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PAOLO CACCIARI. Comunità per la decrescita

LE MALETESTE

25 ott 2025

Il progetto politico della creazione di un sistema di comunità territoriali capaci di autogovernarsi e di relazionarsi tra loro alla pari può diventare la via più promettente ed efficace da percorrere - PAOLO CACCIARI

di Paolo Cacciari

22 Ottobre 2025


Dedicato a Ferruccio Nilia e al suo lavoro attorno al concetto di comunità


Tante, diverse

Cum/munis, designa una relazione di scambio donativo all’interno di un gruppo di persone (umane e non-solo-umane) fondata su mutualità e reciprocità. Presuppone perciò una esistenza communitarista (da communĭtas-atis), ovvero una communantiae (traducibile in comunanza o comunalità) nel godimento di beni comuni quali pascoli, boschi, acque, ma anche conoscenze, sistemi di valori, stili di vita. Il commoning, nelle teorie moderne dei commons1,è l’azione di messa in comune (comunizzazione) e presa in cura collettiva delle risorse naturali, umane, storiche, tecnologiche disponibili in un determinato ambito e in uno spazio geografico, in un luogo agito e abitato da un soggetto collettivo. «Ambiti di comunità», per dirla con Gustavo Esteva: «forme diverse di esistenza sociale che vanno al di là dello spazio privato, ma non sono spazi pubblici [statali]» (Esteva, 2014, p.24).

La casistica e le genealogie delle comunità possono essere molto varie, così come la loro veste giuridica e il loro manto istituzionale. Ve ne sono di legate ad un “sentire comune” tradizionale, consuetudinario, informale, spontaneo… In una parola diremmo: “organico”, cioè trans-storico, primario, ancestrale, sostanzialista – con tutte le sfumature dei casi specifici. Altre forme di comunità si sono costruite esplicitamente in funzione del perseguimento di determinati obiettivi e interessi comuni: ottenere maggiore sicurezza all’esterno e all’interno dei propri ambiti, distribuire i compiti tra i propri membri in modo da ottimizzare la sussistenza e la riproduzione, realizzare infrastrutture d’uso comune, conservare i patrimoni comuni, distribuire la ricchezza, dotarsi di norme e istituzioni di controllo e regolazione, preservare le credenze, i miti comuni, ecc., ecc. Potremmo definirle “comunità razionali” o associazioni di scopo: eserciti e chiese, aziende e sindacati professionali, stati e condomini…

Vi sono poi comunità che si generano in continuazione ex novo, intenzionalmente, per autopoiesi, per affermare un proprio progetto di vita sociale. Penso a quelle comunità di iniziativa create dagli abitanti di una città che si appropriano e abitano un bene da adibire ad usi civici; a quelle di immigrati che rivitalizzano un borgo o un quartiere degradato; ai “regolieri” autoctoni delle valli di montagna che fanno rinascere gli antichi “demani collettivi”; ai dipendenti di una fabbrica che decidono di autogestirla; alle donne che si proteggono creando una casa di accoglienza, alle comunità energetiche da fonti rinnovabili e a quelle di sostegno all’agricoltura, alle “comunità del cibo”, alle cooperative e alle istituzioni di comunità, ai distretti di economia solidale e a molte altre ancora2. Chiamiamole comunità politiche creative, “di lotta”, istituenti, che a partire dai luoghi di vita pensano di trasformare la società nel senso di rafforzare le relazioni dirette, solidali tra le persone e tra esse e il contesto socio-ambientale in cui operano.

La galassia delle pratiche virtuose di resistenza e sottrazione alla mercificazione di ogni ambito della vita produttiva e riproduttiva è davvero molto estesa, seppur frammentata, difficile da mettere a fuoco e praticamente impossibile da incasellare in categorie statiche. Al fondo, comunque, vi sono delle caratteristiche comuni ad ogni tipo di comunità che ne denotano il diverso tipo di soggettività.


Fare/essere comunità

Per riuscire a fare comunità e viverla c’è bisogno di una particolare predisposizione personale, se non anche di empatia e benevolenza, quantomeno una disponibilità al riconoscimento dei propri simili e alla connessione con l’altro da sé. Infatti, il presupposto comunitario – la «voglia di comunità» (Zygmunt Bauman, 2001), se non persino il «bisogno di radicamento» (vedi lo scritto di Simon Weil nella rubrica La saggezza della decrescita, in questi Quaderni) – sembra essere connaturato all’ontologia della specie umana considerata come insieme di individui socievoli, dotati di affettività e moralità, di senso di giustizia e di altruismo. Da questa angolatura – quella della antropologia positiva – potremmo persino affermare – in barba al darwinismo sociale3 – che è la generosità l’energia rinnovabile che muove l’universo umano (e non solo questo), così come l’energia cosmica muove l’universo fisico. Filosoficamente, il concetto di comunità pone il complesso tema del rapporto tra identità e differenza, tra singolarità e pluralità, tra individualità e rete delle dipendenze a cui appartiene.

Un ricco filone di studi a cavallo tra la psicologia di comunità e la psicologia ambientale (ad esempio: Riemer, Reich 2011) studia il ruolo delle comunità nelle politiche di contrasto ai cambiamenti climatici. Ciò deriva dall’importanza della dimensione sociale per la vita psichica delle persone, sia in termini di percezione e di valutazione degli eventi sia per l’orientamento dei comportamenti nella vita quotidiana. Noi tendiamo infatti a considerare gli altri, specie quando ad essi siamo legati da vincoli comunitari, come affidabili partner di conoscenza, con i quali ci confrontiamo costantemente per avere conferme delle nostre opinioni e per elaborare collettivamente una visione del mondo nella quale possiamo riconoscerci. Soprattutto nelle situazioni difficili o pericolose, il conforto dello sguardo dell’altro ci è di grande aiuto, e l’azione collettiva si conferma uno dei modi più efficaci per avviare e consolidare comportamenti nuovi. In particolare, la condizione comunitaria è in grado di attivare con forza la dimensione dell’identità sociale, un’importante dinamica psicologica che può avere un ruolo decisivo per il cambiamento nelle idee e nei comportamenti. Specie quando si tratti di contrastare un modo di vedere l’economia e la società che si è radicato profondamente nei vissuti e nelle aspettative degli individui, può essere molto utile il fatto di percepirsi parte di un gruppo significativo di persone che condividono una visione alternativa e che si impegnano concretamente per finalità collettive, sature anche di valenze etiche.

Per far nascere un senso di comunità in contrapposizione all’individualismo proprietario e competitivo, oltre al buon cuore e alla disponibilità a riconoscere le alterità e a riconoscersi “esseri-in-comune” (Nancy, 1992), parti di una rete di relazioni umane e più-che-umane, serve anche una capacità di iniziativa individuale e collettiva. Buona volontà e fatica relazionale, attività politica, come quella che mosse i contadini servi della gleba che si ribellarono alla schiavitù del feudo e quella dei frati che dettero vita ai monasteri per sottrarsi alle prepotenze dei principi vassalli. Così come quella dei pirati che si appropriarono di isole “libere” atlantiche per farci le proprie basi logistiche e sperimentare le prime forme di democrazia diretta. Poco conta se non sempre gli esiti finali non si rivelarono coerenti con i desideri iniziali. Il bello della storia è la sua imprevedibilità. Avvicinandoci ai nostri tempi industrializzati pensiamo alla forza visionaria dei socialisti che fondarono i falansteri ottocenteschi, dei contadini dei villaggi indiani gandhiani, degli ebrei dei primi kibbutz semi autarchici e di innumerevoli altri tentativi di instaurare sistemi di autodeterminazione e autogoverno locale. Fino ad arrivare alle Giunte del buon governo in Chiapas e alle Comuni del Rojava (nella parte monografica il lettore troverà degli approfondimenti).


Aperte o chiuse

Si può dire che il mondo reale, al fondo, sia ancora fatto di comunità. «La comunità è il luogo stesso della nostra esistenza» – scrive Annamaria Vitale, in Enigma della comunità, in questo stesso fascicolo (a PAG.XXX). Pure se stressate dall’incedere delle varie ondate della mondializzazione capitalista, appena si gratta sotto le mappe geopolitiche, si scoprono in filigrana persistenze interessanti e potenziali soggettività trasformative. Lo straordinario lavoro di Massimo Angelini, che riportiamo in questi Quaderni (Angelini, 2023), ci mostra una mappa d’Italia a patchwork, festosa, composta di tante “màtrie” i cui confini porosi intrecciano più dimensioni territoriali e culturali.

Certo è che piccole e grandi esperienze di resistenza sono state spazzate via dal rullo compressore dell’economia di mercato globalista e dall’ideologia opposta a quella comunitarista: l’individualismo proprietario. Anch’esso, però, paradossalmente, attinge la propria legittimità ad una certa idea (falsata) comunità; una comunità di individui che non mettono nulla in comune e che non hanno nulla in comune se non l’interesse di difendere la loro individualità egoistica.

Disgraziatamente, infatti, ci sono altri possibili riferimenti etimologici che cambiano la semantica della parola comunità: cum-moenia, che fa riferimento a mura e a recinti, e cummunia, doveri, vincoli e obblighi. La questione, quindi, si complica e fa della comunità una parola ameba (come ebbe a dire Illich a proposito della parola “vita”). Nel senso comune contemporaneo, infatti, e nelle proposte politiche dei movimenti che vanno per la maggiore, non sembra esserci più posto per un’idea di comunità solidale e inclusiva. Prevalgono le identità escludenti, disciplinanti. Una comunità può crearsi anche da bisogni egoistici di individui “estraniati” dai contesti naturali e umani della vita – direbbe Marx. Nell’“ecosistema biocapitalista” le istituzioni del capitale (l’impresa, il mercato e i relativi apparati statali) hanno bisogno di creare a loro sostegno aggregati di individui atomizzati accomunati da idealità astratte e da interessi corporativi. Per questa ragione il sistema dominante è molto impegnato nell’iniettare nella società forti dosi di ideologia identitaria, suprematista, patriottica, maschilista, classista, razzista.

In definitiva, l’ampiezza del significato comunemente attribuito al termine comunità – una fragile costellazione semantica che incarna concetti diversi, persino opposti – è alla base della sua potenza retorica; capace di evocare sia ambienti familiari caldi e psicologicamente rassicuranti, confort zone di prossimità, sia stirpi primitive armate pronte ad immolarsi in battaglie esistenziali. La comunità è fatta di materia rovente, poiché gli immaginari di comunità possono suscitare passioni molto potenti e dare corpo a normative (jus cordis) contrastanti. Insomma, la nozione di comunità contiene notevoli ambiguità di senso e deve quindi essere usata con modi garbati e intenti sinceri. Serve buona fede nell’uso delle parole per riuscire ad usare un vocabolario comune.

L’ordine comunitario è performante, finisce per assegnare alle persone che ne fanno parte un’identità sociale, compiti, mansioni e ruoli gerarchici specifici, personalmente impegnativi, spesso totalizzanti. È un’arma di integrazione e coesione degli individui nell’ordine sociale. Per tale motivo l’idea di comunità costituisce inevitabilmente uno dei principali campi di battaglia della politica.

A ben vedere si tratta di una questione sempre presente nel definirsi delle relazioni umane, profondamente radicata nelle tradizioni culturali, nei miti delle origini, nelle suggestioni religiose e nelle utopie politiche anche nella razionalissima modernità occidentale. Al fondo, il pensiero politico e le relative sociologie di ogni tempo, si sono sempre dovuti confrontare con l’idea di comunità nel tratteggiare quale dovrebbe essere la “buona società”. O, se si preferisce invertire l’ordine dei fattori, la politica ha dovuto plasmare l’idea di comunità per ottenere una base sociale su cui fondare il consenso e legittimare le sue istituzioni. È l’adesione ad una comunità che conduce degli individui – uguali alla nascita e autonomi in potenza – ad accettare ordinamenti, ruoli e funzioni sociali predefiniti: liberi o servi, pater famiglia o mogli, bianchi o razzializzati, possidenti o proletari, nativi o immigrati, sudditi o cittadini4.

Gli esiti li abbiamo sotto gli occhi, e non sono molto soddisfacenti.

Per diventare “atto sociale”, per essere civitas, ovvero un sistema di regolazione dei comportamenti individuali, la comunità ha bisogno di creare e condividere proprie istituzioni e stabilire norme cogenti. Pensiamo all’ordine patriarcale, al suo gigantesco potere ordinamentale trasversale, simbolico e fattuale5. Pensiamo all’invenzione dello stato-nazione che ha accompagnato la rivoluzione industriale assecondandone le esigenze: accumulazione indefessa di capitali, sfruttamento senza impedimenti di una popolazione in rapido aumento ed estrazione di risorse naturali senza limiti6.

Lo stato nazionale ha declinato l’idea di comunità in identità patriottica aprendo la strada alle tragedie del Novecento. Ma nemmeno due guerre mondiali sono servite ad elaborare genocidi ed ecocidi perpetrati in nome della superiorità di un popolo e delle loro nazioni. Tutt’altro! La logica identitaria crea contrapposizioni e ostilità e ci ha portato dentro un nuovo abisso: il genocidio di Gaza, le 56 guerre in corso (mai così tante dalla fine della Seconda guerra mondiale), il ReArm europeo, la sfida alla Cina.


Dalla globalizzazione al protezionismo

Non sappiamo se la policrisi (“polycrise”) (Morin, 1993), multifattoriale e multidimensionale, che attraversa la nostra civiltà avrà conseguenze ancora più catastrofiche di quelle che miliardi di persone stanno già subendo. Temiamo di sì. Ciò che è certo è che il ciclo neoliberale del capitalismo (iniziato mezzo secolo fa) ha accelerato in modo spettacolare i processi di degrado delle condizioni di abitabilità del pianeta (la crisi climatica ne è il termometro e la riduzione dello spazio vitale per le specie viventi, umanità compresa, né è l’esito) e acuito gli squilibri sociali (le migrazioni sono il sintomo dell’inceppamento del meccanismo della crescita e del progresso). Insostenibilità ecologica e insopportabilità morale procedono di pari passo. Le timide, contraddittorie politiche di regolazione internazionale si sono rivelate fallimentari. Immense concentrazioni di ricchezze monopoliste e il saccheggio delle risorse naturali (estrattivismo e predazione neocoloniale; ecocidio e epistemicidio come forma di cancellazione dell’identità e delle culture delle popolazioni marginalizzate, vedi Mario Pansera a pag XXXin questo fascicolo) precipitano il progetto di mondializzazione occidentale in un regime oligarchico neofeudale alimentato dalle rendite finanziarie, minerarie e fondiarie. L’ordine politico democratico liberale non è più in grado di intervenire sui processi di formazione e di distribuzione del valore, garantiti ora solo dall’uso delle forze militari dispiegate sul terreno. Siamo passati dal welfare al warfare7. Dalle democrazie alle postdemocrazie autoritarie. Nemmeno la fede tecno-ottimista ci viene in aiuto. Le “nuove tecnologie” si sono rivelate una turbina che fa girare il sistema economico prosciugando il Sud globale, impoverendo i ceti medi dell’ex Primo mondo e arricchendo sfacciatamente una ristretta élite tecnocratica di super ricchi e il loro giro di lacchè guerrafondai annidati nei grandi network e nelle aule parlamentari.

Certo è che la declamata globalizzazione liberista che, deregolando il libero scambio di merci e capitali avrebbe allargato la torta del valore della ricchezza sociale complessiva, ha fallito8. La marea è cresciuta, ma non tutte le barche nel porto non si sono alzate, molte sono andate a fondo. Se ora, in tempo di risacca, la deglobalizzazione appare una inevitabile necessità (re-shoring, downsizing) , le soluzioni che si prospettano sono peggiori del male. L’establishment spera nella ripresa dei margini di profittabilità delle imprese attraverso politiche protezionistiche, scaricando sui soliti “paesi terzi”, attraverso i dazi, i trucchi della finanza e delle valute, i costi per sussidiare nuovi posti di lavoro nell’ex Primo mondo.

Fallita la globalizzazione economica e il cosmopolitismo elitario del tardo capitalismo9, il delirio di potenza degli stati neocoloniali e imperiali (Make America Great Again, American First, Prima gli italiani, Prima i venetiprima i miei amici) passa attraverso la somministrazione di grosse dosi di narrazioni nativiste e la ricreazione di un’ideologia etno-nazionalista, xenofoba, populista, revanscista, suprematista e sovranista. Una ideologia pericolosa molto contagiosa, facile da attecchire in ogni “piccola patria”, in ogni contea, città… condominio10. L’esito del referendum dello scorso 8 e 9 giugno in Italia sul quesito sulla cittadinanza è inquietante. Una parte di coloro che pure sono andati a votare (solo il 30% degli aventi diritto, la parte probabilmente più politicizzata e orientata a sinistra) hanno differenziato il loro voto marcando una ostilità verso l’allargamento dell’inclusione dei cittadini stranieri che risiedono legalmente. “Non sono razzista, ma…” gli stranieri è meglio che stiano lontani!

La questione che si pone ora, urgentemente, è immaginare una fuoriuscita dalla crisi del progetto della globalizzazione neoliberale proponendo un’idea di decentralizzazione e riterritorializzazione del sistema economico senza cadere dalla padella alla brace dell’identarismo neonazionalista e del riarmo degli stati nazionali organizzati nei loro sistemi di alleanze intrecciati e mobili.

Avvicinare i luoghi della produzione a quelli del consumo, accorciare le filiere produttive dei beni lungo cui viene stabilito il loro valore commerciale, rendere tracciabile l’intero processo e sottoporlo ad un controllo sia sul piano sociale che ecologico, tutto ciò dovrebbe diventare un imperativo democratico per chiunque. La sfida della responsabilità sociale e ambientale delle imprese (i famosi indicatori ESG, Environmental, Social and Governance) andrebbe presa sul serio e andrebbe preteso il suo rispetto. Bisognerebbe chiedere conto degli Obiettivi dello sviluppo sostenibile lanciati dall’Onu dieci anni fa e interrogarsi sulle ragioni del loro pressoché totale fallimento. Anche la sfida lanciata dai BRICS+ con il loro manifesto “multipolare” dovrebbe essere presa sul serio, verificata sul campo a partire da cosa sta accadendo nel continente africano.

Dal canto nostro, dei movimenti per la giustizia sociale ed ambientale, dovremmo tornare ad osare una proposta radicale di “nuovo ordine mondiale” disarmato, privo di polarità, senza egemonie, senza sistemi di comando gerarchici. Un’idea di economia al di là del dispotismo del mercato, oltre l’imperativo della crescita dei tassi di profitto e dei rendimenti dei capitali. Un’economia postcapitalista e un ordinamento sociale oltre la dominazione degli stati.

Un quarto di secolo fa a Seattle, poi a Porto Alegre e a Genova, i movimenti sociali avevano visto giusto e lungo. Teamsters (lavoratori sindacalizzati) e Turlies (attivisti ambientalisti) si erano uniti contro le istituzioni finanziarie internazionali, contro il debito usato per schiacciare e asservire i poveri del Sud globale, contro la delocalizzazione degli impianti industriali nocivi e l’esternalizzazione dei danni ambientali, contro l’iniquità e la violenza del sistema di potere. Ma abbiamo dovuto constatare che non basta essere dalla parte del vero e del giusto per avere ragione. Né i panel degli scienziati, né le voci delle nuove generazioni, né i moniti di un papa venuto “dalla fine del mondo” sono bastati a modificare la traiettoria del business as usual. Oltre la verità scientifica e l’indignazione morale è necessario riuscire a proporre una visione del mondo alternativa, desiderabile, credibile, realizzabile.

Non a caso molte delle innovazioni più interessanti nel percorso di transizione ecologica e di critica al modello di sviluppo si stanno realizzando proprio in dimensioni comunitarie. Si pensi alle comunità energetiche dove, insieme alla finalità di contribuire alla decarbonizzazione, si diffonde una nuova consapevolezza circa l’importanza dell’energia e spesso anche una nuova sensibilità sociale. Oppure alle molte esperienze realizzate nel campo dell’economia solidale, che anch’esse mettono insieme obiettivi funzionali immediati (ad esempio cibo migliore e salvaguardia dell’ambiente) con finalità di tipo sociale e politico. In tutte queste situazioni, la possibilità di identificarsi con un collettivo a cui si attribuisce importanza anche dal punto di vista affettivo rappresenta per l’individuo una potente spinta motivazionale, molto efficace per favorire il cambiamento di atteggiamenti e comportamenti.


L’alternativa delle comunità trasformative

Da alcuni anni un gruppo di discussione attivato dalla Associazione per la decrescita sta lavorando per delineare un modello idealtipico di una società capace di autosostenersi, liberata dai mercati di esportazione, orientata alla sussistenza e all’autonomiai11.

L’idea fondamentale è che le comunità (commons, comunalità, comunanze, collettività) vengano riconosciute come le unità di base costituenti l’intera intelaiatura sociale (il “comune”, nel linguaggio di Hardt e Negri, 2010): culturale, economica, politica-istituzionale. Secondo Nick Deyer-Whiteforf, inventore del termine “commonism12, i commons dovrebbero essere considerati come «la molecola principale di una società al di là del capitalismo» (Esteva, 2013). Per il documento del gruppo di discussione della decrescita la reinvenzione delle comunità costituisce una proposta politica non solo “oltre il capitalismo” nella sua mera struttura economica, ma anche oltre l’intero progetto della Modernità occidentale, una particolare forma di civilizzazione che ha come obiettivo l’annientamento delle relazioni umane che legano tra loro gli individui. E, probabilmente, non basta ancora, poiché i presupposti su cui si fondano le strutture di potere della Modernità occidentale e del capitalismo si trovano ancora più in profondità nell’antropocentrismo patriarcale. Come dicono i movimenti femministi, andrebbero posti in discussione non 500, ma gli ultimi 5mila anni della storia umana.

La questione che si pone, quindi, è se le nuove nuove/antiche idee di comunità, comunalità, comunanze, commons, comuni (al femminile)… potrebbero costituire le coordinate della società del futuro, rimpiazzare le grandi narrazioni ideologiche del progresso e dello sviluppo e gli strumenti tecnologici introdotti dall’industrialismo che accelerano l’entropia. Vi sono molte tracce per sostenere questa ardita tesi. Molte esperienze comunitarie che sorgono in varie parti del mondo riescono a ritagliare per sé economie semi indipendenti, sociali e solidali, parallele e, nel limite del possibile, autonome rispetto ai circuiti del mercato. In esse è possibile scorgere i germogli di nuove istituzioni autodeterminate, oltre l’imperativo della crescita e l’opprimente burocrazia statale, audacemente post-capitaliste, post nazionaliste, post-coloniali e post patriarcali. Il pensiero va immediatamente a regimi fondiari indigeni dell’ejido spagnolo e messicano, ai villaggi contadini indiani, alle proprietà indivise africane, ma anche ai demani collettivi sopravvissuti all’avvento delle rivoluzioni proprietarie borghesi in Europa. Considerati relitti premoderni dalle culture progressiste e sviluppiste, scopriamo (non da oggi13) che lo stesso Karl Marx considerava le comunità di villaggio russe (obscina) gestite dal mir (assemblea tradizionale simile al consiglio degli anziani) una formazione con un carattere comunistico. Il lavoro di Kohei Saito14 ha aperto delle prospettive feconde per un incontro tra culture socialiste ed ecologiste nel loro punto più avanzato: il comunismo e la decrescita.

Ad una certa idea di comunità corrisponde una certa idea di buen vivir, ovvero una società liberata dalla dittatura della crescita del profitto e dell’accumulazione, capace di condividere in modo equo e sostenibile (giustizia ambientale e sociale) la vita sul pianeta (i beni e i servizi ecosistemici). Penso, quindi, che le comunità ancorate alla dimensione territoriale locale (bioregioni, villaggi, città di città, etc., etc.) siano «lo spazio geografico al di qua dei sistemi ufficiali di ordinamento» (Angelini, 2023), l’unica risposta politica (un autogoverno responsabile, eticamente fondato) alla catastrofe in atto (biocidio, ecocidio, genocidio…).


Niente delega

Ci si obietterà che si tratta di ingenue utopie. Peggio, pericolose nostalgie premoderne. Fughe dalla realtà e dall’impegno politico e sociale necessario qui ed ora. Ci si dirà che in tempo di catastrofi ambientali e di guerra, in un momento in cui le cancellerie degli stati sono impegnate a stampare titoli di credito per produrre armi, a richiamare riservisti, ad esercitare le popolazioni al combattimento fin nelle scuole e a creare il panico tramite giornali e social contro l’invasione degli immigrati, dei russi, dei cinesi… la priorità dovrebbe essere fermare la macchina militare. E basta. È certamente vero che di fronte alle devastazioni in atto servirebbe un pensiero e una politica mondiale comune e processi decisionali rapidi e universali. Servirebbero istituzioni sovranazionali autorevoli e forti in grado di imporre quantomeno il rispetto dei trattati esistenti contro la proliferazione delle armi nucleari e batteriologiche, l’attuazione dei protocolli contro il cambiamento climatico, il rispetto delle convenzioni sui diritti umani, la conservazione della biodiversità, degli oceani, i protocolli sulla prevenzione dalle pandemie e molti altri accordi transnazionali che pure sono stati sottoscritti. Ma appellarsi alle organizzazioni mondiali senza chiedersi perché lo stesso Onu sia sotto schiaffo, umiliato e sfiduciato dagli stati che lo hanno creato, è la peggiore delle illusioni; la delusione è sicura. La questione della pace, come quella ecologica, come quella della giustizia sociale non saranno mai affrontate se la loro soluzione continuerà ad essere delegata ad organismi transnazionali interstatali. Si tratta di una vera e propria trappola di remissione di responsabilità in cui cadono gli stessi movimenti pacifisti ed ambientalisti quando fanno affidamento sull’ascolto dei “Capi di Stato e di Governo”, come se avessero una sensibilità etica. Gli unici strumenti che conoscono con cui esercitano il loro potere sono il denaro e le armi; accesso alle risorse e sfruttamento del lavoro; supremazia e deterrenza. Ha esclamato una volta Greta Thunberg: «Invece di affidarci alla speranza, cerchiamo l’azione. Allora, e solo allora, la speranza arriverà».

Se le cose stanno così, se non vi sono scorciatoie attraverso cui raggiungere il cambiamento e realizzare una società di vite liberate da ogni forma di dominio di nascita, di classe, di genere, di specie allora il progetto politico della creazione di un sistema di comunità territoriali capaci di autogovernarsi e di relazionarsi tra loro alla pari può diventare la via più promettente ed efficace da percorrere.

Nel rapporto tra locale e globale, tra “stock e flussi” (come direbbe Aldo Bonomi, 2024) la dimensione locale dovrebbe prevalere come un vincolo insuperabile. Potrebbe costituire quel rivoluzionario “freno d’emergenza” auspicato da Walter Benjamin necessario a bloccare la folle corsa del treno della crescita. Le mille resistenze locali all’uso privatistico dei beni comuni potrebbero costituire tanti piccoli inciampi potenzialmente capaci di far deragliare il treno della morte. Solo demercificando l’uso dei beni della terra si potrà restituire valore alla vita. Nessuna forma di vita concreta, nessun luogo del pianeta, nessuna popolazione può essere sacrificata in nome di “interessi superiori” sovraordinati imposti in nome di un “progresso” che non è per tutti, imposto con la violenza delle armi e del denaro. Il sistema dei poteri va rovesciato e riportato al livello del suolo, luogo per luogo, ecosistema per ecosistema, comunità per comunità. Solo se si dà valore ad ogni singola forma di vita si capirà la follia della guerra così come di ogni altra forma di violenza sulla natura. Il progetto della modernità occidentale ha inteso la natura come risorsa e l’attività umana come mero strumento di produzione di oggetti. Non sappiamo se la traiettoria del progetto di civilizzazione occidentale sia sul punto del collasso e se questo trascinerà nel baratro l’intera umanità, come è già accaduto con due guerre mondiali. Sappiamo comunque che il nostro compito è quello di evitare tale eventualità, con ogni mezzo. Non tutti possono permettersi di attendere, nella loro torre d’avorio, l’esito della catastrofe per reagire.

Rimane aperto il quesito fondamentale sul piano politico: quali possono essere i soggetti collettivi interessati, gli enti sociali trasformativi capaci di far propria la proposta comunitarista, territorialista, municipalista, convivialista…? Diverse ipotesi sono state da tempo affacciate da pensatori come Murray Bookchin, Cornelius Castoriadis, Ivan Illich, Takis Fotopoulos, Gustavo Esteva, Alberto Magnaghi, Raul Zibechi e non molti altri. La ricerca di “un” nuovo soggetto storico trasversale, unificante, internazionale e universale – capace di rimpiazzare quello incarnato un tempo nel proletariato e nella classe dei lavoratori – ha riempito le teorie sociopolitiche contemporanee: Bruno Latour ipotizza una “classe ecologista”. Altri un “biotariato”. Occupy Wall Street il “99%”. Probabilmente sarà dal “Sud globale”, dai “naufraghi dello sviluppo” (Latouche, 2017) che dovranno venire le migliori indicazioni anche per noi.


(Ringrazio Bruno Mazzara per la revisione e i suggerimenti ricevuti)


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Note

1 Vedi: Peter Linebaugh, The Magna Carta Manifesto, University of California Press, 2008 e con Marcus Rediker, I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria, Feltrinelli, 2018; David Bollier, Creare nuove comunità in comune-info: https://comune-info.net/creare-nuove-comunita/ 27 settembre 2017 e con Silke Helfrich, The Wealth of the Commons. A World beyond Market & State, The Commons Strategies Group, 2012; Gustavo Esteva, Nuovi ambiti di comunità. Per una riflessione sui beni comuni, (titolo originario Commonism. Enclosing the Enclosers, 2014), Voci di Abya Yala, a cura del gruppo camminardomandando www.camminardomandando.wordpress.com; Ugo Mattei Ugo Mattei, Il benicomunismo e i suoi nemici, Torino, Einaudi, 2015; Giuseppe Micciarelli , I beni Comuni e la partecipazione democratica, https://www.academia.edu

2 Una nota personale. Questa passione per l’autogoverno e l’autogestione mi ha portato a girare in lungo e in largo l’Italia collezionando “buone pratiche”, divulgandole e organizzando anche viaggi di studio (vedi: 101 piccole rivoluzioni, Altreconomia, 2015). Ciò mi ha permesso di conoscere concretamente molte realtà locali e altre associazioni che hanno fatto di queste realtà il loro campo di studio e di intervento politico. Penso alla Società dei Territorialisti, fondata da Alberto Magnaghi, con l’Osservatorio su svariati casi studio: https://www.societadeiterritorialisti.it/2019/01/22/schede-gia-elaborate/ ). Penso agli studi antropologici di Massimo Angelini, Un’altra Italia, 2021. Penso alla rete sui beni comuni emergenti ad uso civico nata attorno alle esperienze di Napoli e di Mondeggi. Penso alla associazione che riunisce i demani collettivi (ex usi civici) e che fa capo al Centro studi di Trento. Penso alla Ries (Rete italiana dell’economia solidale). Ma penso anche a gruppi che operano nel campo dell’informazione come Comune, Italia che cambia, Salviamo il paesaggio, e altri che hanno buoni archivi.

3  La tesi del darwinismo come sostegno dell’individualismo competitivo non è vera, né rispetto agli scritti di Darwin né soprattutto nelle più moderne riflessioni; è una distorsione del pensiero di Darwin. Soprattutto gli sviluppi maturi dell’evoluzionismo hanno mostrato che il segreto della vita è proprio l’organizzazione in unità complesse che hanno in definitiva una logica comunitaria e di cura reciproca; valga per tutti il potente pensiero di Capra (Vita e natura. Una visione sistemica); si può vedere in proposito anche il quarto capitolo del bel libro di Giuseppe Barbiero Ecologia affettiva, intitolato “Tutti per uno, uno per tutti”; ciò in particolare esaltato nella specie umana, dove la cooperazione è la vera forza del successo adattivo.

4 Per una ottima ricostruzione del dibattito sulle funzioni performanti delle comunità nel capitalismo rimando al volume di Marianna Esposito, Oikonomia: una genealogia della comunità. Tönnies, Durkheim, Mauss. Mìmesis, 2011.

5 Penso sia significativo, per le esperienze straordinarie di autogoverno che stanno conducendo le popolazioni curde, richiamare diffusamente alcune loro basi teoriche elaborate da Abdullah Öcalan, in particolare per quanto riguarda il patriarcato. «Nel neolitico la società sembra fosse più matricentrica, attorno alla donna si era formato un ordine sociale comunitario, senza quelle gerarchie che poi lentamente vennero introdotte. L’uomo cacciatore e lo sciamano, il vecchio saggio, cominciarono a costruire il predominio maschile; sia la caccia che la difesa del clan erano attività basate sull’uccidere, avevano una valenza militare: qui comincia la cultura della guerra, tipicamente maschile. […]. Nell’elaborazione del Confederalismo Democratico, stato, famiglia, schiavismo, capitalismo, colonialismo, sono tutti concetti che derivano dal patriarcato. Nessuno può considerarsi veramente libero, se la donna non è libera. Liberare la vita è possibile “uccidendo” l’uomo dominante; liberare la vita non è possibile senza una radicale rivoluzione delle donne che cambi la mentalità e la vita dell’uomo». Sul Confederalismo democratico (ed. Tabor), Vedi le pubblicazioni di Academy of Democratic Modernity.

6 Rimaniamo nelle elaborazioni del Confederalismo democratico di Abdullah Öcalan: «Lo Stato-nazione, spina dorsale della modernità capitalista, è certamente la gabbia della società naturale. Esso addomestica la società in nome del capitalismo e allontana la comunità dai suoi fondamenti naturali, mirando a creare un’unica cultura nazionale, un’unica identità nazionale e una cittadinanza omogenea. La cittadinanza della modernità non è altro che la transizione dalla schiavitù privata a quella statale. (…) Il Nazionalismo è la sua religione, la sua vera missione è il servizio allo Stato-nazione virtualmente divino e alla sua visione ideologica che pervade tutte le aree della società. Arti, scienze e consapevolezza sociale: nessuna di loro è indipendente». Per approfondimenti vedi: Rete Kurdistan Italia https://www.retekurdistan.it/ e UIKI – Ufficio Informazioni Kurdistan in Italia http://uikionlus.org/

7 Come scrivemmo un anno fa: https://quadernidelladecrescita.it/2024/05/06/che-fine-ha-fatto-leuropean-green-deal-dai-prati-verdi-al-riarmo/

8 Benoit Bréville, Un altro protezionismo è ancora possibile. Le Monde Diplomatique, maggio 2015. L’autore ricorda la stagione degli accordi multilaterali e regionali di libero scambio inaugurata con il NAFTA nel 1994 (per il Nordamerica). In tutto sono in vigore 373 accordi.

9 Rana Foroohar, La globalizzazione è finita, Fazi, 2025.

10 Ash Amin, After Nativism. Belonging in an Age of Intolerance , Polity Press, 2023. 

11 Una prima stesura del documento fu presentata alla conferenza di Venezia 2022 e pubblicata dai Quaderni: https://quadernidelladecrescita.it/2024/01/01/comunita-e-decrescita/

12 Sul significato di commonism vedi: https://blog.p2pfoundation.net/the-concept-of-commonism-as-introduced-by-nick-dyer-witheford/2013/08/18. Nick Deyer-Whiteforf ha partecipato ad un confronto su marxismo e decrescita promosso dai Quaderni: https://quadernidelladecrescita.it/2024/08/26/comunismo-della-decrescita/

13 Mario Cenedese, Karl Marx: ripensamenti. Il modo di produzione asiatico e la lettera a Vera Zasulič, in: La decrescita tra passato e futuro, a cura di P. Cacciari e e A. Castagnola, Marotta & Cafiero, 2018.. 

14 Vedi la monografia su Marx e la decrescita nei Quaderni n. 3: https://quadernidelladecrescita.it/numero-3/



Fonte: COMUNE (https://comune-info.net/comunita-per-la-decrescita/)



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