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ITALIA/guerra. ESCLUSIVO! Il ruolo di Leonardo Spa nel genocidio e nell'eventuale ricostruzione di Gaza

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    LE MALETESTE
  • 21 ott
  • Tempo di lettura: 13 min

Un rapporto fa luce sui legami tra Leonardo SPA e il genocidio israeliano a Gaza


di Enrica Perucchietti

20 Ottobre 2025 - 13:43


Un nuovo dossier pubblicato da BDS Italia, dal titolo Piovono euro sull’industria“necessaria” di Crosetto e Leonardo S.p.A. Le relazioni con Israele, riaccende i riflettori sui rapporti tra Leonardo S.p.A.  la principale azienda italiana della difesa, partecipata dallo Stato e l’apparato militare israeliano. Secondo l’inchiesta, il gruppo guidato da Roberto Cingolani, attraverso filiali, joint-venture e forniture dirette, avrebbe continuato a fornire tecnologie, componenti e sistemi d’arma all’esercito di Tel Aviv anche dopo l’inizio dell’offensiva post 7 ottobre 2023 nella Striscia di Gaza. Dalla fornitura di cannoni navali OTO Melara ai radar israeliani RADA, fino ai jet M-346 “Lavi”, le connessioni tra Leonardo e la macchina militare israeliana emergono in modo dettagliato nel documento. L’azienda ha sempre respinto le accuse, ma le prove raccolte nel dossier delineano una rete di rapporti economici e militari difficilmente compatibile con i princìpi della legge italiana sull’export di armi e con gli impegni internazionali in materia di diritti umani.


L’industria della guerra travestita da tecnologia

Il rapporto a cura di Rossana De Simone pubblicato da BDS Italia (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni), ricostruisce in modo dettagliato un mosaico di contratti, acquisizioni e forniture che collegano Leonardo alle forze armate di Israele. Tra gli esempi più citati figura la fornitura dei cannoni navali OTO 76/62 Super Rapid, prodotti da OTO Melara, società interamente controllata da Leonardo, e montati sulle corvette Sa’ar 6 della marina israeliana. Tali navi hanno preso parte ai bombardamenti sulla Striscia di Gaza nel corso delle offensive del 2023 e del 2024. Un altro punto cruciale riguarda l’acquisizione, avvenuta nel 2022, della israeliana RADA Electronic Industries tramite la controllata statunitense Leonardo DRS. RADA è specializzata in radar e sistemi di difesa attiva per veicoli corazzati – come l’“Iron Fist” – utilizzati dall’esercito israeliano nelle incursioni via terra a Gaza. Il dossier sottolinea che tale partecipazione non è meramente indiretta: Leonardo ne detiene il controllo operativo, beneficiando dei contratti stipulati con il Ministero della Difesa israeliano. BDS Italia ricorda, inoltre, che Leonardo figura tra i fornitori del jet M-346 “Lavi” dell’aeronautica israeliana, impiegato in versioni d’attacco leggere.


Come il governo elude la legge 185/90

Secondo il rapporto, la cooperazione tra Roma e Tel Aviv non si è fermata al 7 ottobre 2023: la legge italiana 185/90, che vieta l’export di armamenti verso Paesi in conflitto o che violano i diritti umani, viene elusa grazie alla struttura multinazionale dell’azienda, che opera attraverso società con sede in Stati Uniti, Israele e Regno Unito, dove le restrizioni italiane non si applicano pienamente. Il 17 luglio, dopo un bilancio devastante a Gaza, PD, M5S e AVS hanno presentato una mozione per sospendere il Memorandum militare con Israele. La maggioranza ha difeso l’accordo per motivi economici, occupazionali e strategici, sostenendo che isolare Israele non aiuterebbe a risolvere la crisi politica. La mozione è stata respinta, come molte altre risoluzioni europee e internazionali sul tema.


Profitti di guerra e caduta in Borsa

Il contesto finanziario rafforza l’immagine di un’azienda che prospera in tempo di guerra. Per due anni di fila (2023 e 2024), l’azienda ha infatti registrato profitti da record, superando di molto le previsioni degli analisti. Nel febbraio 2025, Leonardo ha chiuso l’anno precedente con utili record pari a 17,8 miliardi di euro, un incremento attribuito anche al protrarsi dei conflitti in Medio Oriente. La domanda globale di armamenti – in particolare droni, radar e sistemi di artiglieria – era esplosa proprio durante l’offensiva israeliana su Gaza. La dinamica inversa si è verificata nell’ottobre 2025, quando l’annuncio di una tregua temporanea tra Israele e Hamas ha provocato un improvviso crollo del titolo in Borsa. Le azioni di Leonardo hanno perso valore in poche ore, calando a 55,48 il 9 ottobre, data di annuncio dell’accordo, e a 52,90 il 10 ottobre, giorno della ratifica, segno evidente di quanto la redditività dell’azienda sia legata al perdurare delle ostilità. Questa correlazione diretta tra guerra e profitto pone interrogativi etici sulla sostenibilità di un modello industriale che trae beneficio dalla violenza e dal disastro umanitario.


Le dichiarazioni contradditorie di Cingolani

Intervistato da Federico Fubini per il Corriere della Sera il 30 settembre 2025, l’amministratore delegato Roberto Cingolani ha negato qualsiasi coinvolgimento diretto di Leonardo nelle operazioni militari israeliane, affermando che «non vendiamo armi a Paesi in guerra» e definendo «un’esagerazione inaccettabile» parlare di corresponsabilità nel genocidio di Gaza, legata alla partecipazione dell’azienda ai consorzi che producono gli F-35 usati anche da Israele. Ha poi precisato che i radar militari sono venduti dalla DRS Technologies, soggetta alle decisioni del governo USA e che, dall’inizio del conflitto, non sono state più autorizzate esportazioni verso Israele. La sua difesa si è concentrata sulla distinzione tra nuove licenze d’esportazione e contratti preesistenti, sostenendo che l’azienda rispetta la legge 185/90. Pochi giorni dopo, Altreconomia ha smontato punto per punto le dichiarazioni di Cingolani, dimostrando come Leonardo continui di fatto a fornire sistemi militari a Israele attraverso le proprie controllate estere. L’inchiesta ha documentato che la linea ufficiale dell’azienda – «non esportiamo verso Israele» – è smentita dai flussi industriali e dalle partecipazioni societarie. Di fatto, i componenti prodotti da Leonardo e le tecnologie condivise con RADA e DRS vengono integrati nelle forniture israeliane, consentendo all’azienda italiana di mantenere la propria presenza nel mercato bellico anche in pieno conflitto.


Lo Stato azionista e la responsabilità politica

Lo Stato italiano, azionista di maggioranza relativa con circa il 30% del capitale di Leonardo, si trova al centro di un evidente conflitto d’interessi. Da un lato promuove una linea diplomatica formalmente orientata alla pace e al rispetto del diritto internazionale; dall’altro, trae benefici finanziari dalle performance di un’azienda che rifornisce un esercito accusato di crimini di guerra. Il dossier di BDS Italia insiste su questo punto, sostenendo che la responsabilità dello Stato non è solo morale ma anche materiale, poiché parte dei profitti derivanti dal conflitto rientrano nelle casse pubbliche sotto forma di dividendi. Le norme italiane sull’export di armamenti appaiono insufficienti a garantire un controllo reale. La legge 185/90 prevede che le forniture vengano bloccate in presenza di conflitti armati o di violazioni sistematiche dei diritti umani, ma prevede anche eccezioni per contratti firmati in precedenza o per operazioni indirette attraverso società controllate all’estero. È proprio in questa “zona grigia” che, secondo il dossier, Leonardo si muove con abilità, sfruttando la complessità delle proprie catene di produzione per aggirare i vincoli.


Le prove di complicità industriale

Le evidenze raccolte nel rapporto di BDS Italia convergono su un punto: Leonardo non è un attore esterno al conflitto, ma un ingranaggio integrato nella macchina militare israeliana. I cannoni OTO Melara, i radar RADA e i jet M-346 “Lavi” non sono meri prodotti di catalogo, ma strumenti impiegati nei bombardamenti e nelle incursioni a Gaza. Il dossier cita fonti israeliane e internazionali – tra cui Who Profits e il rapporto della relatrice speciale ONU Francesca Albanese – per dimostrare che le tecnologie di Leonardo contribuiscono concretamente all’azione militare israeliana. Il rapporto Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, presentato il 30 giugno da Francesca Albanese, ha presentato un duro atto d’accusa contro Israele e le aziende coinvolte nel sostegno militare e finanziario all’assalto di Gaza. Il documento denuncia la complicità del settore privato globale, dalle big tech alle industrie belliche, nell’economia del genocidio, mentre la spesa militare israeliana è cresciuta del 65% in un anno. Per il suo lavoro, Albanese è stata attaccata e sanzionata dagli Stati Uniti. Il documento stilato da BDS Italia aggiunge nuovi tasselli a quel reporto, mostrando come la catena di fornitura di Leonardo attraversa filiali e partner industriali in Stati Uniti, Regno Unito e Israele, rendendo difficile applicare sanzioni o blocchi alle esportazioni. In sostanza, l’azienda italiana ha costruito una rete internazionale che le consente di mantenere attivi i flussi commerciali anche in presenza di divieti formali.


La crisi della trasparenza e il silenzio istituzionale

Mentre BDS Italia e varie organizzazioni per i diritti umani chiedono chiarezza, Leonardo ha scelto la via del silenzio. Alla richiesta di commento inviata da Business & Human Rights Resource Centre, l’azienda non ha fornito risposta. Né il governo italiano ha finora chiarito la propria posizione rispetto alle accuse contenute nel dossier. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha definito “propaganda” le campagne di boicottaggio e le richieste di embargo militare, riaffermando la necessità di “sostenere le imprese strategiche nazionali”. Questa difesa istituzionale si inserisce in un quadro più ampio in cui l’industria militare italiana viene presentata come volano economico, nonostante i suoi legami con teatri di guerra e violazioni dei diritti umani. La stessa Leonardo, del resto, si promuove come “leader europeo nella difesa etica e sostenibile”, una formula che stride con la realtà documentata dal dossier BDS.

Diritto, economia e morale: le domande inevase

Il caso Leonardo riporta al centro un nodo irrisolto della politica industriale italiana: può un’azienda controllata dallo Stato generare profitti dalla guerra senza che lo Stato stesso ne sia corresponsabile? La risposta non è solo giuridica, ma etica. Finché il governo continuerà a giustificare l’espansione militare come opportunità economica, il confine tra difesa e complicità rimarrà labile. La legge 185/90, pur avanzata per l’epoca, appare oggi inadeguata a regolamentare un’industria globalizzata che agisce tramite controllate e partnership transnazionali. Le autorità italiane non possono ignorare che il controllo effettivo su Leonardo implica anche una responsabilità sulle sue scelte commerciali e produttive.


Conclusione

Il dossier di BDS Italia non è una denuncia isolata, ma un atto d’accusa documentato, che incrocia dati industriali, bilanci e fonti ufficiali. Mentre Leonardo parla di “difesa etica”, le sue forniture finiscono – direttamente o attraverso controllate estere – nel cuore della macchina bellica israeliana. Il 15 luglio 2025 i ministri degli Esteri dell’Unione europea, riuniti a Bruxelles, hanno deciso di non sospendere l’accordo di associazione con Israele sebbene si sia rilevato che continua a violare i suoi obblighi, in materia di diritti umani, ai sensi dell’accordo di associazione. È dall’inizio della guerra che l’Europa si rifiuta di fermare la strage di civili a Gaza, le violenze e sfollamenti da parte dei coloni e dell’esercito israeliano, ma la sua complicità si mostra con maggiore cinismo quando assicura che non finanzia progetti che colpiscono Gaza. L’immagine che ne emerge è quella di un’azienda a controllo pubblico che prospera mentre a Gaza si consuma una catastrofe umanitaria.




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La tregua a Gaza fa crollare le azioni di Leonardo SPA


di Valeria Casolaro

16 Ottobre 2025 - 9:39


Per mesi la maggiore azienda delle armi italiana, Leonardo SPA ha ribadito di non avere alcun ruolo nel genocidio palestinese. Eppure, a non credere all’azienda paiono essere gli stessi azionisti, tanto che dall’annuncio della tregua a Gaza il colosso bellico ha perso ben il 10,7% del valore delle proprie azioni.


L’azienda aveva chiuso la giornata dell’8 ottobre con 56,20 euro per azione, calando a 55,48 il 9 ottobre, data di annuncio dell’accordo, e a 52,90 il 10 ottobre, giorno della ratifica. Da allora, il prezzo delle azioni di Leonardo è continuato a calare, raggiungendo ieri quota 50,18 euro per azione, il picco minimo da metà settembre.


Per due anni di fila (2023 e 2024), l’azienda ha registrato profitti da record, superando di molto le previsioni degli analisti.


E nonostante le continue smentite dell’ad dell’azienda, Roberto Cingolani, le prove che collegano le armi made in Italy al genocidio a Gaza sono molteplici. Una su tutte è l’inchiesta della relatrice speciale ONU per i Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, che nel suo report "Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio" denuncia la complicità con il genocidio di Israele a Gaza di decine di aziende nel mondo. Tra queste vi è proprio l’italiana Leonardo, della quale lo Stato è azionista di maggioranza, accusata tra le altre cose di contribuire alla realizzazione degli armamenti impiegati nel genocidio (come quelli dei caccia F-35) e di aver trasformato in armamenti automatizzati i bulldozer D9 della statunitense Caterpillar (tramite la propria controllata RADA Electronic), impiegati per distruggere le abitazioni dei palestinesi in Cisgiordania. Nel 2024, poi, si è conclusa la fornitura di elicotteri AgustaWestland AW119Kx “Koala-Ofer”, impiegati da Tel Aviv per addestrare i militari della Israel Air Force presso la base di Hatzerim, nel deserto del Negev. La vendita, che fa parte di una serie di trattative iniziate nel 2019 e concluse nel 2022, non è stata interrotta nemmeno dopo le dichiarazioni del ministro degli Esteri Tajani, che aveva riferito che, «dopo un’attenta valutazione», anche alcuni dei contratti firmati prima del 7 ottobre sarebbero stati interrotti.

In merito alle accuse di complicità in genocidio, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera Cingolani ha dichiarato che «Si dice che poiché abbiamo contribuito a costruire i caccia F-35 venduti in tutto il mondo – incluso Israele – e poiché alcuni di questi F-35 sono utilizzati in questo orrendo conflitto, allora siamo complici di genocidio. Certo, partecipiamo a consorzi per la costruzione di tante tecnologie e piattaforme per la difesa. Ma dire che siamo corresponsabili di genocidio mi pare una forzatura inaccettabile». Per quanto riguarda le accuse di collaborazione con Israele per la fornitura di radar militari, Cingolani ha dichiarato che questi vengono venduti dalla DRS Technologies, della quale Leonardo è socia di maggioranza ma che «deve seguire le indicazioni del suo governo».

Da quando è scoppiato il conflitto, specifica l’ad di Leonardo, «non è stata più autorizzata nessuna licenza di esportazione verso Israele», in base a quanto previsto dalla legge 185.  Per quelle precedenti invece, riguardanti la fornitura degli elicotteri e degli aeroplani da addestramento, l’azienda sarebbe stata costretta a onorarli «per legge, anche in questa situazione tremenda». Come riferito dalle inchieste di Altreconomia, tuttavia, l’esecutivo avrebbe potuto fermare tutti i contratti precedentemente siglati con Israele proprio in forza di quanto previsto dalla legge 185, che autorizza a intervenire in caso di gravi violazioni delle norme internazionali. 


Non si tratta solo di Leonardo: tutte le principali aziende di armi europee hanno registrato un progressivo calo del valore delle proprie azioni dal 9 ottobre scorso in poi. La tedesca Rheinmetall, la maggiore azienda di armamenti del Paese, ha chiuso la giornata di ieri registrando un calo dell’8,8%, la britannica BAE System del 5,6%.

Un quadro analogo si era d’altronde verificato nell’agosto di quest’anno, alla vigilia dell’incontro in Alaska tra Trump e Putin, quando la pace tra Russia e Ucraina sembrava un po’ più vicina, facendo così crollare le azioni di Leonardo e di tutte le grandi aziende delle armi dell’UE (e salire quelle delle aziende coinvolte nella ricostruzione, come quelle del cemento).




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IL VIDEO

Video che denuncia la complicità dell'azienda italiana produttrice di armi Leonardo SpA e del governo italiano con lo stato terrorista di Israele nel genocidio del popolo palestinese





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APPENDICE

Pubblichiamo un'intervista che appare nell'edizione odierna del Corriere della Sera a Marco Minniti, ex ministro dell’Interno, in un’altra vita lothar di Massimo D’Alema, oggi presidente della, prestigiosa e ascoltatissima da Giorgia Meloni, Fondazione Med-Or di Leonardo, già impiegato dallo stesso governo Meloni nel Piano Mattei. Autore-ideatore anche dei famigerati "Accordi Italia-Libia" sui migranti.



Marco Minniti: «Bene la relazione forte con Trump. L’Italia può aprire la strada alla Ue nel processo di ricostruzione di Gaza»


di Monica Guerzoni

16 ottobre 2025


L'ex ministro pd: sui militari è importante che ci sia un mandato pieno delle Camere


Marco Minniti, ex ministro dell’Interno del governo Gentiloni, è presidente della Med-Or Italian Foundation, che rappresenta il «sistema Paese» nel rapporto con Medio Oriente e Mediterraneo «allargato». Nel governo c’è chi parla di lui, che ideò gli accordi con la Libia sui migranti — di cui non vuole parlare da quando si è dimesso «senza rimpianti» da parlamentare — e lavora all’attuazione del Piano Mattei, per un ruolo nella ricostruzione di Gaza.


Rappresenterà l’Italia nel «board» per Gaza?

«Non mi risulta. Non so assolutamente niente. I nomi non sono mai importanti. Quel che è importante è il ruolo dell’Italia».


«Il piano in 20 punti è una grande opportunità, che sembrava impensabile. Il primo pilastro ha consentito di raggiungere tre obiettivi di straordinaria importanza. Il cessate il fuoco dopo 70 mila morti a Gaza, il ritorno a casa degli ostaggi e il fatto che sono ripartiti gli aiuti, in una realtà dove si era usata la fame come arma di guerra».


La seconda fase non presenta molti rischi?

«In questa fase di transizione può sempre avvenire una provocazione, una rottura. Per cui bisogna accelerare al massimo la realizzazione del secondo pilastro del piano, anche sfruttando l’onda di entusiasmo che si è creata con la visita di Trump in Israele e con gli incontri di Sharm».


Lo «show» di Trump è solo luci, o anche ombre?

«Trump ha messo in gioco se stesso, per due ragioni. Doveva uscire dallo scacco politico e diplomatico di Anchorage, dove a Ferragosto ha incontrato Putin e il cui tappeto rosso, col moltiplicarsi degli attacchi contro l’Ucraina, è diventato nero».


La seconda ragione?

«Trump con Israele ha potuto mettere in campo un potere decisivo, per il rapporto personale con Netanyahu e perché gli Usa sono il loro principale fornitore di armamenti. Senza il diretto coinvolgimento di Trump non avremmo smosso le acque. E non ha accettato di dirigere il board di transizione  per vanità, ma perché chiamato dai Paesi arabi. Una gigantesca responsabilità, che lo espone enormemente».


Ha fatto bene Meloni ad aspettare oltre due anni prima di «condannare» Netanyahu per la carneficina a Gaza e a non seguire Macron e Sánchez sul riconoscimento della Palestina?

«Meloni ha costruito con Trump una relazione speciale e non era scontato, anche per il rapporto forte che aveva con Biden. Le battute fatte in pubblico da Trump non sono casuali. E un ruolo ha giocato l’approccio italiano al riconoscimento della Palestina».


Vuol dire che ha pagato la cautela del governo, contestata con forza dalle opposizioni nelle piazze pro-Pal?

«Nel momento in cui gran parte dei Paesi Ue avevano deciso di riconoscere la Palestina, l’Italia non ha puntato a isolare Trump, pur non avendo mutato la linea storica “due popoli due Stati”. E lui penso abbia apprezzato».


«Può essere apripista, aiutare la Ue a recuperare un evidente ritardo politico e a diventare protagonista in un processo di ricostruzione che fa tremare le vene. Ma serve una forza di stabilizzazione militare a Gaza, con la spina dorsale dei Paesi arabi e con un mandato Onu, senza la quale è impossibile pensare al disarmo di Hamas e al ritiro delle forze Israeliane».


La premier otterrà i voti delle opposizioni, quando in Parlamento si voterà per l’invio di militari italiani?

«È importante che l’Italia possa partecipare con un mandato pieno del Parlamento. Ed è importante che il 7 novembre a Roma verrà Abu Mazen per incontrare Meloni e Mattarella. All’Onu il presidente dell’Anp ha detto che il futuro della Palestina sarà senza Hamas».


Vede legami tra Piano Mattei e Gaza?

«Un piano di ricostruzione ambizioso, che impegnerà almeno un decennio, deve vedere la messa in campo di un progetto italiano coordinato dal governo, inserito in un grande progetto europeo. I Paesi arabi avranno un ruolo fondamentale e dovrà avere un ruolo l’Italia, storicamente percepita come amichevole e affidabile. I palestinesi non hanno pregiudizi e sembra che Israele sia d’accordo sull’entrata dell’Italia nel board di transizione». 


Perché è così importante che il nostro Paese, marginale fino a pochi giorni fa, possa fare la sua parte per la rinascita di Gaza?«Renderebbe evidente che la prospettiva di tutto il percorso è la costruzione di uno Stato palestinese, che riconosca Israele. Punto cruciale per una pace stabile e per garantire la sicurezza di entrambi dopo che, in questi due anni, si è toccato il fondo».


La ricostruzione è un colossale business per aziende come Leonardo, Eni, Cdp, Enel, Eni e Fincantieri, coinvolte in Med-Or?

«Noi possiamo giocarci la presenza dei grandi player economici italiani, dall’energia alle rinnovabili. Il tema è costruire le condizioni perché la popolazione di Gaza rimanga a Gaza, l’opposto del Piano Riviera per fortuna accantonato. Sarebbe straordinario lavorare con i palestinesi per ricostruire un’autosufficienza alimentare, dopo che la fame è stata utilizzata come arma».



 
 

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