ITALIA / Migranti. Processi e inasprimenti in mare anche contro le barche
- LE MALETESTE
- 5 giorni fa
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Assolta Marjan Jamali: non era una scafista
Un processo grottesco e ideologico a carico di due cittadini iraniani che per 500 giorni hanno subito l’onta di essere considerati trafficanti di esseri umani. Con una sentenza double face
di Silvio Messinetti, Catanzaro
17 giugno 2025
Un processo grottesco e ideologico a carico di due cittadini iraniani che per 500 giorni hanno subito l’onta di essere considerati trafficanti di esseri umani. Con una sentenza double face: Marjan Jamali assolta, Amir Babai condannato a 6 anni e al pagamento di una multa monstre di un milione e mezzo di euro per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Malgrado avessero fatto il viaggio insieme, anche quello precedente la traversata che li ha portati in Calabria, e malgrado la posizione processuale emersa nel dibattimento fosse identica.
Le urla di disperazione di Amir al termine della lunga camera di consiglio del tribunale di Locri, alla lettura del dispositivo, si possono spiegare solo con l’incongruenza del provvedimento. Perché il processo a Marjan e Amir non è stato solo un caso giudiziario, ma un atto politico. È il prodotto di un sistema che agisce contro le persone in movimento, con arresti immediati e un uso distorto delle testimonianze rilasciate nei momenti di massima vulnerabilità.
Dal 18 giugno 2024, data di apertura del procedimento, i due imputati hanno subito oltre 500 giorni di misure cautelari: Amir Babai da detenuto, Marjan Jamali da persona libera, ma solo a fine marzo a seguito dell’ordinanza del Riesame di Reggio Calabria che aveva già smontato l’impianto accusatorio. Eppure, secondo i giudici, Amir avrebbe svolto mansioni esecutive in un’operazione di traffico di esseri umani condotta da soggetti attivi in Turchia. Marjan e Amir hanno subito un processo perché accusati, in pratica, di aver contribuito a fare arrivare circa 100 persone, soccorse a bordo di un veliero a fine ottobre del 2023, poi sbarcato al porto di Roccella Jonica.
I due viaggiavano su quella imbarcazione di fortuna e la giovane donna era insieme al figlioletto Faraz. Madre e figlio erano scappati dalla violenza del compagno di lei e del regime teocratico. Successivamente allo sbarco, Marjan è stata accusata da tre iracheni di aver fatto parte dell’equipaggio del natante. L’hanno accusata e poi sono spariti. Diversi testimoni avrebbero poi dichiarato il contrario dei tre accusatori fantasma. Lei ha denunciato, invece, quel che ha subito su quel veliero ovvero un tentativo di stupro davanti al figlioletto. Ha resistito anche grazie all’intervento in sua difesa di un altro compagno di viaggio. Era Amir Babai.
Persino Faruk, l’egiziano che ha confessato di essere il conducente dell’imbarcazione, ha testimoniato a discarico: i due erano semplici passeggeri, senza alcun ruolo nell’organizzazione del viaggio. Una testimonianza rafforzata dalle dichiarazioni di una coppia rintracciata in Germania, che ha viaggiato con Marjan e il figlio fin dalla Turchia. Ma soprattutto la documentazione acquisita e le ricostruzioni fornite dalla difesa hanno mostrato come l’intero impianto accusatorio fosse basato su elementi labili e mal interpretati, tra cui la presenza di Marjan e Amir in un gruppo Telegram usato dai trafficanti.
Ma ciò non è bastato ad Amir per sfuggire alla condanna. Felicità per Marjan e sconcerto per Amir, i sentimenti della folta delegazione di attivisti che ha presenziato all’udienza di ieri. Tra loro anche Maysoon Majidi, la regista curda, che ha subito la stessa sventura di Marjan e Amir, a Crotone qualche mese fa. (...)

Ong, dopo le navi il governo colpisce le barche
Adesso il Viminale se la prende con i velieri e le piccole imbarcazioni: richieste di trasbordi pericolosi e porti lontani anche per loro. Il cambio di tattica perché la flotta civile ha continuato a salvare malgrado tutte le vessazioni
17 giugno 2025
Dopo le navi, le barche. Il ministero dell’Interno ha spostato il fronte della guerra alle ong che salvano vite in mare: ora se la prende con i velieri e le piccole imbarcazioni della “flotta civile”. I primi indizi risalgono a dieci giorni fa, la conferma all’altro ieri: il Viminale indica porti di sbarco lontani anche alle unità di soccorso di dimensioni ridotte. In alcuni casi pretende trasbordi rischiosi, che già due volte i capitani hanno rifiutato per ragioni di sicurezza.
NELLE PRIME ORE del 6 giugno Nadir – veliero lungo 18 metri e largo 4 – navigava verso nord con 115 migranti salvati nelle acque internazionali davanti alla Libia. Lampedusa distava 12 ore. Poco prima delle tre la guardia costiera ha confermato, via mail, che era quello il luogo di sbarco. Otto ore dopo la stessa autorità ha telefonato al capitano: vai a Porto Empedocle. Prima, però, avrebbe dovuto trasferire su una motovedetta italiana i vulnerabili, evitando di separare le famiglie.
Per la capitaneria così si sarebbe garantita la sicurezza della navigazione fino alla lontana Sicilia. Ma secondo l’equipaggio il trasbordo avrebbe creato grossi rischi: in quelle condizioni selezionare i vulnerabili e tutelare l’unità familiare era impossibile. Dopo un tira e molla è arrivata l’autorizzazione a sbarcare tutti a Lampedusa. Poi, però, il veliero è stato multato e detenuto. Due le accuse: non aver comunicato con libici e tunisini e non aver rispettato le indicazioni italiane sul luogo di sbarco. In tutte le precedenti missioni Nadir era approdata sull’isola pelagica. Mai, viste le dimensioni, gli era stato chiesto di andare in Sicilia.
Sempre il 6 giugno la Sea-Eye 5 – unità veloce lunga 23 metri e larga 6 – ha salvato 50 migranti. «Nonostante la limitata capienza della nave, le autorità italiane hanno assegnato il porto di Vibo Valentia, a 295 miglia nautiche dal luogo del salvataggio», ha scritto l’ong in un comunicato che sottolinea i pericoli derivanti da questa scelta. Per quattro volte ha chiesto di riconsiderarla: non c’è stato nulla da fare.
DOMENICA SCORSA la stessa imbarcazione è finita al centro di un braccio di ferro con il Viminale. A bordo, dopo tre evacuazioni mediche d’urgenza a Lampedusa, aveva 65 naufraghi. Credeva di poterli sbarcare a Pozzallo ma nei pressi delle coste siciliane le autorità hanno dato l’ok solo per i vulnerabili: gli altri sarebbero dovuti andare addirittura a Taranto. Troppo per un mezzo disegnato e costruito per il soccorso in mare, ma non per simili trasferimenti.
«Non possiamo fornire assistenza medica per così tanto tempo. Avevamo quasi finito l’acqua. La sicurezza di naufraghi ed equipaggio sarebbe stata compromessa. Queste prassi violano le indicazioni dell’Organizzazione marittima internazionale», afferma il capomissione Johanes Gaevert. Da terra, intanto, aveva alzato la voce il sindaco del comune siciliano, il medico Roberto Ammatuna: «Non si capisce chi dovrebbe certificare la presunta fragilità. Fateli sbarcare tutti». In serata, dopo l’ennesima evacuazione medica di una donna incinta al nono mese, lo stallo si è sbloccato e i naufraghi hanno toccato terra.
Nel frattempo la stessa dinamica aveva colpito la Louise Michel. L’unità rapida – 30 metri per 6 – trasportava 193 persone. Nei pressi di Lampedusa la guardia costiera ne ha prese 147. Le altre sono state spedite a Crotone. «Già a inizio anno ci avevano assegnato Reggio Calabria, ma questo episodio segna un salto nell’escalation: il porto della città ionica è il più lontano di sempre», fanno sapere dalla ong.
«QUESTE PRASSI non hanno alcun supporto normativo e non rispondono ai criteri di trasparenza dell’azione amministrativa – afferma l’ammiraglio Sandro Gallinelli, per 40 anni nella guardia costiera e ora in pensione – I provvedimenti amministrativi devono essere motivati e giustificati: qui non appare alcuna razionalità, se non quella di allontanare le ong dall’area dei soccorsi. Ma non lo si vuole ammettere».
L’avvocata Lucia Gennari, che difende diverse ong, afferma: «Ordinare a imbarcazioni di piccole dimensioni, come fossero navi grandi, di accogliere per un tempo spropositato le persone a bordo o pretendere di selezionare i vulnerabili in condizioni di sovraffollamento crea forti rischi. Così si obbligano i comandanti a comportamenti pericolosi, sotto la minaccia della detenzione del mezzo».
Le nuove mosse del governo rispondono a una parziale riorganizzazione della flotta civile seguita al decreto Piantedosi di gennaio 2023 – su cui è atteso il vaglio di costituzionalità della Consulta – e alla prassi di assegnare alle navi porti lontani subito dopo il primo soccorso. Percorrere centinaia di chilometri verso gli scali del nord Italia con poche decine di naufraghi ha moltiplicato i costi delle missioni. I numerosi fermi hanno fatto il resto. Basti pensare che l’ammiraglia delle navi umanitarie, la Geo Barents di Msf, nel 2023 ha portato al sicuro 4.646 persone, l’anno seguente 2.278. Per questo è stata dismessa e sarà sostituita da un’altra tipologia di imbarcazione. La stessa Sea-Eye ha cambiato la sua nave numero 4, passata ora a Mediterranea, con l’unità rapida (la numero 5).
NONOSTANTE TUTTE LE vessazioni subite, però, la flotta civile ha continuato a soccorrere. A inizio mese le ong avevano salvato complessivamente oltre 5mila persone su 23mila sbarchi (poi saliti a 27mila): il 21% del totale, media più alta degli ultimi anni. Per il governo Meloni sono troppe. Anche perché malgrado l’impegno per contrastare i flussi, una vera e propria ossessione, nel resto d’Europa gli arrivi di migranti calano ma in Italia gli sbarchi aumentano.
Fonte: ilmanifesto.it - 17 giugno 2025