IAIN CHAMBERS. La lente coloniale che deforma Gaza
- LE MALETESTE

 - 5 giorni fa
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Colonialismo è concetto impronunciabile ancora in molti contesti, ma non è storia del passato. La Palestina è il laboratorio insanguinato della modernità
di Iain Chambers*
29 ottobre 2025
Nonostante i buffoni di corte, gli opinionisti e l’ufficio stampa della Rai propongano dichiarazioni grottesche per negarlo, la descrizione della situazione a Gaza come genocidio, confermata da istituzioni e voci assai più autorevoli, circola ormai da mesi nella sfera pubblica.
Nel registrare questo fallimento politico e intellettuale della classe dirigente italiana (e, più in generale, europea e occidentale), sarebbe ora di fare un ulteriore passo in avanti e spostare la questione su un altro piano, al fine di contestare la brutale occupazione del nostro linguaggio e il suo utilizzo per giustificare i crimini contro l’umanità perpetrati da Israele e dall’Occidente.
Insistere sulla parola chiave «colonialismo» ci permette di aprire la situazione atroce nel Mediterraneo orientale a una nuova narrazione e a una serie di considerazioni storiche e critiche che ci portano ben oltre la banalità del male che sostiene le spiegazioni attualmente in voga.
Semplicemente, il fatto che il concetto di colonialismo non sia permesso negli studi televisivi, nei dibattiti parlamentari, sulla stampa, e spesso nei senati accademici, ci allerta su qualcosa di disturbante dal punto di vista lessicale e politico. Ricordare la costituzione coloniale del presente, del nostro presente, che emerge in maniera inequivocabile dalle macerie di Gaza, ci spinge a interrogarci sull’assetto delle attuali relazioni politiche, culturali ed economiche che inquadrano il mondo rispecchiando una prospettiva unica.
È comodo pensare che il colonialismo, come un capitolo storico, sia stato superato e relegato ai margini della storia europea, finendo nel dimenticatoio del passato. Ma forse il tempo storico non è semplicemente lineare. Qualsiasi analisi del passato è sempre un atto contemporaneo, sostenuto e sospeso da linguaggi attuali che permettono alla storia di apparire tra noi. In questa maniera, il passato continua a interrogarci, ponendo domande contro ogni tentativo di addomesticarlo a fini puramente politici e strumentali. Ridurre la storia esclusivamente al nostro modo di vedere comporta la negazione dei diritti degli altri. Così, la narrazione dei vincitori occidentali passa come l’unica e perciò universale. Questo schema rappresenta un vero fallimento storiografico, filosofico e politico.
Dinanzi all’arroganza dell’Occidente, che difende azioni indifendibili dello Stato d’Israele non solo dal 2023 ma da decenni, ci troviamo di fronte al continuum coloniale. In altre parole,
il colonialismo non è un evento storico concluso, ma un processo aperto che continua ad appropriarsi delle ricchezze e delle risorse del pianeta, perseguendo l’imperativo del capitale e creando una gerarchia razziale del mondo per giustificarlo.
Ormai senza pudore, alla luce del sole, il nesso intrinseco tra colonialismo, capitalismo e razzismo, per cui alcune vite contano più delle altre e la difesa della supremazia bianca è sempre più esplicita, si manifesta in tutta la sua brutalità. In questo scenario atroce, la Palestina si presenta come il laboratorio insanguinato della modernità. Proposta e spiegata come una «questione» intrinsecamente violenta e irrisolvibile, Gaza e la Cisgiordania tradiscono la continuità coloniale che ha sostenuto il nostro «progresso» da cinque secoli. Nel frattempo, le aziende edili italiane, inglesi… si stanno preparando per la ricostruzione di Gaza.
Introducendo nel dibattito pubblico il concetto di colonialismo come chiave per liberare il presente dalla brutalità della narrazione dominante, ci permette anche di uscire dalla claustrofobia del momento, che ci sommerge nei dettagli dei complotti di potere, senza arrivare alle profonde strutture che regolano la formazione del mondo contemporaneo. Nella percezione dello spazio-tempo della modernità, in cui i parametri consueti confermano solo la nostra sovranità, dobbiamo renderci conto che
le pretese globali del capitalismo e lo sterminio delle popolazioni indigene e «inferiori» sono stati il dispositivo centrale per stabilire, economicamente, politicamente e filosoficamente, la modernità occidentale come misura del mondo.
Ormai è chiaro che tale ordine, come Frantz Fanon sosteneva molti decenni fa, deve essere smontato e le sue pretese universalistiche abbandonate. Così i suoi frammenti vengono liberati per essere configurati in prospettive più aperte e democratiche.
Se chiaramente non esiste più una realtà esterna alla modernità, dobbiamo scavare più a fondo nelle nostre rovine, ascoltare le storie che resistono e si rifiutano di passare, per smontare, deviare e declinare i linguaggi che cercano di catturarci – dalla politica alla poetica – per trovare percorsi e prospettive inaspettate, dirompenti e non autorizzate.
Per quanto riguarda l’autorità politica e culturale che sostiene la colonialità del presente, sarebbe opportuno ricordare la dichiarazione fatta nel 1957 dall’intellettuale ebreo-tunisino Albert Memmi, secondo cui ogni forma di colonialismo è una forma di fascismo.
Fonte: IL MANIFESTO (https://ilmanifesto.it/la-lente-coloniale-che-deforma-gaza) - 29 ottobre 2025
*Iain Chambers è uno scrittore e ricercatore indipendente. I
n passato ha insegnato studi culturali e postcoloniali del Mediterraneo presso l’Università di Napoli L’Orientale. Le sue pubblicazioni includono Le molte voci del Mediterraneo (2007) e Mediterraneo Blues (2020). Con Marta Cariello ha pubblicato La questione mediterranea (2019). Nel 2022 è stato membro del collettivo «Jimmie Durham & A Stick in the Forest by the Side of the Road» che ha partecipato a Documenta Fifteen. Scrive regolarmente per il Manifesto.
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