Il parlamento italiano ha progressivamente inasprito le pene per i reati esistenti, creandone al contempo molti nuovi. Migranti e movimenti sociali sono nel mirino dell'impegno repressivo dell'attuale esecutivo.
di Pedro Castrillo
@AltreItalia
3 agosto 2024, 08:29
Da anni, quasi tutti i governi italiani approvano leggi per contribuire all’ambiguo ambito della “sicurezza”. Senza soluzione di continuità, il parlamento transalpino ha progressivamente inasprito le pene per i reati esistenti, creandone molti nuovi (e non eliminandone praticamente nessuno). Il tutto condito da un costante aumento della spesa per le tante forze di polizia presenti in Italia.
Seguendo un copione quasi predefinito, l’approvazione di questo tipo di riforme è solitamente accompagnata da campagne mediatiche scandalose, che creano momenti di emergenza che funzionano come ultima giustificazione davanti all’opinione pubblica. L’obiettivo di fondo, in tutti i casi, è lo stesso: domare il conflitto sociale, sia nelle sue fasi nascenti – attraverso misure preventive ereditate dal regime mussoliniano, vedi “sorveglianza speciale” – sia nelle sue manifestazioni più organizzate.
Una lunga serie di “leggi bavaglio”
L’origine di questa tendenza ultrarepressiva da parte dello Stato italiano potrebbe essere collocata nel periodo 1968-1977, la “ grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale ” che causò un autentico panico tra le élite del Paese transalpino, come così come tra le potenze internazionali che hanno interessi in esso.
Un panico che ha avuto, grosso modo, due tipi di risposte da parte dell’apparato statale.
Il primo, esplicitamente orientato al colpo di stato, consisteva nella progettazione ed esecuzione di una serie di attacchi terroristici – come il caso paradigmatico di Piazza della Loggia – che cercavano di preparare il terreno sociale per un cambiamento militare e parafascista nel governo del paese.
La seconda, più democratica, consisteva nel generare un apparato poliziesco-legislativo ipertrofico – compresa la costituzione di un’autentica polizia politica, ancora presente in tutte le province italiane – che contenesse la creazione di nuovi mondi alternativi allo Stato.
Dopo il riflusso di quell’onda, la fine del secolo ha portato con sé un nuovo nemico: i migranti. La risposta disciplinare è stata immediata. Nel 1998, dopo una serie di riforme europee nell'area Schengen, gli allora ministri italiani dell'Interno, Giorgio Napolitano, e della Solidarietà Sociale (sic), Livia Turco, entrambi dell'area post-PCI, istituirono i primi CIE della storia in Italia. Un dispositivo di controllo sui migranti e sui poveri che sarebbe stato continuamente rafforzato, durante l’alternanza al governo tra centrosinistra e centrodestra.
Sulla stessa linea, dopo l'omicidio di Donatella Reggiani nel 2007 per mano di un uomo di nazionalità rumena, il governo di Romano Prodi ha approvato un decreto che regola l'espulsione dal Paese dei migranti provenienti dai Paesi comunitari. Un evento che scatenò un’intensa campagna mediatica contro l’immigrazione, culminata con l’approvazione, l’anno successivo, di un nuovo “pacchetto sicurezza”, questa volta da parte del governo Berlusconi: i consigli comunali avevano ora il potere di approvare misure riguardanti la “sicurezza urbana”, e la presenza fissa dei militari nelle città venne stabilita con la campagna Strade Sicure , tutt'ora attiva.
Negli anni successivi verranno varate diverse nuove leggi in materia di “sicurezza”, con personaggi di spicco come Marco Minniti, ministro dell’Interno nel governo di centrosinistra di Paolo Gentiloni, che nel 2017 promosse i famigerati accordi con l'erroneamente denominato “guardiano della zona costiera libica”, e ha implementato le basi giuridiche per perseguitare le organizzazioni dedite al salvataggio di persone in mare, un progetto che sarà portato avanti con enorme entusiasmo dal suo successore in carica, l’esperto giuridico Matteo Salvini.
Le politiche repressive del governo presieduto da Giorgia Meloni sono, sia a livello legislativo che di polizia, in linea con il lavoro svolto dai suoi predecessori.
Il contributo del governo Meloni: di più e meglio
Per comprendere il contesto attuale, è importante evidenziare il fatto che le politiche repressive del governo presieduto da Giorgia Meloni sono, sia a livello legislativo che di polizia, in linea con il lavoro svolto dai suoi predecessori.
Detto questo, è altrettanto evidente che la repressione statale in Italia sta subendo cambiamenti qualitativi, e sta diventando una priorità.
Basti pensare che il primo provvedimento approvato dall'attuale governo è stato il cosiddetto “ decreto anti-rave ” che, tra l'altro, ha ampliato l'applicazione del reato di invasione di terreni o fabbricati, inasprendo anche le relative sanzioni.
Dallo scorso autunno la maggioranza parlamentare guidata da Fratelli d'Italia ha approvato una serie di leggi a carattere repressivo. L’ultimo è il cosiddetto “pacchetto sicurezza”, un disegno di legge (DDL1660) presentato il 15 novembre dai ministri Piantedosi, Nordio e Crosetto, titolari rispettivamente dei portafogli Interno, Giustizia e Difesa, che in queste settimane è sottoposto al dibattito parlamentare .
Un momento interessante per analizzare l'immaginario politico che domina le maggioranze istituzionali, al di là delle misure concrete che verranno finalmente approvate, prevedibilmente prima della pausa estiva.
Le premesse sono chiare: secondo le dichiarazioni del governo, il tentativo è quello di colmare una presunta lacuna normativa in materia di effettiva prevenzione di atti, sabotaggi e forme di conflitto considerati “sovversivi”.
Riguardo all’immaginario che viene maneggiato, il disegno di legge 1660 introduce un inquietante neologismo, “terrorismo della parola”, descritto come un fenomeno “capace di alimentare […] la macchina del terrore internazionale, e capace anche di innescare la radicalizzazione” della violenza violenta che porta ad attività terroristiche."
Il problema, sembra, è che “è evidente […] la capacità e la velocità delle organizzazioni terroristiche di trascendere dalla dimensione concettuale a quella reale, soprattutto attraverso l’ostinata diffusione di una propaganda creata espressamente non solo per condizionare ideologicamente e psicologicamente potenziali affiliati, ma anche fornire loro “in patria” (sic) le motivazioni operative per passare – anche isolatamente – all’azione […] In questo terreno di conflitto asimmetrico, combattuto con parole, scritti, retorica e proselitismo, diventano fondamentali le politiche generali di prevenzione della radicalizzazione […] per poter incriminare la condotta di chi si procura o conserva consapevolmente materiale con contenuti destinati a commettere o preparare atti violenti o con finalità di terrorismo.”
Con tali presupposti chiunque possieda o diffonda, per iscritto o oralmente, contenuti idonei ad istigare atti o resistenze contro istituzioni o servizi pubblici è punito con la reclusione da due a sei anni. Una versione del vecchio reato di propaganda sovversiva, contenuto nel codice penale mussoliniano che all'epoca mandò in carcere migliaia di antifascisti e che ora sembra prendere di mira, tra gli altri, chi si organizza in solidarietà con la resistenza palestinese .
La proposta generale del disegno di legge risponde alla stessa logica di sicurezza dei suoi predecessori in materia, e i temi sotto i riflettori sono gli stessi di sempre: il nemico politico, i poveri e i migranti.
Come ha scritto Alessandra Agostino sulle pagine de Il Manifesto , “la criminalizzazione [del DDL1660] serve a delegittimare [l’azione dei soggetti], oltre che a giustificare la repressione di coloro che potrebbero mettere in crisi il modello egemonico neoliberista, permettendo anche di deviare e nascondere le responsabilità delle disuguaglianze sociali, della guerra e della devastazione climatica.
Non c'è traccia [nelle leggi in discussione] di sicurezza dal punto di vista sociale. La deriva autoritaria si consolida riaffermando le premesse del neoliberismo: le basi materiali della trasformazione sociale sono minate e la possibilità della sua rivendicazione è chiusa.
Gli ambiti specifici di applicazione delle norme proposte sono molteplici: non solo la dissidenza politica, la difesa del territorio e i flussi migratori, ma anche altri elementi più residuali come il commercio di cannabis leggera e la castrazione chimica per gli uomini condannati per stupro. Elementi che, nel loro insieme, rendono palpabile la fretta dell’attuale maggioranza parlamentare di delineare al più presto il proprio modello di società.
Prendiamo ad esempio la questione carceraria. Pochi giorni fa abbiamo denunciato la crisi infinita del sistema carcerario italiano, con una sovrappopolazione che in alcuni casi raggiunge il 200% e un aumento di rivolte e suicidi nelle carceri di tutto il Paese. La risposta del governo si è limitata alle misure contenute nel “pacchetto sicurezza”: inasprimento delle pene per il reato di rivolta carceraria ed estensione di questo reato per punire forme di rivolta simboliche e non violente. Il disegno di legge prevede anche l'inasprimento del reato di incitamento alla disobbedienza se commesso in carcere.
Infine, il Decreto Caivano, approvato lo scorso settembre, ha ampliato i casi in cui è possibile trattenere i minori in custodia cautelare e ha aperto alla possibilità della loro reclusione nei centri penitenziari per adulti. Misure che vanno di pari passo con la violenza con cui la polizia ha risposto negli ultimi mesi alle proteste di solidarietà con la Palestina, portate avanti soprattutto da giovani studenti .
Allo stesso modo si intende intensificare l’attacco contro un altro fenomeno derivato dai disordini sociali: l’occupazione delle case. Il DDL1660 propone così un nuovo reato: “occupazione arbitraria di immobili destinati ad abitazione altrui”.
Un attacco che non è diretto solo contro le persone colpite, ma anche contro i movimenti per la casa che si organizzano per sostenerle, poiché il reato proposto punisce esplicitamente "chiunque interferisca o collabori nell'occupazione dell'immobile".
La difesa del territorio sotto i riflettori
A chi osserva con un po’ di attenzione le lotte sociali attuali in Occidente non sarà sfuggito che esiste un ambito in cui le forze anticapitaliste riescono a coagularsi, a volte anche con un certo successo: le lotte in difesa dei territori.
In Italia, caratterizzata da un’altissima densità demografica (più del doppio di quella dello Stato spagnolo), l’estrattivismo si concretizza da decenni in macroprogetti: dal progetto TAV tra Torino e Lione, la cui opposizione per trent’anni ha dato vita ad un'autentica comunità di lotta , alla costruzione (per ora solo progettata) di un ponte sullo Stretto di Messina , compresa l'installazione di basi militari o di funivie. In ogni caso si tratta di progetti tanto inutili per le popolazioni autoctone, quanto dannosi per i territori in cui vivono.
Viene proposta un'aggravante per il reato di “violenza o resistenza all'autorità”, nel caso in cui sia commesso “al fine di impedire la realizzazione di un progetto pubblico o di un'infrastruttura strategica”
Non sorprende quindi che il nuovo disegno di legge sulla “sicurezza” miri a riformare elementi essenziali dei conflitti territoriali (ma non solo).
Si propone, così, un'aggravante per il reato di “violenza, minaccia o resistenza all'autorità”, nel caso in cui sia commesso “al fine di impedire la realizzazione di un progetto pubblico o di un'infrastruttura strategica”.
Il reato di lesioni all'autorità è esteso anche alle lesioni lievi o lievissime. Infine, la resistenza passiva diventerà un reato, se il disegno di legge verrà approvato. In poche parole, non solo il dissenso politico viene ulteriormente represso, ma anche il potere della polizia viene vittimizzato.
In un altro articolo del DDL1660 troviamo il “blocco ferroviario o stradale”, il reato creato durante il mandato di Salvini come ministro dell'Interno, e sopravvissuto alle riforme più che tiepide portate avanti dal successivo governo di coalizione tra Democratici e Movimento Cinque Stelle. Un esempio paradigmatico di diritto penale del nemico, poiché cerca di disattivare una forma di protesta che, sebbene sia stata resa popolare negli ultimi anni da diversi gruppi di attivisti per il clima, viene tradizionalmente portata avanti nell’ambito dei conflitti sindacali e delle proteste studentesche.
L'attuale disegno di legge prevede un'aggravante per questo reato se commesso in gruppo, tanto che, considerata la difficoltà di compiere un atto di questo tipo da soli, la pena “normale” potrebbe essere la reclusione da sei mesi a due anni.
Disciplinare (ancora di più) il lavoro migrante
Il 7 febbraio di quest'anno, in un naufragio nei pressi di Cutro, in Calabria, morirono 98 persone, di cui 35 bambini. Pochi giorni fa un giovane turco di 29 anni in qualità di presunto scafista è stato condannato a vent'anni di carcere, mentre lo Stato italiano, le cui responsabilità nella “tragedia” sono state dimostrate, ha salvato la situazione con condanne a sei agenti responsabili della sicurezza in mare .
A marzo, il Consiglio dei ministri italiano ha approvato, con un evento mediatico agghiacciantemente ipocrita, il cosiddetto “Decreto Cutro” sullo stesso luogo della strage. Un dispositivo giuridico, il cui obiettivo dichiarato è governare le migrazioni attraverso un doppio canale: maggiore apertura per i migranti “selezionati” e rimpatri accelerati per i restanti.
Si tratta di una risposta quasi diretta alla disperata domanda di manodopera da parte dei datori di lavoro – soprattutto nei settori della produzione agricola, dell’edilizia e della ristorazione – cresciuta in seguito alla ristrutturazione post-covid del mercato del lavoro. Allo stesso tempo, la legge riduce la protezione speciale per i rifugiati, accelera i processi di rimpatrio (rafforzando la rete dei Cie) e rende ancora più esclusivo il sistema di accoglienza. Come se non bastasse, il Decreto Cutro impedisce anche la conversione di alcuni permessi di soggiorno, rendendo molto difficile la stabilizzazione burocratica, e rafforzando così la precarietà.
Il DDL1660 aggiunge un ulteriore elemento a questo durissimo sistema di disciplina della vita dei migranti (e dei poveri), ampliando, come avevano fatto i precedenti Ministri dell'Interno, l'applicazione del daspo urbano , un ordine restrittivo emesso da una specifica città nei confronti di una persona per un certo periodo di tempo. Fatto importante: si tratta di un provvedimento amministrativo, non penale, quindi non è necessario che la persona in questione abbia commesso alcun reato, è sufficiente che non risieda in città e che le autorità competenti ne certifichino la “pericolosità sociale”. .” Nato nel tentativo di controllare i gruppi ultra negli stadi di calcio, negli ultimi anni l'applicazione del daspo è stata estesa a soggetti marginali (che ledono il “decoro”, prevalentemente), nonché per indebolire le politiche di lotta in territori specifici (per esempio, in prossimità di un CIE, di un carcere o del centro di una città turistica).
Infine, i sostenitori delle nuove leggi sulla sicurezza hanno riservato un attacco diretto alle donne rom, molte delle quali vengono spesso arrestate mentre cercano di rubare portafogli o telefoni nei centri urbani, di solito poi rilasciate perché trattate per reati minori e perché incinte o madri di bambini piccoli. Il nuovo disegno di legge consente l’incarcerazione delle madri, soprattutto se recidive, anche quando il crimine è minore e hanno bambini di età inferiore a tre anni a loro carico. In ogni caso, il giudice avrà il compito di valutare la possibilità di un confinamento che, fino ad ora, era totalmente vietato, nonché di decidere se sia più conveniente per il minore in questione trovare un'altra famiglia più adatta. Un provvedimento che legalizza il rapimento di bambini da madri migranti e povere.
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Considerato questo quadro desolante, chiunque sia arrivato a questo punto dell’articolo potrebbe chiedersi perché in Italia non sia in corso una massiccia rivolta contro il DDL1660. Le risposte possono essere molteplici e facili da indovinare per chiunque cerchi di organizzarsi politicamente, dal basso, anche nello Stato spagnolo: la smobilitazione generalizzata, l’alienazione del lavoro dipendente e della società dei consumi, la paura della classe media di perdere ciò che è stato realizzato o di frammentazione sociale.
Ma forse dobbiamo cambiare la domanda: perché il governo post-fascista ha bisogno di portare avanti tutte queste riforme, anche quando la legislazione repressiva, come abbiamo cercato di raccontare, era già solida al suo arrivo a palazzo?
In questo caso la risposta può essere una sola: perché, nonostante tutto, anche in Italia, dove fare politica sembra ogni giorno più difficile, qualcosa si muove dal basso; perché ci sono ancora (molte) persone, oppresse e solidali, che lottano per resistere, confrontarsi e costruire vite al di là della disciplina dominante.
fonte: (ESP) elsaltodiario.com - 3 agosto 2024
traduzione a cura de LE MALETESTE