top of page
Immagine del redattoreLE MALETESTE

ITALIA CARCERI. Mi chiamo Maysoon Majidi e sono innocente

Aggiornamento: 19 set 2024



Mi chiamo Maysoon Majidi


Lettera dal carcere. L’attivista curdo-iraniana accusata di essere una scafista racconta il suo viaggio verso l’Italia: dalle persecuzioni del regime all’arresto


di Maysoon Majidi

5 settembre 2024


Mi chiamo Maysoon Majidi, sono nata il 29 luglio del 1996. Questa è la mia voce! Sono laureata in teatro e ho un diploma magistrale, sono attivista politica e membra dell’organizzazione dei diritti umani «Hana», partecipo al coordinamento dei Curdi in diaspora, sono attivista dei diritti delle donne e delle nazioni sottomesse. Quanto ai diritti dei rifugiati, ho sempre partecipato alle varie attività come organizzare le manifestazioni dell’Onu in Erbil (Iraq) dopo la morte di Behzad Mahmoudi, rifugiato politico. Ho svolto tante altre attività. Ho partecipato alle lotte del popolo curdo per sette anni.Sia io che mio fratello abbiamo ricevuto molti messaggi di minacce da parte del regime iraniano, così abbiamo dovuto lasciare l’Iraq.


NEL 2019 sono dovuta scappare dell’Iran con mio fratello e in Kurdistan irakeno ho lavorato in televisione. Negli ultimi due anni ho lavorato come reporter e giornalista indipendente. Nel corso della rivoluzione per «Jina-Mahsa Amini» ho organizzato la prima performance davanti alla sede delle Nazioni unite in Erbil e ho costruito il canale «Ack news» per pubblicare notizie in tempo reale. Sia io che mio fratello abbiamo ricevuto messaggi di minacce da parte del regime iraniano, così abbiamo dovuto lasciare l’Iraq, perché l’Onu ha evitato ogni appoggio, aiuto, protezione. Nell’agosto 2023, insieme ad altri attivisti, abbiamo pagato cinquemila euro per entrare in Turchia come rifugiati. Abbiamo dovuto camminare in mezzo alle montagne. In Turchia siamo rimasti a casa di una signora anziana per due giorni, poi siamo andati a Van e dopo cinque giorni abbiamo ricevuto i passaporti falsi. Da lì siamo andati a Istanbul con vari mezzi e macchine (essendo trascorso un anno, non ricordo tutti i dettagli). A Istanbul eravamo in 15 e siamo stati truffati (…). Ci hanno derubato dei soldi che avevamo pagato per venire in Italia, ci minacciavano, ci facevano violenze e dispetti continuamente.


Il poliziotto e il mediatore mi hanno chiesto chi guidasse la barca. Ho risposto: «Non lo so». Poi sono venuti ad arrestarmi. Non riesco ancora a capire il perché

SIAMO STATI abbandonati in Turchia per cinque mesi (da agosto a dicembre). In questo periodo chiedevamo l’aiuto economico dalla famiglia e dai parenti (…). Io e mio fratello abbiamo dovuto aspettare fino a dicembre per avere i soldi per venire in Italia (quasi 50mila euro). La mia famiglia ha dovuto vendere la macchina e la casa per recuperare questi soldi. Il 25 dicembre siamo andati all’hotel Aksara di Istanbul per partire verso l’Italia il giorno successivo. C’erano tanti altri passeggeri. (…) Finalmente il 26 dicembre, alle 18, insieme ad altre 30 o 40 persone, siamo stati trasferiti al porto di Izmir. Il 27 dicembre, insieme ai passeggeri di un altro camion, siamo arrivati in spiaggia, camminando in mezzo alle montagne per ore. Alle 12, dopo essere stati controllati e aver lasciato a loro i nostri cellulari, portando con noi uno zaino solo, divisi in piccoli gruppi, siamo stati trasferiti su una barca con i vaporetti. Ognuno di noi aveva solo uno zaino nero con le cose strettamente necessarie. La barca aveva tre camere piccole e un salone. Le donne e i bambini erano in una stanza e una cabina era per la famiglia (…). Gli uomini, la maggior parte dei quali erano afgani, stavano nel salone. C’erano tre bagni, uno per noi che si è rotto il primo giorno ed era fuori uso; (…) Nell’urgenza di andare in bagno dovevamo usare i sacchetti di plastica e poi buttarli fuori. A causa della situazione terribile, si vomitava spesso. Il motore della barca si rompeva continuamente (…). Si è rotta anche la pompa e l’acqua entrava in barca; i ragazzi dovevano svuotarla con i cestini che scaricavano fuori.


IL MIO CORPO diventava sempre più debole per ilo mal di mare. Mi girava la testa. Mi sono accorta che mi sono venute le mestruazioni. Sono andata in bagno per controllare. Era vero, ma non riuscivo a trovare lo zaino per prendere l’assorbente. Sono tornata su per cercarlo e ho visto che si era seduto un uomo al posto mio. Ho provato di tutto e persino litigato, ma non si è spostato. Avevo la nausea e non riuscivo a respirare. Una donna, che è stata sopra tutto il tempo, maltrattava tutti, ha cominciato a sgridarmi. Io ho reagito a parole. Piano piano tutti hanno cominciato a urlare. Un uomo ha cercato di calmarmi e mi ha chiesto di sedermi su un pezzo di legno in fondo alla barca e ha detto che anche gli altri passeggeri potevano salire al piano superiore per respirare. (…) Il 30 dicembre sono rimasta nell’ultima stanza vicino alle donne e ai bambini. L’odore del bagno era così forte che si sentiva dal piano di sopra. Il 31 dicembre ci hanno detto che eravamo nel mare libero e non c’era più il rischio di essere visti dai poliziotti, quindi si poteva andare su senza problemi. (…)


TUTTI SI LASCIAVANO il vero nome e i contatti di Instagram. Era finito il viaggio e si vedeva la costa italiana. Nella mattinata nebbiosa di dicembre hanno calato la barchetta gonfiabile in acqua. Tutti felici hanno cominciato a filmare e mandare i messaggi per far sapere che erano in salvo. Pure io, seduta sul legno, ho mandato un messaggio e i selfie con mio fratello alla famiglia. A causa del freddo, la lingua tremava e ho dovuto ripetere il mio messaggio vocale più volte. (…) Cinque minuti dopo aver mandato il video, hanno detto che cinque persone dovevano scendere come siamo saliti all’inizio! Siamo stati nominati io e mio fratello (…).


PENSAVO CHE tutto fosse andato bene, ho cominciato a fare le foto ai funghi cresciuti per terra, agli alberi, alla natura e poi ci siamo fatti alcuni selfie. A causa del mio sanguinamento da mestruazione, un uomo curdo mi portava lo zaino. Non c’eravamo ancora allontanati, quando ho sentito un rumore da dietro! Ho visto un’ombra dietro agli alberi! Appena ho chiamato gli altri, sono usciti i poliziotti, mi sono spaventata vedendoli, perché pensavo che ci picchiassero (come i poliziotti bulgari) e per quello ho subito detto che eravamo rifugiati: «Aiutateci!» Sono diventati tanti. Prima ci hanno chiesto di mostrare cosa portassimo nei nostri zaini e poi ci hanno perquisito. Uno di loro mi ha aperto l’hotspot dal suo cellulare per accedere a internet e così sono riuscita a cercare il mio nome online e fargli vedere alcune foto delle mie attività. Poi sono riuscita a comunicare con loro tramite traduttore digitale. Ho spiegato che siamo attivisti politici, e che la persina con me è mio fratello: «Siamo iraniani e non vorremmo restare in Italia. Siamo diretti in Germania». Lui mi ha scritto col traduttore digitale che dovevo stare calma. E che loro ci avrebbero trasferito in un campo solo per farci riposare e aiutarci. Poi ci avrebbero lasciati liberi di andar via. Li ho ringraziati.


Dopo ci hanno trasferiti in un parcheggio scoperto. Ci siamo aggregati agli altri passeggeri che erano arrivati prima di noi. Abbiamo fatto la coda per farci fotografare e per la registrazione dei nostri dati sensibili. Hanno distribuito acqua e biscotti. Mi sono seduta in un angolo con mio fratello. Il poliziotto e il mediatore mi hanno chiesto chi guidasse la barca. Ho risposto: «Non lo so». (…) Il mediatore ha ripetuto la domanda: «Chi comandava sulla barca?» (…) Ho risposto: «Non so». Sono andati via. Poco dopo, ci hanno chiesto di salire su un bus bianco. (…) Avevo i piedi gonfi e le scarpe sporche e bagnate. Le ho tolte e lavate. Poi sono andata fuori a sedermi. (…) A quel punto sono venuti ad arrestarmi. Non riesco ancora a capire il perché.


***La traduzione è a cura di Unione Donne Italiane e Kurde,

Marjam Mohammadi, Snour Marziyeh Nishat]


 

Mia figlia Maysoon Majidi, artista e attivista. Accuse assurde contro di lei


La lettera. Ecco chi è mia figlia. Imprigionata con accuse assurde


13 settembre 2024


Mia figlia Maysoon Majidi, attivista per i diritti umani e per i diritti delle donne in particolare, si trova dall’inizio dell’anno reclusa in un carcere italiano sulla base di accuse inconsistenti, dopo essere sbarcata in Italia per chiedere asilo.


Io aspetto notizie dagli avvocati che seguono il caso e una convocazione dei giudici per dimostrare che mia figlia non è una trafficante, come appare nell’atto di accusa.


Mia figlia è fuggita dall’Iran rifugiandosi nella regione del Kurdistan iracheno insieme a mio figlio Rajan. In Iraq Maysoon si è impegnata e ha lavorato come giornalista. Poi, in seguito alle minacce ricevute dall’Iran, i due fratelli hanno cercato di andare in Turchia. Purtroppo però lì hanno subito un furto da parte di trafficanti; per permettere loro di raggiungere l’Europa, la nostra famiglia ha dovuto raccogliere nuovamente dei soldi per pagare il viaggio. Questa volta sono riusciti a imbarcarsi e ad arrivare in Italia, dove hanno chiesto asilo. Però, per la mancanza di un interprete che potesse tradurre le parole di mia figlia, lei non è riuscita a difendersi e a ribattere all’accusa di essere una scafista. Perciò da allora è in carcere.


Ismael Majidi
All’Università si è impegnata in politica per la difesa dei diritti umani. Le guardie l’hanno picchiata e torturata molte volte, causandole un ricovero in ospedale

Faccio appello a tutte le associazioni e organizzazioni che si impegnano nella difesa dei diritti delle persone perché si occupino del caso di mia figlia: la mia è la richiesta di un padre disperato che, tra l’altro, ha già subito due ictus. La madre di Maysoon è morta quando lei aveva tredici anni.


Maysoon fin da piccola ha dimostrato capacità artistiche: si è espressa con le matite colorate ancor prima di andare a scuola, sempre incoraggiata da noi di famiglia. Nella classe che corrisponde alla quarta elementare ha cominciato a scrivere poesie, alla scuola media è diventata redattrice della rivista della scuola e nell’ultimo anno ha vinto il primo premio tra gli studenti narratori in Iran. Appassionata d’arte, come dicevo, si è iscritta all’Università per studiare teatro e regia teatrale (mi ha inviato esempi dei suoi lavori). Si è poi impegnata in politica e nell’attivismo per la difesa dei diritti umani. Questo ha causato interventi pesanti da parte delle guardie dell’Università, che l’hanno picchiata e torturata molte volte, causandole un ricovero in ospedale a Sanaa. Tale è stata la situazione in cui si è trovata, che Maysoon ha perfino pensato di donare i suoi organi nel caso le torture le avessero causato la morte. Ribadisco che le accuse fattele sono prive di fondamento e chiedo perciò giustizia.


 

Maysoon Majidi e le altre nella trappola del reato di «favoreggiamento»


Marjam Jamali, anche lei iraniana, ai domiciliari dopo sette mesi lontana dal figlio. «Il problema è una legge ingiusta: nessuno dovrebbe stare in carcere per aver attraversato un confine o aver aiutato qualcun altro a farlo», Richard Braude, Arci Porco Rosso


13 settembre 2024


Non solo Maysoon Majdi. Sono migliaia i procedimenti per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina aperti in Italia «ex articolo 12» del testo unico, quello che tiene dentro tutto: dalle condotte solidali allo scopo di lucro. Secondo i dati ottenuti da Altreconomia tra il 2004 e il 2021 sono state denunciate per questo reato 37.600 persone, ma solo in un caso su sei è stato contestato il fine economico. In mezzo sono finiti italiani e stranieri, tanti uomini e qualche donna.


Come Marjam Jamali, anche lei iraniana, anche lei arrestata allo sbarco con l’accusa di scafismo. Non un’attivista politica, come Majdi. Semplicemnte una persona in fuga dal regime insieme al figlio di otto anni. Il 26 ottobre scorso il caicco su cui era partita tre giorni prima dalla Turchia è stato intercettato al largo di Roccella Jonica da una motovedetta della guardia costiera.


Poteva essere la fine dell’incubo, ne è iniziato un altro. Degli uomini che hanno tentato di molestarla durante la traversata, dirà lei più tardi, le puntano il dito contro. Finisce in prigione, separata dal figlio. Riesce a incontrare un mediatore che parla la sua lingua solo dopo diversi giorni. Dietro le sbarre resta sette mesi: il 31 maggio il tribunale del riesame di Reggio Calabria la manda ai domiciliari. Pesano le preoccupazioni per il bambino.


L’8 luglio scorso è iniziato il processo, continuerà il 28 ottobre. «Sono emerse alcune discrepanze che meritano approfondimento. Ci sono aspetti che evidenziano una gestione sommaria delle indagini», ha denunciato in quell’occasione l’avvocato Giancarlo Liberati, che di accusati di scafismo ne ha seguiti oltre 150. Problemi di traduzione, mediatori poco affidabili, testimoni irreperibili, impianti accusatori traballanti sono elementi comuni in questi procedimenti, che solo negli ultimi anni hanno guadagnato l’attenzione pubblica.


Le donne incriminate, comunque, sono diverse e di varia provenienza. Una ucraina è stata arrestata nel 2011 a Crotone. Una sua connazionale e una libica sono finite in cella nel 2016 in Puglia e Calabria. Altre due sono state fermate, processate, condannate e recluse nelle carceri siciliane: E. e T., tre anni e tre e mezzo. Sono state seguite da Arci Porco Rosso, l’associazione palermitana che per prima ha avviato un lavoro sistematico su queste vicende e lo ha reso pubblico con il report Dal mare al carcere uscito nel 2021 e poi di volta in volto aggiornato.


Il caso di un’altra donna – una signora congolese arrestata nel 2019 a Bologna mentre provava a superare i controlli di frontiera con figlia, nipote e passaporto falso – è finito davanti alla Corte di giustizia Ue. I giudici del Lussemburgo dovranno esprimersi sulla legittimità del facilitators package, il combinato di una direttiva e di una decisione quadro cui si conforma l’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione italiano, secondo il quale la scriminante umanitaria è facoltativa, mentre il fine di lucro è un aggravante ma non un elemento costitutivo del reato. Questa sentenza, attesa nei prossimi mesi, potrebbe cambiare la storia dei «reati di solidarietà» in ambito migratorio.


Intanto, però, i processi continuano. «In quelli contro Majdi e Jamali sono coinvolti anche un uomo iraniano e uno turco, non vanno dimenticati – dice Richard Braude, di Arci Porco Rosso – Il problema è una legge ingiusta: nessuno dovrebbe stare in carcere per aver attraversato un confine o aver aiutato qualcun altro a farlo».


 

Zerocalcare: «Solidali con i curdi, ma solo a volte»


Intervista. «È una delle poche volte che conosciamo la biografia di una persone accusata di essere scafista. Sappiamo tutto di lei, il suo lavoro artistico è pubblico così come il suo attivismo nelle rivolte delle donne iraniane, e sappiamo che il suo profilo non è certo compatibile con l'attività di scafista. Eppure appena arrivata in Italia scatta l'accusa e viene messa in galera»


di Lucrezia Ercolani

13 settembre 2024


Ai festival di cinema abbiamo visto le sedie vuote, come quella di Jafar Panahi a Venezia, oppure la scelta di chi per esserci, come Mohammad Rasoulof a Cannes, ha imboccato la via dell’esilio. Ma accanto ai nomi più noti ci sono tantissime storie di artisti e artiste iraniane costretti a lasciare il paese. Galera, intimidazione, censura e impossibilità di firmare lavori per anni sono la norma. Tra loro, c’è Maysoon Majidi. «È una delle poche volte che conosciamo la biografia di una persone accusata di essere scafista. Sappiamo tutto di lei, il suo lavoro artistico è pubblico così come il suo attivismo nelle rivolte delle donne iraniane, e sappiamo che il suo profilo non è certo compatibile con l’attività di scafista. Eppure appena arrivata in Italia scatta l’accusa e viene messa in galera, dove si trova ormai dall’inizio dell’anno».


Sono le parole di Zerocalcare, che raggiungiamo al telefono; il fumettista conosce bene il contesto da cui proviene Majidi, curdo-iraniana, avendo viaggiato più volte in quei territori, esperienze su cui si basa il libro No Sleep Till Shengal.


La vicenda di Maysoon Majidi ci dice molto sul sistema dell’accoglienza in Italia, nonostante conosciamo la condizione delle artiste, a maggior ragione le donne, che fuggono dall’Iran.

Certo, anche perché Majidi è riconoscibile ma il punto è che non sappiamo invece quante persone innocenti vengano accusate di questo crimine, persone di cui non sappiamo nulla, la cui vita non ci è nota, ma che arrivano qui fuggendo dalla repressione come quella messa in atto dall’Iran.


Majidi proviene da un contesto complesso come quello del Kurdistan, di cui spesso ci dimentichiamo…

Maysoon Majidi ha tutte le caratteristiche di quelle categorie umane che ci interessano «a intermittenza». Lei nello specifico è sia curda che attivista per le donne iraniane. Siamo stati tutti solidali e contenti quando i curdi combattevano contro l’Isis e poi ce li siamo dimenticati, solo perché il terrorismo islamico in questo momento non è la minaccia più allarmante in Europa. Ma loro non hanno mai smesso di combattere, come le iraniane non hanno smesso di scagliarsi contro il regime. Ci eravamo innamorati di loro, ma quando arrivano in Italia chiedendo asilo le sbattiamo in galera.


Cosa si può fare per sensibilizzare di più rispetto alla violenza che subisce chi cerca rifugio in Italia?

Bella domanda! Come fare non lo so, di sicuro è un problema annoso che non nasce con questo governo, purtroppo l’opinione pubblica che vediamo oggi è frutto di un discorso sbagliato sia della destra che della sinistra. La destra ha sostenuto sempre le stesse ricette repressive, la sinistra a partire da un’ideale internazionalista è arrivata prima a parlare di controllo dei flussi e poi di rimpatri, spostandosi sempre più a destra, e così anche il baricentro del discorso pubblico è cambiato. Certo, con questo governo siamo arrivati a livello di disumanizzazione mai visti. Leggevo la reazione di Salvini allo scippatore investito e ucciso: mi sembra assurdo che un ministro possa dire qualcosa del genere.


Lo scafista viene visto poi come il responsabile delle traversate, ma la realtà è spesso più complessa.

Nell’opinione pubblica c’è grande confusione, si è creata quest’immagine dello scafista come se fosse un trafficante senza scrupoli mentre sono quasi sempre dei poveracci, capri espiatori di chi davvero lucra su tutto questo.


La comunità artistica in Italia dovrebbe prendere la parola per la liberazione di Maysoon Majidi?

Di sicuro se tutti quegli artisti, attori, personaggi che durante le rivolte iraniane si tagliavano le ciocche di capelli, insomma se tutti coloro che hanno espresso solidarietà per quel movimento prendessero la parola, questo potrebbe di certo aiutarla. Ma io penso sempre che questi casi più eclatanti dovrebbero funzionare come catalizzatori per innescare un dibattito che arrivi a cambiare la legislazione sull’accoglienza.



Fonti: ilmanifesto.it - 5 e 13 settembre 2024



ALTRI ARTICOLI SU MAYSOON, QUI:


bottom of page