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IN AFRICA. ITALIA/Responsabili in emergenza diritti umani - USA/Predatori di materie prime strategiche

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    LE MALETESTE
  • 4 giorni fa
  • Tempo di lettura: 8 min
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NIGER. Rifugiati rapiti e deportati dal centro nigerino di Agadez, sostenuto dall’Italia (VIDEO)


“Il 21 agosto sei rifugiati, tre donne e tre giovani uomini, sono stati arbitrariamente arrestati all’interno del centro umanitario di Agadez ”, ha denunciato a Fanpage.it uno dei rifugiati del campo, “le donne sono state separate dai loro bambini. Adesso non sappiamo più niente”. Il centro è stato finanziato dall’Italia.


A cura di Lidia Ginestra Giuffrida

29 agosto 2025


Sono le 10:30 dello scorso 21 agosto quando decine di uomini della National Gendarmerie e delle forze di polizia nigerine armati di fucili e manganelli, entrano nel campo “umanitario” di Agadez e rapiscono sei rifugiati.


Stando alle testimonianze di fonti nel campo, gli uomini che hanno effettuato gli arresti l’avrebbero fatto con l'uso della forza e in presenza di funzionari governativi della National Election Committee per l’idoneità per lo status di rifugiato del Niger (nota con l'acronimo CNE), che dal giorno degli arresti pattugliano il campo continuamente, “di notte a volto coperto”, come dichiarato dai rifugiati.


"Quel giorno quattro membri della CNE erano insieme alla polizia e giravano attorno al centro ed entravano nelle case. Hanno sfondato le porte di diverse abitazioni, al punto che i bambini hanno cominciato a urlare e piangere per la paura. Hanno terrorizzato i bambini e le donne in un modo inimmaginabile", spiega K.H.


Si tratta dello stesso centro inaugurato nel 2017 – nello stesso anno in cui l'allora ministro dell'Interno Minniti firmava un accordo che farà del confine Libia-Niger la frontiera d'Europa – finanziato dall’Italia attraverso il programma RDPP (Regional Development and Protection Program) North Africa, di cui è presente il logo nella stessa insegna del centro, con un protocollo d’intesa "sull’identificazione e il monitoraggio dei migranti e dei rifugiati nel contesto dei movimenti misti" che considera il Niger come "l’unico spazio alternativo per la protezione e le soluzioni per i richiedenti asilo e i rifugiati", come aveva già denunciato Fanpage.it lo scorso 22 gennaio.


Ironia della sorte, sei giorni dopo le sparizioni forzate dentro il centro di Agadez, UNHCR Italia pubblica un post su X scrivendo: “C'eravamo anche noi al Meeting di Rimini, al padiglione ‘Nessuna crisi è lontana' del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale italiano. L'occasione per raccontare quello che facciamo nel mondo, anche grazie alla collaborazione con la Cooperazione allo Sviluppo italiana”. Ad accompagnare la scritta una foto del padiglione “Niger, costruire opportunità nel deserto".


“Sei rifugiati, tre donne e tre giovani uomini, sono stati arbitrariamente arrestati con la forza militare all’interno del centro umanitario di Agadez il 21 agosto”, ha dichiarato a Fanpage.it I.Y., uno dei rifugiati del campo, “le donne sono state separate dai loro bambini, che sono soli qui nel campo. Da quando sono stati presi non sappiamo più niente, sappiamo però che sono stati deportati e non sono più qui ad Agadez”, continua.


Secondo l’UNHCR Niger – che dal 22 gennaio 2025 non ha mai risposto alla richiesta di intervista di Fanpage.it – nel campo di Agadez ci sono circa 1900 rifugiati al momento, di cui 450-500 bambini e bambine, 9 dei quali adesso soli – in seguito al rapimento delle loro madri.


Fanpage.it ha esaminato i filmati degli arresti, tra cui una clip che mostra un uomo fermato e caricato con la forza su un pick up. Grazie alle testimonianze dei rifugiati siamo riusciti a risalire alle identità delle persone scomparse: Mohamed Abdullah, Emad Younis, Abdullah Hashem, Zahra Daoud,  Zubaida Abdul Jabbar, Huda Musa Muhammad.


“Li hanno portati via con la motivazione che fossero difensori dei diritti umani e rifugiati e che stessero organizzando proteste pacifiche per rivendicare i loro diritti”, continua I.Y., che insieme agli altri rifugiati del campo da 340 giorni porta avanti una protesta pacifica permanente per chiedere migliori condizioni di vita nel campo, “la situazione nel campo di Agadez è molto difficile per i rifugiati dopo la massiccia incursione dello scorso 21 agosto. Siamo molto spaventati. Abbiamo anche ricevuto notizie da fonti vicine al governo nigerino secondo le quali esiste una lista di 13 persone che stanno per essere arrestate. Su questa lista ci sono anche io e K. H. (ndr. altra fonte di Fanpage.it)”.


I rifugiati hanno dichiarato che i sei arrestati sono stati prima condotti nelle celle della polizia locale ad Agadez,  il 22 agosto alcuni parenti avrebbero fatto loro visita, solo per scoprire che erano stati trasferiti sotto scorta a Zinder, una città nel sud-est del Niger a quasi 900 chilometri di distanza. "Adesso non è chiaro dove si trovino i nostri compagni, forse in Chad”, ha dichiarato K.H. “stiamo cercando di verificare le informazioni che riceviamo, ma non abbiamo ancora avuto nessuna risposta dalle autorità”.


In un post su X, Mary Lawlor, la Special Rapporteur dell’ONU per i difensori dei diritti umani, ha scritto: “Ho appreso notizie molto inquietanti sull'arresto e la detenzione in isolamento di sei attivisti, tutti rifugiati, in rappresaglia per il loro lavoro per i diritti dei rifugiati nei pressi di Agadez, in Niger, la scorsa settimana”. Ha chiesto poi all’UNHCR Niger e al ministero degli affari esteri nigerino il rilascio immediato dei sei rifugiati. Nessuno ha ancora risposto.


“Noi sappiamo che il governo italiano ha una responsabilità diretta su quello che l’UNHCR chiama ‘campo umanitario’ di Agadez”. L’Italia vuole intenzionalmente mantenere le persone nel deserto per evitare che arrivino sulle coste italiane. Nel campo è evidente che l’UNHCR beneficia del sostegno del governo italiano, ma non si prende cura dei bambini lasciati in mezzo al nulla, senza che vengano soddisfatti i loro bisogni fondamentali. Questa è una responsabilità diretta dell’Italia”, ha dichiarato a Fanpage.it David Yambio, portavoce di Refugees in Libia. “La maggior parte delle persone arrestate il 21 agosto erano con noi a Tripoli durante le proteste contro l’UNHCR: sono nostri fratelli e sorelle, vittime dirette degli accordi dell’Italia con la Libia. I.Y. era con noi a Tripoli e poi è stato deportato in Niger; K.H – invece – nel 2024 era in Tunisia a protestare contro l’UNHCR, poi è stato deportato in Algeria e quindi in Niger, con l’aiuto dell’Europa e del governo italiano. Per questo motivo continuiamo a lottare per i loro diritti e contro l’intero sistema di frontiera. Come Refugees in Libia, continueremo ad essere al loro fianco”.


“Chiediamo – conclude Yambio – che il governo italiano si impegni per l’immediato rilascio delle persone arrestate e la loro ricollocazione in un Paese sicuro. Se questa situazione accade è perché il governo italiano ha stretto accordi che tengono i rifugiati bloccati nel deserto, e perché è partner diretto nella gestione del campo”.



Fonte: fanpage.it - 29 agosto 2025



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Jeff Bezos e Bill Gates si prendono il litio del Congo devastato dalla guerra


di Enrica Perucchietti

30 agosto 2025


La Repubblica Democratica del Congo (RDC), da tempo al centro della contesa globale per le materie prime strategiche, ha concesso sette nuovi permessi di esplorazione a KoBold Metals, la compagnia statunitense sostenuta dai giganti della tecnologia e della finanza come Jeff Bezos e Bill Gates e che vanta anche il sostegno di fondi del calibro di Andreessen Horowitz e colossi minerari come BHP Group ed Equinor. Dopo anni di predominio cinese, il governo di Kinshasa apre così le porte alla società statunitense che promette di rivoluzionare la ricerca mineraria con l’intelligenza artificiale. 


Le nuove licenze riguardano vaste aree tra Manono (Tanganyika) e Malemba Nkulu (Haut-Lomami), comprendendo anche il maxi-giacimento di Manono, uno dei più grandi al mondo per litio. L’accordo quadro prevede l’esplorazione su oltre 1.600 km², con la prospettiva di trasformare la regione nel cuore della corsa al “nuovo petrolio” del XXI secolo: il litio, elemento imprescindibile per le batterie dei veicoli elettrici ma anche per pc, smartphone e altri dispositivi elettronici. 


I sette permessi concessi a KoBold Metals sono la cartina al tornasole di una partita più grande: la transizione energetica globale non è solo questione di tecnologia verde, ma il nuovo volto di una guerra economica che ridefinisce rapporti di potere e sfere d’influenza. La missione di KoBold è chiara: individuare depositi di litio, cobalto, nichel e rame – i mattoni fondamentali della green economy – combinando tecnologie avanzate di mappatura e modelli di analisi dei dati.


In questo contesto, Bezos e Gates non sono semplici investitori: rappresentano la volontà di un’élite tecnologica americana di entrare nel cuore della catena del valore delle materie prime, assicurandosi margini di controllo anche sull’approvvigionamento. L’azienda ha già notificato alle autorità congolesi la volontà di risolvere la disputa legale che oppone Kinshasa all’australiana AVZ Minerals, estromessa dal progetto Manono e ora in arbitrato internazionale. KoBold promette, inoltre, assunzioni e investimenti infrastrutturali, ma la domanda di fondo resta: Kinshasa saprà trasformare la ricchezza mineraria in infrastrutture, sanità, istruzione, sviluppo per la sua gente, o si limiterà a cambiare padrone, passando dalla dipendenza cinese a quella americana?


Negli ultimi vent’anni, infatti, la Cina ha investito miliardi nelle miniere congolesi, assicurandosi il controllo del cobalto e del rame – essenziali per le sue filiere tecnologiche. Nel 2008 venne siglato il cosiddetto «accordo del secolo»: una concessione di 25 anni estesa dal Paese al consorzio cinese Sicomines per l’estrazione di 10 milioni di tonnellate di rame e 600 mila tonnellate di cobalto


Ora, Washington tenta di colmare il divario, mobilitando il settore privato con il sostegno politico della Casa Bianca e promuovendo corridoi logistici alternativi, come quello di Lobito, sostenuto da USA e UE, per creare una rotta alternativa di export dai bacini minerari dell’Africa australe e ridurre la dipendenza dalle infrastrutture controllate da Pechino. Il governo congolese cerca di sfruttare questa competizione a proprio vantaggio ed è consapevole che la sua ricchezza mineraria lo pone in una posizione di forza, tuttavia, la fragilità delle istituzioni, la corruzione endemica e le tensioni interne rischiano di vanificare i vantaggi. L’est della RDC è, infatti, ancora devastato da conflitti armati. A Doha è stata firmata di recente una Dichiarazione di princìpi tra il governo congolese e la milizia M23, che da mesi controlla città chiave come Goma e Bukavu. L’accordo, salutato come «storico» da ONU e Unione Africana, prevede la fine degli attacchi e il ripristino dell’autorità statale, eppure, la tregua appare fragile. Troppi precedenti di accordi falliti, troppe fazioni armate, troppi interessi legati al controllo delle miniere. 


La ricchezza mineraria, più che generare sviluppo, ha storicamente alimentato guerre, disuguaglianze e saccheggio. La Repubblica Democratica del Congo è un esempio di come la ricchezza mineraria del suolo africano sia oggetto di interessi geopolitici e della pratica di land-grabbing, «l’accaparramento di terre». Dietro la narrazione dell’innovazione e della transizione ecologica si ripropone uno schema antico: capitale occidentale, risorse africane, comunità locali marginalizzate e sfruttamento del lavoro minorile. Il Paese produce oltre il 70% del cobalto mondiale e gran parte dell’estrazione artigianale avviene in condizioni disumane. Come ha rivelato il Washington Post nel 2016, i decessi sono frequenti, insieme alla mole di lavoratori sottopagati e minorenni sfruttati nelle miniere alla stregua degli schiavi: parliamo di bambini tra i 6 e gli 8 anni, sottoposti a condizioni estreme, con paghe infime e grossi rischi per la salute. Un recente caso giudiziario negli Stati Uniti ha mostrato la difficoltà di chiamare alle proprie responsabilità i giganti tecnologici. Nel processo Doe v. Apple Inc. (2024), un gruppo di ex minori feriti nelle miniere congolesi ha accusato aziende come Google, Apple, Microsoft, Dell e Tesla di trarre profitto dal cobalto estratto con lavoro forzato. La Corte d’Appello di Washington ha, però, assolto le multinazionali, sostenendo che il semplice acquisto di minerale attraverso catene globali di fornitura non basti a dimostrare la «partecipazione a un’impresa» con chi sfrutta il lavoro minorile. 


Un verdetto che, al di là del piano legale, mostra con feroce disincanto la realtà: l’Occidente proclama tolleranza zero verso lo sfruttamento, ma continua ad alimentare catene di approvvigionamento sporche, approfittando dei bassi costi e chiudendo un occhio di fronte alla violazione dei diritti umani e delle devastazioni ambientali. Finché il litio e il cobalto congolesi saranno contesi da élite globali e multinazionali, e i bambini continueranno a scavare nelle miniere per pochi dollari al giorno, la transizione verde avrà il colore del sangue e della miseria.


Fonte: lindipendente.online - 30 agosto 2025

 
 

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