ITALIA. Sull’apparente morbidezza delle questure
- LE MALETESTE
- 7 ott
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Le norme che fino a ieri impedivano perfino una trombetta in piazza oggi non vengono fatte pesare, non perché lo Stato sia improvvisamente più tollerante (ovviamente), ma perché lo Stato teme che farle pesare adesso significhi moltiplicare la resistenza. È il segno che la lotta dal basso, anche nella sua spontaneità, ha già modificato il campo.
di Chiara Pannullo
6 ottobre 2025
C’è un paradosso evidente che non può sfuggire a chi osserva ciò che accade in queste settimane. Fino a pochi mesi fa l’apparato repressivo dello Stato faceva leva sulla Legge n. 132/2018 e Legge n. 77/2019, comunemente note come Decreti Sicurezza, per criminalizzare ogni forma di dissenso: bastava accendere un fumogeno, organizzare un blocco stradale o improvvisare un corteo non autorizzato perché scattassero denunce, multe salatissime, fogli di via.
I dispositivi normativi approvati negli anni, dal pacchetto Minniti-Orlando fino ai decreti Salvini, hanno irrigidito lo spazio pubblico e trasformato il conflitto sociale in questione d’ordine, perseguibile penalmente. Una piazza studentesca che provava a muoversi fuori dai percorsi concordati veniva immediatamente caricata, un presidio non autorizzato veniva disperso con violenza. Eppure oggi vediamo altro: occupazioni universitarie che si moltiplicano, migliaia di persone in piazza anche senza preavviso, blocchi dei binari e dei porti che si realizzano senza che scatti immediatamente la repressione brutale.
A Firenze, venerdì 2 ottobre, 2.000 (o forse anche di più) persone hanno riempito Santissima Annunziata: nessuna carica, nessuna operazione di sgombero, se non un controllo contenuto.
Non si tratta ovviamente di un improvviso ammorbidimento delle questure, né di una conversione democratica del potere. Si tratta di un calcolo politico. Lo Stato e i suoi apparati repressivi si muovono sempre dentro il bilancio dei rapporti di forza. Quando ritengono che un movimento possa essere isolato, reprimono con ferocia, sapendo di poterlo schiacciare senza conseguenze.
Quando invece la repressione rischia di generare consenso verso chi protesta e di radicalizzare ulteriormente la base, allora temporeggiano, lasciano correre, tollerano perfino ciò che fino a ieri consideravano intollerabile.
È il caso delle piazze di oggi: caricarle con la brutalità (e comunque nelle precedenti manifestazioni, le cariche non sono mancate) significherebbe rischiare di triplicare i partecipanti domani, trasformando cortei spontanei in ondate di massa.
C’è poi un secondo elemento: la contraddizione politica del governo. L’esecutivo Meloni è schierato con Israele senza ambiguità, ma sa che una parte consistente della popolazione è colpita dalle immagini di Gaza. Se lo Stato apparisse come braccio interno della repressione coloniale più di quanto non si sia consapevoli, rischierebbe di spaccare ulteriormente la società e alimentare la rabbia. Lasciare un margine di sfogo alle manifestazioni spontanee, almeno finché non mettono davvero a rischio la logistica e l’economia, è per il governo un modo di gestire il dissenso evitando che diventi incontrollabile. In questo senso, la relativa “tolleranza” delle questure non è un cedimento, ma una forma di gestione intelligente del conflitto.
Non è un segno di apertura democratica, ma un calcolo per non ingigantire ciò che ancora è percepito come contenibile. Perché la lezione è chiara: se i blocchi diventassero sistematici, se la logistica venisse interrotta davvero, se gli studenti costruissero un’onda capace di collegarsi con lavoratori e portuali, allora la repressione tornerebbe a mostrarsi in tutta la sua durezza.
La questione è quindi sempre la stessa: il bilancio dei rapporti di forza. Oggi lo Stato osserva, misura, aspetta. È convinto che la spontaneità non si tradurrà in organizzazione, che l’onda emotiva si esaurirà, che il ritorno alla normalità sarà automatico. Se però la spontaneità saprà farsi continuità, se le occupazioni diventeranno nodo stabile, se i blocchi sapranno moltiplicarsi e coordinarsi, allora la tregua apparente si trasformerà in scontro frontale.
La verità è che le leggi di sicurezza non sono mai venute meno: restano lì, pronte a essere usate. Ma per ora il potere sceglie di non applicarle in tutta la loro durezza perché teme che i tempi non siano maturi per schiacciare senza rischi. È una sospensione tattica, non una concessione politica.
In questa sospensione si gioca però uno spazio prezioso: la possibilità di costruire reti, di consolidare rapporti, di trasformare la mobilitazione spontanea in soggettività capace di durare.
Il paradosso allora si spiega così: le stesse norme che fino a ieri impedivano perfino una trombetta in piazza oggi non vengono fatte pesare, non perché lo Stato sia improvvisamente più tollerante (ovviamente), ma perché lo Stato teme che farle pesare adesso significhi moltiplicare la resistenza. È il segno che la lotta dal basso, anche nella sua spontaneità, ha già modificato il campo.
Fonte: https://www.osservatoriorepressione.info/sullapparente-morbidezza-delle-questure/ - 6 ottobre 2025