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ITALIA/carceri. Suicidio in una casa di lavoro a Aversa, stupri e torture in carcere a Prato

  • Immagine del redattore: LE MALETESTE
    LE MALETESTE
  • 9 lug
  • Tempo di lettura: 5 min


Suicidio in una casa di lavoro

9 luglio 2025

AVERSA


«Internati si chiamavano gli ebrei nei campi, non sarà un caso. Cà nun s’esce mai». Con queste parole, nel maggio 2023, una delle persone sottoposte alla misura di sicurezza della casa di lavoro – un internato, appunto – provava a restituire a un gruppo di ricercatrici e ricercatori de La società della Ragione, la violenza e la profonda ingiustizia della misura di sicurezza detentiva per imputabili.


La casa di lavoro è una duplicazione della pena detentiva, che scatta per una sparuta minoranza di persone – le persone internate oscillano tra 200 e 300 in Italia, a fronte di una popolazione detenuta che negli ultimi anni varia tra 50.000 e 65.000 detenuti – dopo aver integralmente scontato la propria condanna. Una «integrazione dei mezzi repressivi», come la definiva il Guardasigilli Rocco, invenzione di un regime autoritario.


Queste poche persone – etichettate, con i termini lombrosiani e del positivismo criminologico che ancora albergano nel nostro Codice penale, «delinquenti abituali», «professionali» o «per tendenza»si trovano per un tempo indeterminato sottoposte a misure di privazione della libertà personale, in sezioni degli istituti penitenziari a loro dedicate, costantemente soggetti a possibili proroghe, a prescindere dalla propria condotta all’interno dell’istituzione.

Gli internati sono detenuti con minori diritti e con affievolita speranza. Addirittura nel codice si definiscono «di indole particolarmente malvagia».


Si chiamano case di lavoro, perché ambivano a rieducare attraverso il lavoro, arbeit macht frei era l’ideologia di fondo, ma – per quanto questa ideologia sia criticabile – oggi occorre rilevare che il lavoro, in casa di lavoro, non c’è e che, in queste strutture, non è infrequente che siano presenti persone inabili al lavoro.


Qualche giorno fa, il 3 luglio 2025, presso la casa di lavoro di Aversa, nel corso del Convegno “Delinquenti abituali, professionali o per tendenza – dall’art. 216 del Codice penale alla garanzia di appropriate risposte ai bisogni sociosanitari individuali”, il Procuratore generale della Corte d’appello di Napoli, Aldo Policastro, ha affermato che la misura di sicurezza «è archeologia criminale, è un intendere il rapporto tra società e devianza, nei termini della contenzione». Un concetto ribadito, in quel consesso, anche da Paola Cervo, magistrata di sorveglianza presso il Tribunale di sorveglianza di Napoli, che ha ricordato che le norme che disciplinano le misure di sicurezza sono «retaggio del legislatore fascista» e che risentono dell’impostazione di quel legislatore: «Per cui certe persone turbavano l’ordine sociale, turbavano il buon costume, la vita tranquilla dei consociati e quindi andavano prese e tolte di mezzo».


Contenzione, annientamento, esclusione, sembrano le parole chiave di questa misura che, come ha ricordato in numerose occasioni l’arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte, «dovrebbe far vergognare una democrazia fondata sui principi del rispetto della dignità di ogni persona e della solidarietà verso i più deboli, sanciti nella nostra Costituzione repubblicana».


Una misura che deve essere cancellata, senza indugi.


Nella scorsa legislatura e nell’attuale, l’on Magi ha depositato un disegno di legge (A.C. 158 – XIX legislatura), che prevede la cancellazione della misura di sicurezza detentiva per imputabili e la revisione della libertà vigilata, una proposta che deve essere ripresa e sostenuta da una più larga schiera di parlamentari e che dev’essere promossa da associazioni, attivisti e movimenti.


Intanto, la tragica realtà bussa alle nostre porte ed è notizia recente che una persona di quarant’anni nella casa di lavoro di Vasto si sia tolta la vita. È la trentanovesima persona a scegliere il suicidio nel sistema penitenziario italiano, dall’inizio dell’anno. Non si può tacere.


Fonte: fuoriluogo.it - 9 luglio 2025



Prato, parte l’inchiesta su stupri e torture in cella

Carcere senza sicurezza. Due episodi, in particolare, sotto la lente dei pm con reclusi sottoposti a ripetute violenze

PRATO


L’ultima operazione di polizia nel carcere pratese della Dogaia, ieri, è durata sette ore ed è arrivata a meno di dieci giorni dalla maxi perquisizione di fine giugno durante la quale le forze dell’ordine avevano sequestrato cellulari, router e sostanze psicotrope di ogni tipo. Fatti che avevano portato il 5 luglio a una mini sommossa nella sezione di media sicurezza.

Dalla procura si fa sapere che la situazione è fuori controllo, compresi stupri e sevizie. Anche grazie, come annota la magistratura requirente, «alla libertà di movimento dei detenuti in permesso e la compiacenza di alcuni agenti penitenziari».


Due gli episodi gravi sotto la lente della magistratura. Settembre 2023: un 32enne avrebbe violentato a più riprese il compagno di cella sotto minaccia di un rasoio. L’uomo è indagato per violenza sessuale aggravata. Un secondo fatto, tra il 12 e il 14 gennaio 2020, riguarda due detenuti di 36 e 47 anni che avrebbero torturato e stuprato per giorni un recluso tossicodipendente e omosessuale.

La vittima è stata brutalizzata con mazze, pentole bollenti, pugni e colpi in testa, costretto a subire rapporti sessuali ripetuti, a vivere in uno stato di terrore. Alle lesioni sono seguiti gravi traumi psicologici.


Nel carcere di Prato sono rinchiusi 576 detenuti, di cui 111 nel reparto di alta sicurezza. Sono stati trovati smartphone e router nascosti nei muri, nelle gambe dei tavoli, in doppifondi degli elettrodomestici e nel water. Al tempo stesso sono note le condizioni inumane della Dogaia, a partire da quelle igienico sanitarie con frequenti casi di scabbia.


Nel solo 2024 ci sono stati 4 suicidi e 200 atti di autolesionismo. Una situazione esplosiva, aggravata da annose carenze di organico sia fra gli agenti (270 invece di 360) che fra il personale sanitario, con pochi medici, infermieri, psicologi e assistenti sociali. «Quella di Prato è una situazione complessa – il commento del garante regionale dei detenuti, Giuseppe Fanfani – ma non è un caso isolato. Mi riferisco soprattutto al carcere fiorentino di Sollicciano e a quelli di Livorno e Pisa, luoghi dove regna un abbandono generale, mancano gli strumenti di controllo, il personale e talvolta la sicurezza. Per non parlare dei direttori che cambiano ogni pochi mesi».


Ad aggravare ulteriormente la situazione, l’assenza di una pur minima vivibilità fra sovraffollamento in tutti gli istituti di pena, caldo soffocante in estate e gelo e umidità nelle stagione fredda. Pochi giorni fa a Sollicciano un detenuto di 57 anni di nazionalità austriaca con problemi psichiatrici ma chiuso in una cella senza neppure un ventilatore, è morto a causa di un malore. Dopo i due suicidi di gennaio e febbraio, è stata la terza persona che ha perso la vita nel penitenziario quest’anno. «È molto triste vedere morire una persona così, da solo in cella», ha commentato il cappellano di Sollicciano don Stefano Casamassima. «Era un malato psichiatrico che in quella cella non ci doveva stare – ha tirato le somme Fatima Benhijji, presidente dell’associazione Pantagruel – avrebbe dovuto essere trasferito in una clinica psichiatrica visto il suo stato di salute».


Fonte: ilmanifesto.it - 9 luglio 2025

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