Sempre più persone soffrono la fame: guerre e crisi climatica bloccano i progressi
Fondazione Cesvi. Pubblicato il rapporto «Indice Globale della Fame 2024» che mostra un'inversione di tendenza rispetto ai miglioramenti degli ultimi decenni: «La lotta alla malnutrizione sta rallentando in modo preoccupante»
di Marco Pasi
12 nov. 2024
«Eventi climatici estremi e guerre hanno fatto crescere di oltre il 26% in appena quattro anni il numero di persone che soffrono la fame». Lo dice il rapporto “Indice Globale della Fame 2024” (o Ghi, Global Hunger Index), e non lascia molto spazio a interpretazioni: «I progressi mondiali per la lotta alla malnutrizione stanno rallentando in modo preoccupante».
Appena pubblicato dall’Ong tedesca Welthungerhilfe e dall’irlandese Concern Worldwide, l’edizione italiana è curata dal 2008 dalla Fondazione Cesvi e ad oggi rappresenta un riconosciuto strumento statistico per la raccolta di dati sulla fame nel mondo e sulla malnutrizione nei diversi Paesi.
Combina quattro principali indicatori nella popolazione: denutrizione, deperimento infantile, arresto della crescita infantile e mortalità infantile.
L’Indice è stato sviluppato per la prima volta nel 2006 dall’International Food Policy Research Institute e classifica i Paesi lungo una scala di 100 punti, più alto è il valore, peggiore è lo stato nutrizionale di quel Paese. Un valore pari allo 0 rappresenta una totale assenza di fame, poi si suddivide in cinque grandi fasce, con un’incidenza della fame che per ogni Paese può essere: molto bassa, moderata, grave, allarmante ed estremamente allarmante.
Quest’anno il punteggio dell’Indice Globale della Fame medio di tutto il mondo è stato registrato come livello moderato. Ma naturalmente la media tiene in considerazione anche i Paesi che sono vicini all’assenza totale di fame.
Infatti in 36 paesi dei 130 esaminati è stato riscontrato un livello di fame grave. In Somalia, Burundi, Ciad, Madagascar, Sud Sudan e Yemen, nonostante i miglioramenti in alcuni di questi, il livello di fame è addirittura registrato come allarmante.
Altro dato preoccupante: in quasi il 70% dei 130 Paesi presi in esame, la denutrizione non ha registrato miglioramenti o è addirittura aumentata.
L’Africa sub-Sahariana e l’Asia meridionale rimangono le aree regionali con i livelli di fame più alti del mondo, con punteggi Ghi attestati diffusamente a livello grave.
Eppure dei progressi erano stati compiuti nella lotta contro la fame, soprattutto tra il 2000 e il 2016. In quel periodo, il punteggio di Ghi globale è sceso di circa un terzo e su scala mondiale la fame è passata da grave a moderata, dimostrando quanto si possa fare in appena una quindicina d’anni. Da allora però i progressi si sono bloccati e in alcuni casi si sono registrate addirittura delle inversioni di tendenza.
«Con l’avvicinarsi del 2030, anno stabilito per il raggiungimento dell’obiettivo “fame zero”, l’Indice Globale della Fame 2024 mostra chiaramente che il mondo è ben lontano da questo traguardo cruciale. Di fatto, se si manterrà il ritmo registrato dal 2016 a oggi, il mondo non raggiungerebbe un livello di fame basso prima del 2160, ovvero tra più di 130 anni», si legge nel rapporto.
Ogni anno l’Indice, oltre a fornire l’aggiornamento dei dati sulla fame nel mondo a livello regionale, nazionale e locale, si concentra anche su un tema specifico «che ben rappresenta la multidimensionalità del problema “fame” e delle sue possibili soluzioni». Negli ultimi anni i focus hanno riguardato i legami tra fame e cambiamento climatico, tra fame e migrazione forzata, le disuguaglianze nell’accesso al cibo e il tema della fame nell’agenda 2030 delle Nazioni Unite.
Il report Ghi di quest’anno si concentra sull’importanza di affrontare la disuguaglianza di genere per raggiungere l’obiettivo «fame zero». Ne emerge che la giustizia di genere risulta essenziale per un futuro equo e sostenibile, ma deve essere costruita su dei punti concreti: la modifica delle norme di genere discriminatorie, l’assegnazione di risorse e opportunità per correggere le disuguaglianze di genere, e la riduzione del divario di genere nella partecipazione delle donne alla politica e nei processi decisionali.
Afferma infatti il rapporto: «Per ottenere un cambiamento reale, è cruciale garantire alle donne l’accesso alle risorse e affrontare le disuguaglianze strutturali come le dinamiche di classe e il controllo delle imprese sui sistemi produttivi».
L’esodo dal sud del mondo causato dal cambiamento climatico
Un brutto clima Un rapporto dell'Unhcr rivela che il cambiamento climatico è una minaccia crescente per le persone già in fuga da guerre, violenze e persecuzioni
di Unhcr
12 nov. 2024
Le persone costrette a fuggire da guerre, violenze e persecuzioni si trovano sempre più spesso in prima linea nella crisi climatica globale, avverte un nuovo rapporto, che le espone a una combinazione letale di minacce senza però avere i fondi e il sostegno per adattarsi.
Il rapporto, pubblicato oggi dall’UNHCR, l’Agenzia ONU per i Rifugiati, in collaborazione con 13 organizzazioni di esperti, istituti di ricerca e gruppi di rifugiati, utilizza i dati più recenti per mostrare come gli shock climatici stiano interagendo con i conflitti, spingendo coloro che sono già in pericolo in situazioni ancora più terribili.
Degli oltre 120 milioni di persone in fuga nel mondo, tre quarti vivono in Paesi fortemente colpiti dai cambiamenti climatici. La metà si trova in luoghi colpiti sia da conflitti che da gravi rischi climatici, come Etiopia, Haiti, Myanmar, Somalia, Sudan e Siria.
Secondo il rapporto – No Escape: On the Frontlines of Climate Change, Conflict and Forced Displacement – entro il 2040 il numero di Paesi che dovranno affrontare rischi estremi legati al clima passerà da 3 a 65, la maggior parte dei quali ospiterà rifugiati e sfollati interni. Allo stesso modo, si prevede che entro il 2050 la maggior parte degli insediamenti e dei campi di rifugiati sperimenteranno il doppio dei giorni di caldo estremo.
“I cambiamenti climatici sono una dura realtà che incide profondamente sulle vite delle persone più vulnerabili del mondo”, ha dichiarato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. “La crisi climatica sta provocando sfollamenti in regioni che già ospitano un gran numero di persone sradicate da conflitti e insicurezza, aggravando la loro situazione e lasciandole senza un luogo sicuro dove andare”.
Ad esempio, il devastante conflitto in Sudan ha costretto milioni di persone a fuggire, tra cui 700.000 che hanno attraversato il Ciad, Paese che ha ospitato rifugiati per decenni e anche uno dei Paesi più esposti ai cambiamenti climatici. Allo stesso tempo, molti di coloro che sono fuggiti dai combattimenti ma sono rimasti all’interno del Sudan rischiano di essere costretti a fuggire di nuovo a causa delle gravi inondazioni che hanno colpito il Paese.
Allo stesso modo, il 72% dei rifugiati del Myanmar ha cercato sicurezza in Bangladesh, dove i rischi naturali, come cicloni e inondazioni, sono classificati come estremi.
“Nella nostra regione, dove tante persone sono sfollate da molti anni, vediamo gli effetti del cambiamento climatico sotto i nostri occhi”, ha dichiarato Grace Dorong, attivista per il clima ed ex rifugiata che vive in Sud Sudan. “Spero che le voci delle persone contenute in questo rapporto aiutino i decision-makers a capire che, se non si affronta il problema, il numero di persone in fuga – e l’effetto moltiplicatore del cambiamento climatico – aumenteranno e peggioreranno. Ma se ci ascoltano, anche noi possiamo essere parte della soluzione”.
Il rapporto evidenzia anche che i finanziamenti per il clima non riescono a raggiungere i rifugiati, le comunità ospitanti e altre persone nei Paesi fragili e in guerra, per cui la loro capacità di adattarsi agli effetti dei cambiamenti climatici si sta rapidamente deteriorando.
Attualmente, gli Stati estremamente fragili ricevono solo circa 2 dollari USA a persona in finanziamenti annuali per i piani di adattamento, una carenza sorprendente se confrontata con i 161 dollari a persona negli Stati non fragili. Quando gli investimenti raggiungono gli Stati fragili, oltre il 90% è destinato alle capitali, mentre gli altri luoghi ne beneficiano raramente.
I risultati sono stati pubblicati durante la COP29 a Baku, in Azerbaigian, dove l’UNHCR chiede che i finanziamenti per il clima raggiungano i più bisognosi in percentuali più alte. L’agenzia per i rifugiati esorta inoltre gli Stati a proteggere le persone in fuga, che devono affrontare l’ulteriore minaccia dei disastri climatici, e a dare voce a loro e alle comunità che li ospitano nelle decisioni finanziarie e politiche.
“L’emergenza climatica rappresenta una profonda ingiustizia”, ha dichiarato Grandi. “Le persone costrette a fuggire, e le comunità che le ospitano, sono le meno responsabili delle emissioni di carbonio, eppure stanno pagando il prezzo più alto. I miliardi di dollari di finanziamenti per il clima non arrivano mai a loro e l’assistenza umanitaria non riesce a coprire adeguatamente il divario sempre più ampio. Le soluzioni sono a portata di mano, ma è necessaria un’azione urgente. Senza risorse e sostegno adeguati, le persone colpite rimarranno intrappolate”.
Questo è il primo rapporto dell’UNHCR sul clima ed esplora l’intersezione tra clima e sfollamento, le lacune negli attuali finanziamenti per il clima, il futuro della protezione legale per le persone colpite e la necessità di investire in progetti di resilienza in contesti fragili e colpiti da conflitti.
Per produrre questo rapporto, abbiamo unito le forze con 13 organizzazioni di esperti, istituti di ricerca e organizzazioni di rifugiati.
L’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha un team di esperti alla COP29 di Baku per garantire che la situazione degli sfollati e il loro urgente bisogno di protezione, finanziamento e sostegno siano inclusi nelle discussioni e nelle decisioni durante il vertice.
Fonti: ilmanifesto.it - 12 nov. 2024