Lavoratori torinesi! L'insipienza del Governo Centrale, l'ignavia dell'Amministrazione cittadina e le provocazioni indicibili del potere politico locale vi hanno fatto scattare in un movimento di sciopero generale meraviglioso, forte, ammonitore ed esemplare. Scoppiato per la mancanza di pane, esso si è subito tramutato in una decisa manifestazione contro la guerra che tanti lutti ha seminato e tanto sdegno ha suscitato in ogni animo in tutti i paesi. La forza brutale dello Stato borghese, la incoscienza da parte dei proletari vestiti in divisa, la dolorosa impreparazione della nostra organizzazione ad una azione risolutiva, ci costringono a consigliarvi di ritornare lunedì al lavoro. Non è consiglio di viltà quello che vi diamo, ma di saggezza e di forza. Noi intendiamo che non solo questo grandioso movimento proletario torinese sia avvertimento serio e definitivo al Governo monarchico borghese, perché cessi questa strage inutile e inumana, ma indichi anche a tutti i proletari d'Italia e dell'Internazionale il dovere di una più intensa e decisiva preparazione. Torniamo al lavoro, o compagni, ma con la coscienza di aver compiuto un atto coraggioso, degno e fecondo. È stato sparso sangue proletario ma non invano. Salutiamo le vittime con una promessa di prossima, preparata rivincita».
I processi
I processi saranno più d'uno (e non tutti verranno celebrati: quello per l'incendio della chiesa di San Bernardino verrà infatti «superato» dall'amnistia del 1919, ma uno sarà il processo centrale: quello che vedrà comparire dinanzi al tribunale militare di Torino, il 3 giugno 1918, dodici tra i maggiori dirigenti socialisti, e un anarchico, torinese, sotto la imputazione di «tradimento indiretto» (essendo caduta in istruttoria quella di tradimento, ed essendo stati prosciolti nell'aprile 1918 una ventina di coimputati, tra cui Ernesto Berra, Luigi Borghi, Tommaso Cavallo, Umberto Griseri, Enea Matta, Giuseppe Romita, Cristoforo Togliatto, Alessandro Uberti, Alfredo Vietti.
Tra il giugno e l'agosto del 1918 ebbe luogo, avanti al Tribunale Militare di Torino, un ulteriore processo che vide imputati dodici dirigenti socialisti e un anarchico. Dalle risultanze processuali emerse che la rivolta era stata spontanea e non era frutto di nessun complotto. Ciononostante, sei degli imputati (fra i quali il leader socialista Giacinto Serrati, che si era recato a Torino durante la sommossa rimanendovi però un giorno solo) furono ritenuti dal Tribunale "autori morali della sommossa" e perciò condannati a pene detentive varianti fra i tre e i sei anni.
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