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francesca gargallo

Escritora, caminante, madre de Helena, feminista autónoma que desde el encuentro con mujeres en diálogo ha liderado acciones para la buena vida de las mujeres en diversos lugares del mundo.

25 novembre 1956, Siracusa, Italia / 3 marzo 2022, Città del Messico, Messico)


 
 

                                                                 Che cada come un'ancora la vita

 

Che cada come un’ancora la vita.
Purché non s’incagli e non rompa
fragili equilibri marini
né trascini coralli conchiglie anemoni
che salga e scenda mille volte
dalle profondità alla plancia.
Tu, mio piccolo fiore di mare, non temerla,
stai al gioco.

                                                               

La strada è di chi la cammina

 

Sono nata viandante
        ombra di un treno sulle more e i rovi
           scia di una nave.
Mi vive ciò che ancora non conosco e che ho percorso
l’aria briosa delle Ande
                      il mare dei Caraibi
                           la notte in una città d’inverno.
Allora prendo la mano che tinge le strade,
le ordino una scritta che si veda da molto lontano:
La strada è di chi la cammina,
                                       ogni frontiera è un’assassina.
Risparmio un peso dopo l’altro e una prima mattina
giro la maniglia, chiudo piano la porta
e me ne vado con il tempo del passo
sul suolo che è di tutte.

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«Se rincontrassi ora l’amica che non vedo dai tempi del liceo pubblico Alessandro Manzoni di Roma, se il ritrovarci fosse molto emozionante – diciamo tra un mio volo in Bolivia e uno dei suoi da Haiti – e se lei mi chiedesse di raccontarle in una lettera cosa ne è stato della mia vita durante i quarant’anni che non ci siamo viste, probabilmente le scriverei quanto segue:

Come sai, non ho mai obbedito agli ordini. All’inizio era un atto involontario: ricordi come mi davano fastidio i vestiti che mi imponeva mia madre, quanto poco mi importava della mia uniforme scolastica, la paura dei miei genitori che mi paralizzava e, allo stesso tempo, mi spingeva a sfidarli, le prime sigarette all’uscita da scuola e i sorsi di vino che bevevamo assieme all’ombra di un pioppo vicino alla fermata dell’autobus, alle due del pomeriggio, dovendo farlo in fretta perché ci aspettavano a casa. Ci sentivamo ribelli, tu venivi dalla Calabria e io dalla Sicilia, avevamo dodici anni ed era il 1968.

Forse più che disobbedire, non potevo fare a meno di vedere e sentire ciò che gli altri facevano finta che non esistesse. Come quando ho detto ad alta voce durante un pasto all’amico molto ricco di mio zio di smettere di molestare mia cugina. Era più piccola di me e sentivo il dovere di proteggerla; il vecchio la faceva piangere quando la sera, dicendo di andare a “salutare i bambini”, le metteva la mano sotto il pigiama. Mia zia, l’idiota, faceva finta di non sentire, ma io cominciai a dormire nella stanza di mia cugina e ogni volta che il vecchiaccio entrava, facevo un tale casino che dopo un po’ smise di “visitare i bambini”.

Naturalmente per la cultura borghese della dissimulazione ero insopportabile, una donna incapace di mantenere la sua compostezza. Tuttavia, piacevo ai miei nonni materni, soprattutto a nonna Gilda. Era rimasta orfana di madre in tenera età e era stata cresciuta dagli uomini, quindi cercava in ogni donna qualcosa che le ricordasse chi era. Ed era simpatica, mia nonna Gilda. Diceva che qualsiasi cosa facessi andava bene, purché la facessi col sorriso. Per mia nonna, sorridere indicava due cose: la propria felicità, che era importante, ma ancora più importante era il piacere di fare qualcosa con o per altre persone. Diceva che chi sorride dimostra di avere a cuore gli altri esseri umani.

Anche se è difficile sorridere di fronte alle proprie avversità e alle ingiustizie e discriminazioni che la maggior parte delle persone soffrono nel mondo. Molto prima di vedere i militari salvadoregni puntare le armi alla porta di una chiesa dove il prete aveva dato rifugio a un’intera comunità rurale, molto prima di capire come le autorità messicane manipolavano i diritti dei lavoratori e trasformandoli in elemosine di partito, quando vivevo ancora in Italia, mi era difficile sorridere agli insegnanti che, scherzando, ma in classe e davanti ai miei compagni maschi, mi facevano capire che stavo studiando per niente, perché il mio destino era sposarmi e avere figli. Stringevo forte la mascella quando aggiungevano: “carina come sei, non sarà difficile…”. Prima di incontrare altre donne disobbedienti come me, non pensavo di poter dire loro che si sbagliavano, che la loro logica, la loro etica e la loro estetica erano definizioni pedanti di chi non ha aperto gli occhi sulla realtà.

Grazie a loro e alle regole della mia famiglia non mi sono mai sposata, ho viaggiato con qualsiasi pretesto, ho scritto quello che volevo, ho instaurato dialoghi con tutte le donne ribelli che ho incontrato nella vita e ho avuto una figlia. Sì, la nascita di mia figlia è legata alla storia di come mi sono liberata in Messico, di come dissi al padre di mia figlia che non volevo sposarmi, che volevo vivere con lui fino a quando fosse durata, e di come con le mie amiche abbiamo costruito un mondo – un micromondo forse, ma comunque un mondo – di molte famiglie possibili. Tutte queste cose sono successe dopo che lasciai l’Università di Roma con la mia laurea in filosofia con lode. Ho studiato tanto anche perché era un modo per disobbedire ai mandati culturali dei miei insegnanti.

Arrivai in Messico con un libro di racconti appena pubblicato sottobraccio, quando avevo appena compiuto 23 anni. La burocrazia italiana e quella messicana entrarono in cortocircuito e non potei iscrivermi subito a un master: mancava sempre qualche documento. Così iniziai a fare vari lavori, davo lezioni di lingua, traducevo documenti in italiano e francese, e mi iscrissi ad alcuni corsi all’università privata “Iberoamericana”, gestita da gesuiti. Io, che in Italia cambiavo di marciapiede per non passare vicino a una suora o a un prete, perché pensavo che portassero sfortuna, in Messico capii che c’erano persone coinvolte nella realtà a causa del loro credo religioso. E che erano molto disobbedienti ai comandi di Roma. Non mi hanno convertito, ma hanno aperto la mia visione del mondo. Per il resto, seguii buoni corsi di storia e arte mesoamericana, un corso di sociologia latinoamericana e le mie prime lezioni di economia politica.

Mentre arrivavano le scartoffie con la laurea in filosofia, la rivoluzione sandinista che aveva appena trionfato nel luglio 1979 riempiva tutte le mie ansie e fantasie. Così un giorno presi un camión – nel suo significato messicano, quindi un autobus e non una macchina da carico – e andai tremila chilometri più a sud.

In Nicaragua tutti sorridevano, anche i militari, che erano ragazzini e ragazzine dagli occhi neri, belli come il sole, frivoli come un giorno di vento e disposti a fare qualsiasi cosa per aiutare qualsiasi loro connazionale. I nicaraguensi avevano un modo speciale di mostrare a una donna che gli piaceva. Le spiattellavano, in coda all’autobus, in mezzo alla campagna, in ufficio o mentre ballavano stretti, la frase che più eccitava la mia ribellione contro il destino manifesto di tutte le donne: “Voglio avere un figlio con te”. Una sera, abbastanza presto per i miei orari italo-messicani – le feste andavano dalle 16 alle 23, poi tutti a dormire – durante i festeggiamenti per la fine di un raccolto collettivo di foglie di tabacco, ballavo stretta a un comandante bellissimo, eroico come Ares, almeno secondo lui e i suoi accoliti. Ero affascinata, naturalmente. Quando al bruto gli uscì la frase che voleva avere un figlio con me. A quel punto, improvvisamente liberata da tutte le paure che da anni mi impedivano di dire esplicitamente quello che volevo dire, cominciai a criticare la frase, argomentando che da quando esistevano i preservativi i rapporti sessuali non erano necessariamente legati alla riproduzione, che la donna aveva diritto al piacere libero dal rischio di rimanere incinta e, infine, che avrebbe fatto bene imparare a masturbarsi. In tutto questo, anche la musica si era interrotta e donne e uomini mi guardavano gli uni con panico e le altre con interesse. La mattina dopo fu organizzato il primo gruppo di autocoscienza femminista a Matagalpa.

Nel corso degli anni mi sono resa conto che la necessità di esplicitare le differenze da qualsiasi modello imposto è inscritta nel corpo delle donne, che è un corpo storico e un corpo materialmente simbolico. Noi donne possiamo contestare una norma incontestata su come donne e uomini dovrebbero essere (il che implica le relazioni economiche, gli accordi politici, l’organizzazione sociale del lavoro, il diritto all’affetto, e qualsiasi altra cosa), perché solo noi abbiamo vissuto in ogni situazione della nostra vita le conseguenze dell’essere escluse dall’autorità che avalla le norme. E queste conseguenze possono essere sia dannose che molto liberatrici, perché ci permettono di vedere l’autorità, il suo potere, dall’esterno. Insomma, in Nicaragua imparai a rispondere agli uomini che mi spiattellavano che tutti i maschi sono stati educati dalla madre, che quella madre non li aveva educati, ma aveva trasmesso loro, senza possibilità di cambiarli, i modelli di comportamento che il sistema le aveva imposto fin da bambina. L’educazione richiede libertà di ricerca e di espressione, si basa sulla creatività, ma sono queste azioni elementari che non sono permesse alle donne.

Qualche mese dopo, il caldo del Nicaragua mi sconfisse. Era umido e durava tutto l’anno. Non potei sopportarlo. Non sapevo che i “contras”, cioè le truppe controrivoluzionarie finanziate dal governo di Reagan, secondo un programma del suo capo della CIA, George Bush senior, stavano per entrare in azione, seminando morte dove prima crescevano tabacco e caffè. I comandanti dei contras, così come Bin Laden per le sue azioni terroristiche contro i sovietici in Afghanistan, Reagan li chiamava “combattenti per la libertà”.

Tornai in Messico. Scrissi il mio primo romanzo. Trovai un editore. Mi unii alla solidarietà con la lotta di liberazione del popolo salvadoregno. Mi avvicinai, sempre da una prospettiva molto indipendente, alle femministe messicane e mi unii a un gruppo di autocoscienza femminista con rifugiate politiche cilene, argentine, uruguaiane e guatemalteche. Tutte insieme fondammo un gruppo di sostegno per le donne centroamericane. Mi innamorai anche di una poetessa uruguaiana, ma era troppo intimista nelle sue espressioni e aveva una ragazza. Avevo bisogno della logorrea della narrazione, ero in un momento rivoluzionario e, ai miei occhi, il Messico in quegli anni sembrava una festa.

Naturalmente mi sbagliavo di grosso. Il Messico copriva la repressione dei popoli indigeni e dei contadini, dei movimenti popolari, dei sindacati indipendenti, delle lesbiche, dei gay e delle donne sole con una retorica fenomenale e con la sua storica solidarietà con i rifugiati del mondo. Ma avevo 25 anni ed ero appena entrata all’Universidad Nacional Autónoma de México dove studiavo quello che volevo e dove tutte noi studentesse avevamo il diritto di intervenire, di proporre letture, di intraprendere analisi. Non avevo mai studiato così bene, né con tanta passione. Un maestro, Jorge Ruedas de la Serna, mi disse che ero destinata a scrivere in spagnolo e decise di insegnarmi a farlo: per un anno, ogni settimana mi diede un classico della letteratura latinoamericana, da María di Jorge Isaac a Estaba la pájara pinta sentada en el verde limón di Albalucía Ángel. Ogni settimana dovevo portargli la mia scheda di lettura su tre fogli di carta affinché lo correggesse. Non lo ringraziai mai per quello che fece per me. Solo Marta Lamas, la femminista messicana con cui più ho discusso, perché abbiamo alcune posizioni molto contrastanti, fece qualcosa di simile con me: un pomeriggio mi spiegò quando “aún” è accentato e quando non lo è. E il mio amico Coquena, cioè Rosario Galo Moya, e l’appassionato traduttore e poeta argentino Eduardo Molina y Vedia: con loro e con il fumettista e cronista Luis de la Torre leggevamo ad alta voce i testi narrativi che producevamo. Era una attività entusiasmante, al quale si unì un gran numero di giovani donne e uomini nel seminterrato di un club di scacchi, El Alfil Negro. Un ciclo di riunioni settimanali durate un lustro.

In questo modo così collettivo, lo spagnolo divenne la mia lingua. La lingua con cui mi faccio capire, scrivo, cullo mia figlia per addormentarla, mi unisco a reti di donne scrittrici, dico ai miei amanti quanto mi piacciono.

Finì il master, pubblicai un secondo e un terzo romanzo, mi iscrissi al dottorato. Sempre in Studi Latinoamericani, l’antesignano della disciplina che negli Stati Uniti acquisí il nome di Cultural Studies, cioè studi veramente interdisciplinari, dove la filosofia ha la possibilità di pensare a partire da altri strumenti concettuali di approccio alla realtà per stabilire un dialogo trasformatore. Ebbi due grandi maestri e una maestra: Don Leopoldo Zea, con la sua sorprendente filosofia della storia nazionalista-antiimperialista-latinoamericanista e un po’ esistenzialista; Horacio Cerutti, che continua ad essere il mio riferimento intellettuale più ammirato; e la femminista Graciela Hierro, una filosofa dell’etica utilitaria che sosteneva il superamento della discriminazione delle donne a beneficio di tutta l’umanità, la cui morte ancora mi offende. La verità è che tutti e tre erano molto sorridenti; forse è questa la ragione della loro forza.

Il Messico mi sembrava una festa anche perché in quegli anni cominciai a scrivere per Excélsior e a preparare una tesi sulle trasformazioni del comportamento delle donne causate dalla loro partecipazione alla guerra in El Salvador. Andando e venendo dall’America Centrale, dove un assassino come il guatemalteco Ríos Montt poté compiere un genocidio di più di 200.000 persone in otto mesi, e dove i governi e i militari uccidevano civili e militanti come se piovesse, arrivare in Belize o tornare in Messico era come raggiungere un’oasi dopo aver attraversato il deserto. Ricordo la fame, la paura, la rabbia, la volontà delle persone che intervistai in quegli anni. Le insegnanti salvadoregne mi parlavano dei loro studenti e della loro volontà di trasformare la società; le contadine lenca in Honduras mi raccontavano la storia della repressione militare nel loro paese, dove le organizzazioni non potevano nemmeno alzare la testa perché appena appariva un leader veniva assassinato; le madri e le giovani ragazze cachiquel e quiché in Guatemala mi colpivano perché potevano raccontare storie di brutali massacri di cui erano state testimoni o vittime con lo sguardo perso di chi non può più piangere. Da allora cominciai a rivendicare la mia identità mesoamericana, a sentire mio il territorio della tortilla, a preferire il dibattito con le lavoratrici della mia terra a qualsiasi discorso accademico.

Quando durante gli anni ’90 i guerriglieri centroamericani firmarono trattati di pace con i governi dei loro paesi, la mia vita divenne molto più messicana, urbana e rilassata; cominciai a vagare tra gallerie e studi di pittori e pittrici. Io che non sono capace di disegnare nemmeno una casetta, posso perdermi nel tratto di un braccio che si muove su una tela o nel gocciolare dei pigmenti su un pavimento. Orizzonti tracciati con una sola linea, nelle sintesi pittoriche di Carlos Gutiérrez Angulo; l’opacità curva di un corpo ricaricato nel suo gesto, come lo plasma nei suoi murales Patricia Quijano; il movimento che diventa una danza sulla carta imbevuta di inchiostro nei disegni di Guillermo Scully; la cottura del colore e delle sabbie per esprimere un proposito ecologico nelle pesanti tele di Gabriela Arévalo: non c’è pittrice o pittore il cui dipingere non mi abbia fatto innamorare. Ne tentativo di dialogo tra pittura e letteratura che io non abbia sperimentato. Dall’inventare racconti per bambine e bambini per accompagnarli con disegni significativi, all’esplorare biografie della vita plastica di creatori tellurici come Carlos Gutiérrez Angulo. Rinuncio a tutta la musica del mondo per un buon tratto, divento sorda per poter continuare a vedere come il senso del mondo si esprime in una macchia. Ho sempre concepito un buon quadro come una poesia: una sintesi nel cui equilibrio niente ha il diritto a essere di troppo.

Da lì a che il padre di mia figlia fosse un pittore il passo fu breve. E la maternità, messa in discussione e rifiutata durante la gravidanza, divenne un canto di gioia una volta che partorii. Poi fu il momento dei viaggi con mia figlia, il mio desiderio che conoscesse il mondo e i suoi brutali contrasti, accompagnata da me e da altre donne, amiche miei, zie sue: la famiglia, quando non è una convenzione, è una rete di affetti. Per nove anni condividemmo la casa con la poetessa honduregna Melissa Cardoza, che raccontava a Helena storie sempre nuove che la bambina disegnava sulla lavagna regalatale da sua zia Montse, ovvero l’editrice del Belize Montserrat Casademunt, un’altra delle tenere figure della sua infanzia.

Le donne che usano la maternità come scusa per non realizzarsi fanno un grande danno alle altre donne, poiché le spingono a rifiutare un’esperienza totalmente femminile, tellurica, vitale, generosa, anche se non necessaria o necessariamente desiderata da tutte, e a trasformare la realizzazione personale in uno spazio di mascolinizzazione. Lo so perché odiai essere incinta per la paura che mi provocava la figura della madre senza possibilità di trascendenza. Fin dalla mia infanzia, avevo affermato che non volevo essere madre, che non lo sarei mai stata. Poi fu difficile spiegare a me stessa perché rimasi incinta, perché non abortii e perché scelsi un parto naturale e di allattare mia figlia per un anno e mezzo. Senza dubbio l’allattamento al seno fu la scelta più facile: provoca il piacere fisico più intenso e orgasmico che abbia mai provato in vita mia.

Quando Helena aveva un anno e mezzo percorremmo l’arco della Gran Chichimeca per poter scrivere La decisión del capitán, il mio romanzo su Miguel Caldera, un personaggio maschile nel quale mi identificai per i suoi fallimenti: visse cercando la pace e facendo la guerra, combattuto tra l’essere figlio di un soldato castigliano o della madre chichimeca, un meticcio incapace di scegliere un capostipite, ma in dialogo con le sue sorelle, amici e fratelli. A un anno e mezzo, Helena cavalcava mule e asini senza mai stancarsi, e se non c’era un animale a disposizione, la portavo io sulle spalle per percorrere le colline, i burroni e le zone desertiche del Tunal Grande. Da allora amiamo viaggiare insieme e quello che io non noto, lei me lo fa notare.

Poi venne Marcha seca, un romanzo ambientato nello stesso territorio 450 anni dopo, quello che ho scritto con più angoscia; e le storie di Verano con lluvia. Poi un grande vuoto letterario, una desolazione della parola, la morte delle idee. ….

Melissa cercò di consolarmi; due care amiche, Eli Bartra in Messico e Edda Gabiola in Guatemala, mi chiesero di redigere lunghi articoli sulla storia delle idee femministe per spingermi a scrivere di nuovo; con la straziante poesia del kosovaro Xhevdet Bajraj sentii nuovamente l’emozione della lettura; ma, tutto sommato, non tornai a sentirmi di nuovo felice. Nemmeno quando finii un libro che considero molto importante, Ideas feministas latinoamericanas, che ha avuto due edizioni in cinque paesi. Nessun saggio, per quanto intelligente, può provocare il piacere esaltante della buona narrativa. La narrativa dice più della filosofia.

Forse per non sentirmi sconfitta, tornai a un vecchio amore: l’insegnamento. Partecipai alla fondazione dell’Universitad Autónoma de Ciudad de México perché il suo rettore predicava l’istruzione universitaria per tutte e tutti, senza esami che escludessero coloro che non avevano un livello di conoscenza superiore a quello richiesto dallo Stato nel concedere la licenza superiore. Un’università che rappresentava una sfida per le sue insegnanti, quella di una qualità che non si basasse sulla competizione, un’università popolare e non gerarchica. Durante l’organizzazione del piano di studi di Filosofia e Storia delle Idee, mi battei per l’esistenza di una materia indispensabile: Filosofia Femminista. Ancora di più: filosofia femminista con un profilo latinoamericano. Quando i miei colleghi misero in questione l’esistenza di una materia che “escludeva il sapere degli uomini”, non resistei e gli sbattei in faccia: “La vostra, amici miei, è una filosofia del cazzo. In francese si chiamerà pure falologocentrismo, ma in Messico si chiama filosofia del cazzo”.

Ora, dopo nove anni di insegnamento all’UACM (Universidad Autónoma de la Ciudad de México), e con Helena che è diventata una giovane donna, la voglia di scrivere mi sta tornando, a poco a poco, come la salute torna a una convalescente. Cerco spazi, tempi vuoti in cui le fantasie possano popolare una scena…

Ovviamente non sono disposta a rinunciare al dialogo con altre donne, soprattutto con quelle che vivono quotidianamente il razzismo dell’egemonia del pensiero e delle leggi di un Occidente che si formò cinquecento anni fa con l’invasione delle terre di vari popoli da parte di alcuni paesi europei. La terra, la Madre Terra della maggior parte delle nazioni americane, la portatrice e dispensatrice di vita, inoltre, mi sembra così brutalmente minacciata dalla cultura egemonica, che la narrazione – l’atto di narrare, cioè di far conoscere – mi sembra ogni giorno più urgente in termini di contenuto ecologico e agricolo. Non so dove pubblicherò i miei prossimi romanzi, non so nemmeno dove li scriverò, ma le loro storie sono già in me e sono fatte di molte storie che ho sentito.»

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*Articolo originale da Desinformémonos

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FRANCESCA GARGALLO: «Credo che i contributi dei femminismi dei più importanti popoli autoctoni siano quelli che rivendicano la liberazione collettiva delle donne. Cioè l'eguaglianza della liberazione della donna, che è portatrice di diritti, con i diritti della collettività che le donne insieme compongono. Questo gruppo di donne non è vissuto come qualcosa di separato, estraneo alla collettività popolare, ma pretende di esserne parte integrante per il 50%. Pertanto, le donne femministe indigene hanno sviluppato idee come il territorio del corpo. Il corpo delle donne è autonomo dalla volontà maschile, appartiene alle donne, che lo decidono da sole, così come solo la comunità ha diritto al territorio che lo Stato e le transnazionali estrattive cercano di privatizzare e sfruttare.

(...) I femminismi latinoamericani, insisto, sono sempre stati diversi, sin dalle loro prime manifestazioni organizzate a metà del diciannovesimo secolo. C'erano grandi femministe liberali e molto radicali, che combattevano per pari condizioni e opportunità all'interno della classe borghese; e le femministe anarchiche che affermavano di non avere rispetto né per i loro capi né per i loro mariti perché entrambi li sfruttavano. Nel XX secolo c'erano correnti femministe che si battevano per un egualitarismo che lo Stato potesse garantire attraverso le sue leggi, e femministe radicali che si proponevano di trasformare la struttura patriarcale dell'intera società. Oggi ci sono posizioni ecofemministe e antiautoritarie.

(...) Credo che anche l'idea di biologia faccia parte della cultura. Chi dice che ciò che le donne e gli uomini sono abituati a fare siano tendenze naturali? Un discorso ideologico che cerca di controllare il comportamento di entrambi, imponendo schemi fissi, attraverso ricompense e punizioni. In generale, ciò che è considerato femminile è ciò che il sistema cerca di sminuire di valore e di non restituire.

 

La violenza contro le donne è in realtà molto alta in Messico, in particolare nelle aree dove c'è una presenza dell'esercito nelle strade, come in Chiapas e nei comuni indigeni che si sono dichiarati autonomi e negli stati e nelle città dove il presidente della repubblica , che non ha appoggio popolare, ha dichiarato la sua "guerra" al narcotraffico (più di 64.000 morti, 20.000 scomparsi, 15.000 orfani, un numero imprecisato di sfollati interni, forse circa 150.000 persone costrette a lasciare la propria zona di residenza a causa dell'elevata tassi di violenza in poco meno di 6 anni).

 

La violenza misogina è molto alta anche nelle periferie industriali vicino al confine con gli Stati Uniti , dove si concentra una forma di sfruttamento delle lavoratrici nota come "maquila". La maquila può essere tradotta come un tipo di industria di assemblaggio per produttori di tecnologia o abbigliamento che esternalizzano la loro produzione tra aree a salari molto bassi (Messico, Honduras, El Salvador, in America Latina)e le fabbriche che vendono il prodotto finale (talvolta europee, anche di paesi ufficialmente molto rispettosi dei diritti umani dei lavoratori, come l'azienda svedese Erikson, per esempio). Una di quelle maquiladora città industriali è diventata emblematica per i suoi altissimi livelli di violenza: Ciudad Juárez, dove l'insurrezione di madri e parenti contro la scomparsa e la morte delle loro figlie per scopi ancora oggi imprecisati, li ha portati a definire il “femminicidio” come l'omicidio di donne per il semplice fatto di essere donne. Il femminicidio è preceduto e “normalizzato” da una precedente violenza da femminicidio, cioè una violenza di tipo misogino che inizia con le squalifiche e gli insulti e arriva alla tortura e alla morte in ogni tipo di scenario.

 

I femminicidi sono cresciuti per più di un decennio dal 1993 e sono rimasti praticamente impuniti. Oggi non sono diminuiti, ma sono mescolati a un livello di violenza così alto da essere minimizzati dalla stampa. Non viene nemmeno sottolineata la tremenda realtà delle persecuzioni e degli omicidi di difensori dei diritti umani, giornalisti e attivisti contro i femminicidi e le violenze contro le donne uccise. Non esistiamo nella preoccupazione e nella conoscenza delle persone, anzi.

 

Un omicidio di una donna non è praticamente indagato in Messico, purché sia ​​commesso da un uomo. Meno del 2% dei femminicidi è stato arrestato. Il modello di violenza estrema contro le donne si sta diffondendo rapidamente, poiché il corpo smembrato e abbandonato di una donna è un messaggio di paura repressiva per l'intera popolazione, che coinvolge ancora una volta l'uso fino alla morte della vita e della capacità vitale di una donna.

(...) Se il matriarcato è inteso come un sistema simile al patriarcato, cioè un sistema di oppressione di genere e di costruzione di divieti volti a rendere schiavi gli uomini dalle donne, sono sicura che non esisteva. Tuttavia, non credo nemmeno che nelle fasi precedenti alla scoperta della guerra come forma di rapporto di potere estremo, avvenuta circa 6 millenni fa, le donne vivessero soggette agli uomini. Ci sono disegni e rappresentazioni grafiche in grotte e murales in città antiche come Catal Uyuk, nell'attuale Turchia, che mostrano donne capitane di navi, uomini con bambini in braccio, cacciatori e raccoglitori, insomma una società senza lavoro e discriminazione simbolica basata sulla differenza sessuale.

Domanda: Per quanto riguarda la categoria genere-genere, che ritieni "chiusa e poco liberatoria", quale sarebbe la categoria o il modo di interpretare che potremmo utilizzare per approfondire il pensiero e andare così avanti?

Perché non rileggere Kate Millet, quando parli di sessualità? Il sistema sesso-genere è il risultato della sessuazione, cioè dell'imposizione dei sessi come determinanti biologici del comportamento sociale.
Non c'è istinto; è stato inventato per giustificare comportamenti imposti dalla cultura. Impari ad essere violento e sottomesso, né le donne né gli uomini sono “naturalmente”. Questa è la sessuazione, l'obbligo di rispondere agli orientamenti culturali imposti ai sessi. Inoltre, ci sono molto più di due sessi, ci sono diversi intersessuali (né femminili né maschili) nella biologia delle persone che sono costrette a scegliere tra essere donne o uomini e comportarsi come tali. I soggetti politici, compreso il soggetto politico femminista, devono tendere a denunciare e annullare le imposizioni. 
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Per Helena, l’amore che mi accompagna

 

Il Petén (*) è l’aria densa che respiri
mentre attraversi la sua alba
di saraguato irato, 400 voci di cenzontle,
guacamaya eccitate.1
E io che ti vorrei difendere con la forza di un magnifico giaguaro
io vado insieme a te.

È quel sapore in bocca di foglie cadute
il mogano e la ceiba
che senza liane sostengono un mondo di insetti.

Prima della carne e del cavallo
molto prima del coltello e dei pirati
quando il mare verde era una nebbia dopo ogni pioggia
c’erano già il tacchino blu e la pantera
le ombre del fiume Belize
la treccia spessa cui si attaccano le code di mille scimmie.
C’era in attesa anche il serpente corallo.

Di selva sono i sentieri che biforcano i cammini di ogni vita.
Piumaggi
svolazzano intorno alla nera orchidea di un pino rovente
e la filigrana di un ragno attraversa il tuo viso.
Sudi al mattino fra grosse gocce di piogge estive
e feroci pantani.
Il vento si ferma
un ululato insistente perfora la tenerezza dei tuoi pensieri.
E io con te.
        Con te, io.

                             

(*) Il Petén è uno dei 22 dipartimenti del Guatemala, e si estende anche nell’entroterra del Belize. Francesca Gargallo passava lunghi periodi in questa zona, nella cui selva aveva comprato una casetta. Il clima è subtropicale, con abbondanza di acque, vegetazione e animali di ogni tipo, tra cui il saraguato (la scimmia urlatrice), il cenzontle (il tordo americano, famoso per il canto che riesce a imitare qualsiasi suono, dai versi di altri uccelli ai rumori cittadini), la guacamaya (un grande pappagallo dai colori sgargianti).

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Intervista di Orsetta Bellani a Francesca Gargallo

Dopo aver incontrato donne di 607 popoli indigeni affermi che esiste una relazione tra il femminismo e la ricerca del buen vivir. Secondo te tutte le donne che lottano per migliorare le loro condizioni si possono definire femministe?
Senz'altro. “Femminismo” è una parola che condensa e che traduce; come tutte le traduzioni è riduttiva, ma ci può dare un'idea di ciò che è incontrarsi e riflettere tra donne per il benessere delle donne all'interno della loro stessa società. Definirsi femminista è tradurre un concetto molto più ampio, molto più complesso e molto più specifico di ogni lingua e cultura, di ogni gruppo di donne che si riunisce. Esistono donne indigene che usano vere e proprie metafore per definirsi: alcune si riconoscono come “le donne del cuore”, altre dicono “siamo le donne che lottano”, altre ancora dicono “siamo le donne che cercano una buena vita”. Ogni volta che la ricerca di questa buona vita parte dalla riflessione tra donne e per il benessere delle donne, io credo che si possa parlare di femminismo.

​

Allo stesso tempo sei molto critica nei confronti del femminismo accademico occidentale. Perché?
Il femminismo accademico occidentale è uno dei tanti modi in cui la “società della conoscenza” convoglia a proprio beneficio tutti i saperi che provengono dalla società. Il femminismo era una lotta proveniente da tutti i settori sociali, dalle donne riunite nelle loro cucine per cambiare il mondo, e l'Università si è appropriata di questa conoscenza, l'ha portata nelle aule, l'ha inserita in un sistema di specializzazione. Certo, il femminismo accademico occidentale ha anche degli aspetti positivi: esiste una filosofia critica che viene dal femminismo. Ma è stato portato nelle aule per depotenziarlo, per togliergli la sua forza politica.

Non è successo la stessa cosa al femminismo latinoamericano?
Una parte del femminismo in America Latina sta nelle aule. In Messico si prendono in grande considerazione teorie che non sono latinoamericane, è evidente quando nei programmi di studio non trovi Margarita Pisano, non trovi Julieta Kirkwood ma trovi Judith Butler. D'altra parte ci sono anche molti gruppi di incontro tra donne che stanno creando una giustizia propria che si distanzia da quello che il patriarcato impone alle donne, ad esempio la vergogna dopo lo stupro. Oggi le donne si uniscono per creare una giustizia che risolva il loro diritto alla vita e al benessere.

Un femminismo in cui si riconoscono molte donne latinoamericane è il femminismo comunitario. Che cos'è?
È un modo di definire femminismi che sono nati all'interno delle comunità indigene di Bolivia e Guatemala e che oggi sono stati abbracciati da donne che fanno parte di comunità indigene, o da donne che sono arrivate dalle città a lavorare e vivere con loro.
Secondo i femminismi comunitari, la colonizzazione dell'America è stata una colonizzazione di genere, che ha cambiato le relazioni tra donne e uomini stabilendo ciò che è femminile e ciò che è maschile, lasciando così fuori le donne mascoline, gli uomini femminili, le persone con una sessualità non riproduttiva e le donne che non vogliono stare in una relazione di coppia.
La colonizzazione ha imposto un sistema di genere di tipo binario: o sei donna o sei uomo; se sei donna ti occupi di certe cose, se sei uomo di altre. Presso molti popoli che vivevano in America prima dell'arrivo degli spagnoli questa condizione era più egualitaria, o differenziata ma con maggiori livelli comunicanti, e non necessariamente esisteva una differenza così marcata tra il pubblico e il privato.
Inoltre, secondo i femminismi comunitari, la cultura della comunità stessa mette le basi per vivere bene all'interno di quella comunità, dopodiché una donna si può aprire al mondo: prima di aprirci al mondo dobbiamo trovare la nostra storia di resistenza come donne e la nostra storia di “buona vita”, ora e come donne di questa comunità specifica, che ha bisogno di curarsi dal colonialismo e dal patriarcato cresciuto con il colonialismo. La colonizzazione ha imposto la dote e i matrimoni combinati, che prima non esistevano.


Secondo il femminismo comunitario, l'incontro tra le culture americane e la cultura europea ha originato una forma originale di patriarcato. Come si definisce e che caratteristiche ha?
Si chiama “crocevia patriarcale” ed è una definizione sviluppata da due pensatrici che vivono in luoghi molto diversi. Una è un'indigena xinca guatemalteca che si chiama Lorena Cabnal, l'altra è un'indigena aymara della Bolivia che si chiama Julieta Paredes. Hanno lavorato sull'idea di maschilismo contemporaneo come frutto di un lungo processo storico che ha avuto un momento critico durante la colonizzazione americana, quando il patriarcato presente nelle comunità si rafforzò con il patriarcato cristiano colonialista.
Il patriarcato latinoamericano è particolarmente violento perché nasce dal colonialismo, dal genocidio, ed è profondamente contrario ai popoli indigeni in cui le donne rappresentano il 50% della popolazione e sono la struttura portante dell'economia comunitaria. Questo è il “crocevia patriarcale”, è la radicalizzazione dei patriarcati originari causata dal contatto con il patriarcato coloniale, cristiano e assassino.

Bosnia, Congo, Ciudad Juárez

 

La morte è una scarpa vuota
nel deserto indifferente
siccità di sogni
una madre che grida.
La volenza è il grido
il dovere del grido
la ragnatela di menzogne che soffoca il grido.
È la trappola in cui cade
la donna che perde la sua scarpa
lavora dodici ore senza affetto
e non può abortire nonostante l’eclampsìa
                            lo stupro
                                    l’abbandono
                 la fame stessa.
Una scarpa senza donna è il testimone
un pezzo di calza
                 i capelli neri sparsi nel deserto che piange
che geme contro la morte.
La madre raccoglie la scarpa
la strappa dalla mano di un poliziotto indifferente
la legge.
Solleva il volto
vede sua sorella.
La guarda, si guardano, sognano piantando i piedi nella terra.

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L'amicizia tra donne è un atteggiamento rivoluzionario

28 maggio 2021 
di Francesca Gargallo Celentani

(tradotto dallo spagnolo)

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Se l'anatomia è un elemento determinante nella rappresentazione del sesso, l'amicizia tra le donne si incarna nelle mura della più remota antichità. Dal Paleolitico al Neolitico, in gonne, abiti o pantaloni, con decorazioni, con capelli sciolti o acconciature complesse, con poncho o canottiere, si armano, si susseguono, lavorano, riposano, partecipano a rituali, ballano come nel grotte del Levante iberico, o trascinano mandrie di bovini come in Nord Africa, trasformano il cibo mentre parlano, producono tessuti, socializzano con ragazze e ragazzi.  Donne libere, che si prendono cura di sé e si accompagnano, in mezzo a simboli di potere e rappresentazioni della natura dove possono esserci uomini o meno. Questa raffigurazione di donne senza uno sguardo possessivo o giudicante dura fino all'età classica greca e latina, quindi scompare dall'arte di quella regione. Cosa è successo affinché la figura femminile si isoli e acquisisca tratti di ieraticità, fissità, solitudine? Come suggerisce Gerda Lerner, la grande storica tedesca ne La creazione del patriarcato, avveniva la subordinazione delle donne e la cooperazione delle donne nel processo della propria subordinazione, cosa che, dico, non poteva avvenire senza prima di perdere i loro legami di amicizia.

Per secoli le donne sono state rappresentate dal potere della Chiesa cattolica, sole o con figli (quasi sempre uomini, come nota Luce Irigaray, che fu felice negli anni '90 di trovare una rappresentazione di Sant'Anna con Maria in braccio), guardandoli con amore, allattandoli, senza fare altro, a volte circondate da uomini che le venerano, ostacolavano i loro movimenti. La letteratura, comica o tragica, è piena di traditori, streghe, nemici. Solo le poche donne che scrivono rivendicano le virtù delle donne e il fatto che idee, moralità e attività crescono quando sono insieme: Hildegarda von Bingen, Hroswitha de Gandersheim, Cristina de Pisan... Nella letteratura cortese, delle donne obbedienti ai mandati culture patriarcali e uomini che hanno raggiunto grande fama, al contrario, si può rintracciare nella cultura patriarcale il timore che la vicinanza tra le donne provoca nella cultura patriarcale. La giovane perseguitata durante un banchetto,Il Decamerone di Boccaccio , e il disgustoso La bisbetica domata di Shakespeare, così come le streghe nel Macbeth , sono la prova più che attendibile che essere una donna libera o tre donne insieme, capaci di dire no a una proposta d'amore o di inventare qualcosa, sono percepiti come un pericolo nel mondo patriarcale.

Tuttavia, le donne che stringevano amicizie e si presentavano al mondo come Le Preziose del Barocco francese, lanciate ad abbellire il linguaggio con cui si esprimevano, e le prime rivoluzionarie francesi, forse educate dagli atteggiamenti di ospitalità tra le donne negli illustrati saloni, e poi i circoli femminili indipendentisti in Messico, Colombia e Argentina hanno promosso relazioni libere che hanno minato la sicurezza maschile ridicolizzandole, disperdendole o reprimendole. Secondo la giornalista di New York Rebecca Traister, “L'amicizia femminile è stata la base della vita delle donne da quando esiste. Altre volte, quando un matrimonio, a cui si ricorreva spesso per ragioni economiche, aveva meno probabilità di fornire supporto emotivo o intellettuale, le amiche offrivano una stabilità intima”.

Oggi leggo nella mia vita quotidiana, quando un'amica si è presa cura di me durante il Covid e le sue conseguenze, e per strada, le azioni di solidarietà che si intrecciano tra le donne e formano relazioni di incontro, cura, attenzione, sostegno, cioè, pratiche di amicizia. Questo 8 marzo, una pinta di birra è stata ripetuta innumerevoli volte per le strade di Città del Messico: "Liberi, vivi, insieme", mentre alcuni gruppi di femministe cantavano: "La polizia non mi protegge, le mie amiche si prendono cura di me". Ogni giorno di più, le donne sono consapevoli che vogliamo, abbiamo bisogno, divertiamoci, sosteniamo noi stesse e trasformiamo il mondo grazie ai nostri amici.

Ma qual è l'amicizia che molti scrittori romantici hanno ingigantito tra uomini e mai descritta tra donne? Sono diversi, è un sentimento, è un atteggiamento?

 

L'amicizia tra donne è una pratica di tutela che nasce con il gioco e le regole che vengono stabilite per poter giocare liberamente, in modo concordato tra giocatori, durante tutta l'infanzia o in qualsiasi momento della nostra vita. Produce complicità e rafforzamento reciproco; la sua accusa è rivoluzionaria perché il sistema ha cercato di bandirla, o almeno di renderla il più difficile possibile. È che l'amicizia invalida i dispositivi di controllo sociale e il patriarcato vuole il controllo totale del comportamento femminile.

Da tre giorni si discute di economia della cura, ecofemminismo come alternativa alla distruzione ambientale, finalità degli studi in tempi di disoccupazione e mancanza di aspettative nel sistema, trasformazione dell'ambiente e condizione delle donne con disabilità. Hanno pensato alla cura di sé, ad esempio, durante la gravidanza e alla cura condivisa per rompere con la cultura individualistica del patriarcato. Inoltre, sappiamo tutti che le reti di sostegno tra amici, durante i mesi della pandemia, con i loro sentimenti contrastanti di paura e stanchezza, sospetto e audacia, quando la depressione o la rabbia, lo scoraggiamento o la disperazione hanno intaccato la nostra psiche. la reclusione e la mancanza di prospettive (compresa la prospettiva di un abbraccio) sono ciò che ci ha salvato.

Donne, campanacci ci dice che il femminismo è per tutti , non potremmo mai liberarci senza autostima e amor proprio. Al centro della liberazione c'è il corpo, nostro strumento di vita e di relazione che il patriarcato ci ha rapito, esponendolo a un giudizio estetico costante e giudicante, che le donne hanno assimilato e ripetuto. Per rompere l'identificazione norma-estetica-bellezza-accettazione, solo la convinzione condivisa tra amici può portare all'azione. Ad esempio, il 7 settembre 1968, le 500 donne che si sono radunate ad Atlantic City per protestare contro il concorso di Miss America e hanno deciso di gettare gli strumenti di contenzione femminile (trucco, reggiseni, scarpe col tacco) nel Liberty Dumpster. , cinture, giarrettiere, ecc.), hanno dovuto parlare, sussurrare, incoraggiarsi a vicenda, discutere, stringere la mano per sfidare il sistema. Non erano 500 amici, ma i 500 ebbero il coraggio di partire perché accompagnati da uno o più amici. Gli amici sono quelli che possono unirsi a noi nel mettere in discussione i precetti accettati come dogmi e come regole di organizzazione sociale. È con un amico, quelli di noi che hanno avuto un'educazione familiare patriarcale, che abbiamo iniziato a dubitare quando ci hanno detto che eravamo intellettualmente inferiori, fisicamente deboli, bisognosi di essere protetti da un uomo. Abbiamo scoperto con essa la nostra capacità di risoluzione e di mettere in discussione il diritto degli uomini di esprimere la loro opinione, decidere, spiegare, rimproverare, punire le nostre azioni quando non corrispondevano a quanto era prestabilito. quelli di noi che hanno avuto un'educazione familiare patriarcale, che hanno cominciato a dubitare quando ci hanno detto che eravamo intellettualmente inferiori, fisicamente deboli, bisognosi di essere protetti da un uomo. Abbiamo scoperto con essa la nostra capacità di risoluzione e di mettere in discussione il diritto degli uomini di esprimere la loro opinione, decidere, spiegare, rimproverare, punire le nostre azioni quando non corrispondevano a quanto era prestabilito. quelli di noi che hanno avuto un'educazione familiare patriarcale, che hanno cominciato a dubitare quando ci hanno detto che eravamo intellettualmente inferiori, fisicamente deboli, bisognosi di essere protetti da un uomo. Abbiamo scoperto con essa la nostra capacità di risoluzione e di mettere in discussione il diritto degli uomini di esprimere la loro opinione, decidere, spiegare, rimproverare, punire le nostre azioni quando non corrispondevano a quanto era prestabilito.

Dal 1968, mettere in discussione l'estetica sessista ha sconvolto tutto nell'organizzazione patriarcale delle donne come persone dedite al gusto e al desiderio degli uomini. C'è un forte legame tra buttare il reggiseno nella spazzatura e studiare quello che vuoi, rifiutare proposte di matrimonio poco convincenti, vivere con gli amici. Per sessant'anni il sistema patriarcale si è difeso scatenando una vera guerra contro le donne, i cui tratti più terribili sono lo stupro e il femminicidio. Le donne hanno sopportato gli spari dell'industria della moda, dei cosmetici e persino della medicina. La stampa, la televisione e il cinema hanno schiacciato le emozioni femminili con gli stereotipi dell'amore romantico, da quella Cenerentola riciclata che era Pretty Woman (1990) alle serie televisive che ci offrono come modelli le relazioni eterosessuali, dove prevalgono sottomissioni, gelosie, violenze e rinunce. Film in cui le donne non interagiscono mai tra loro, non si parlano, non si aiutano!

Tuttavia, chi di voi è interessato alle proposte ecofemministe per porre fine allo sfruttamento della terra e delle sue risorse, chi riflette sull'economia della cura, che sostiene con attenzione le relazioni comunitarie e familiari, chi si occupa dell'alimentazione smantellando le produzione industriale di cibo o di salute mettendo in discussione l'istituzionalizzazione di tutte le cure, sanno che sfidano il sistema e che hanno bisogno di alleati, amici, compagni.

In questo anno di pandemia, abbiamo dovuto necessariamente ripensare alla riproduzione sociale, cioè alla produzione della vita e alla cura del corpo e della psiche, comprese le relazioni familiari, comunitarie e sociali. Penso a quelle donne che non hanno mai abbandonato il loro tradizionale lavoro di ostetriche e guaritrici nel campo della salute e come hanno posizionato un altro modo di intendere la cura, l'igiene e l'attenzione. Un lavoro che ha a che fare con la riproduzione sociale, con la cura di una donna incinta basata sulla sua cultura, quindi, le sue paure e le sue sicurezze, e con la cura all'interno di una comunità, con tutti i suoi legami. Le ostetriche sanno fare massaggi che aiutano il flusso di ossitocina, che servono ad accogliere il bambino nella posizione di nascita, che districano il cordone ombelicale dal collo dei bambini; provano i modi di parlare a coloro che stanno per nascere per aiutare le loro madri; non infastidiscono mai una donna mentre trova la sua posizione per completare la dilatazione, buttare via il tappo e spingere per partorire. Non c'è una brutta parola con loro, un ridicolo, una dimostrazione di mancanza di importanza. Molte donne vanno da sole, la presenza di un marito è eccezionale, sentirsi accuditi è una consolazione. Questa è l'amicizia nella professione.

 

Ma torniamo all'amicizia come sentimento libero, senza legami legali o familiari che talvolta attraversa ceti sociali, livelli di istruzione, nazionalità. Una relazione libera non è regolamentata; sebbene risponda a regole proprie, queste non sono istituzionali, quindi la relazione sfugge al controllo del potere. Cosa significa che nelle strade del paese si canta che la polizia non difende noi, ma i nostri amici? Innanzitutto la sfiducia nei confronti dell'istituzione che detiene la legittima violenza dello Stato e, in particolare, la certezza che i suoi abusi siano di ordine patriarcale. In altre parole criminalizza la protesta, la denuncia, la richiesta di giustizia per le donne, proprio perché donne. Allora, che gli amici, le persone con cui ci relazioniamo liberamente, sono quelle con cui ricostruiamo il patto sociale,

Che i miei amici si prendano cura di me implica oggi, in Messico e in un mondo reso ancora più precario dalla pandemia di Covid, con una ridistribuzione urgente della ricchezza e delle responsabilità ambientali, un atteggiamento che smantella i processi non democratici di disprezzo della libertà e dei diritti umani delle donne, tipico di governi e società brutali, dove l'aperta violazione dell'integrità delle donne e delle persone di sesso femminile è usata come atto di terrore patriarcale, omofobo, razzista, fondamentalmente antidemocratico. L'amicizia tra donne smantella l'odio e il disprezzo delle società autoritarie per le donne che non accettano una divisione sessuale gerarchica della vita, perché deridono ciò che dovrebbe essere. I miei amici si prendono cura di me!

Quando mi fermo a pensare a cosa sia l'oppressione, la visualizzo come una dicotomia tra superiori e inferiori, cioè come una gerarchia che pretende di essere indistruttibile e che ignora la dignità umana. Come dice Rita Laura Segato, tra padroni e posseduti, in un mondo dove chi non è proprietario non esiste. Pensiamo a questa dicotomia come a una rigida divisione tra i ruoli di donne e uomini oggettivati ​​che lottano per essere proprietari, e l'esclusione delle persone omosessuali, intersessuali, transgender, non binarie. Le donne oppresse come inferiori secondo uomini ideologizzati che ritengono che, essendo superiori, debbano affrontare in modo rigido e castrante il lavoro e combattere ogni dissidenza di un ordine costituito da un potere che venerano, sia quello del padre, dello stato , da una chiesa, dall'azienda per cui lavorano o da un istituto di polizia-militare, legale o paramilitare. È una concezione di ciò che dovrebbe essere che si è affermata grazie a pregiudizi misogini che dirigono la violenza verso la repressione.

Insisto, quando le donne concordano tra loro di difendersi a vicenda nelle società capitaliste liberali da uomini che le inquadrano in un dovere di essere che non corrisponde a loro, fanno appello alla loro libertà di essere. E difendendosi tra le donne mostrano un fallimento nel funzionamento dello Stato. Allo stesso tempo, sottolineano la loro capacità di scegliere se stessi sulla strada della costruzione delle proprie azioni nel mondo. Più qui o al di là della presunta sorellanza come patto di genere, l'amicizia tra donne è una pratica di libertà che confronta le nostre idee e sostiene la nostra autostima.

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Un tributo alla sua scomparsa:

“Francesca Gargallo continuerà a vivere in ogni fase della nostra lotta”

postato il 5 marzo 2022
 

Il Kurdistan Women's Movement ha rilasciato una dichiarazione in memoria della pensatrice femminista italo-messicana Francesca Gargallo Celentini, morta in Messico il 3 marzo di quest'anno.

Ecco il comunicato completo tradotto dallo spagnolo dal loro sito:

 

Dal Kurdistan Women's Movement abbiamo ricevuto con dolore, ieri mattina (3 marzo), da Città del Messico, la notizia della morte dell'attivista, accademica, scrittrice e poetessa Francesca Gargallo Celentani.

Francesca Gargallo è stata una sorella per noi e ha accompagnato, dall'internazionalismo e con le sue profonde riflessioni, il nostro movimento attraverso i continenti.

I nostri più profondi pensieri d'amore vanno in questo momento a vostra figlia Helena ea tutti i suoi cari, che abbracciamo mentre sono riuniti in una rete transnazionale di affetto; I nostri sentimenti più impegnati sono senza confini per mantenere vivo il ricordo della vita e l'esempio della nostra collega Francesca Gargallo, dalla sua gioia e vitalità, che ha fatto di ogni riflessione condivisa una sincera apertura di orizzonti e percorsi.

Nata nel sud dell'Italia, in Sicilia, nel 1956, e abitante in Messico dal 1979 come tutta Abya Yala nella sua profondità ribelle dalle lotte delle donne e dalla dissidenza, Francesca Gargallo ha camminato parola da un sentimento che trascendeva i confini e intrecciava amore e comunità autonome, autoctone e popolari, da un internazionalismo femminista sensibile e generoso in difesa dei diritti umani. Il suo lavoro comprende storie per bambini, poesie, narrazioni e nelle sue opere, come "Ideas Feministas Latinoamericanas" e successivamente in "Feministas de Abya Yala", ha criticato la modernità capitalista egemonica e ha proposto, praticandole collettivamente, altri modi di essere, al di fuori di quello, del femminismo radicale. Ha ricordato nei suoi scritti che una lotta delle donne che non costruisce autonomia ma chiede solo equità,

La ricerca di una modernità democratica e antipatriarcale di Francesca Gargallo nella sua ricerca militante e accademica ha aperto sia i punti al femminismo egemonico istituzionalizzato, sia le strade per comprendere e comprendere più attentamente le lotte portate avanti tra Abya Yala e il Kurdistan, altre forme non Lotta antipatriarcale occidentale da cui costruire mondi di significati e pratiche comunitarie a difesa del pianeta in un'autentica pluriversità.

Tutta la vita di Francesca Gargallo è stata questo atto collettivo in una continua depatriarcalizzazione della comunità e della vita. Lettore e conoscitore delle autobiografie scritte dalla leader curda Sakine Cansiz, come lei, sentiamo che Francesca Gargallo ha abbracciato l'idea di dover costruire la libertà non nel prossimo futuro, ma nel qui e ora, in modo comunitario. Questo emerge in ogni momento nella sua opera scritta come in ogni parola che ha condiviso dalla convivialità. Sottolineando con la sua creatività il potere liberatorio della poesia, qualche mese prima di partire Francesca aveva scritto nel prologo di “Autumn”, pubblicazione di poesie sul Kurdistan: “La poesia è la forma letteraria che adottiamo quando dobbiamo raccontare l'indicibile perché , appunto, accede all'istante in cui possiamo fermarci e urlare.

Il suo impegno internazionalista femminista per la libertà è arrivato al punto di rompere i muri delle carceri turche, quando ha fatto risuonare a livello internazionale le sue parole contro l'arresto della nostra compagna curda Leyla Güven, che ha iniziato uno sciopero della fame in carcere e alla quale Francesca ha rivolto queste parole, che in uno specchio, ora restituiamo: “La tua vita è importante per le femministe. Perché ci ricorda che dobbiamo mettere i nostri corpi in prima linea se vogliamo abbandonare il patriarcato, e opporci alla tortura, all'isolamento, al rifiuto che le persone possano vivere in pace.

Francesca Gargallo continuerà a vivere ogni passo della nostra lotta!

Jin Jiyan Azadi!

Movimento delle donne del Kurdistan / 04-03-2022

FONTE: Kurdistan America Latina

Nata a Siracusa , in Italia, FRANCESCA GARGALLO ha studiato filosofia nella sua nativa Italia presso l'Università degli studi di Roma e poi presso l' Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM).
Il suo amore per l'America Latina è nato a 23 anni. Quando nel 1980 è arrivata in Nicaragua ha conosciuto l'entusiasmo rivoluzionario, in un'epoca in cui “purtroppo le rivoluzioni erano ancora incentrate sull'idea di uno Stato-nazione”. Era partita dall'Italia mossa dal sentimento internazionalista che in quell'epoca spinse molti giovani a conoscere e appoggiare la rivoluzione sandinista nicaraguense. Ma dopo un anno decise di lasciare il paese. “Innanzitutto perché non sopportavo il caldo”, dice ridendo. “E poi perché c'era tantissimo maschilismo tra i rivoluzionari. Se ti ribellavi contro le espressioni maschiliste ti accusavano di essere una controrivoluzionaria”.
Cittadina naturalizzata messicana, ha vissuto poi in Messico.
Come scrittrice letteraria, ha pubblicato romanzi , romanzi di fantascienza, poesie , racconti e racconti per bambini . Nel campo della saggistica e della storiografia , ha scritto delle idee del femminismo latinoamericano e messicano , nonché dell'estetica e della critica letteraria , nonché delle arti visive . Ha anche lavorato come redattrice, giornalista e traduttrice. Ha collaborato a riviste come Proceso e ha fatto parte dei comitati editoriali delle testate Cuadernos Americanos , Target mobile e Pensieri e lavoretti , tra gli altri.
Nei quasi 40 anni in cui ha vissuto e viaggiato per l'America Latina, ha avuto la possibilità di conoscere molte donne indigene organizzate. Da quell'incontro è nato il suo libro Feminismos desde Abya Yala, che ha pubblicato nel 2012.
Ha scritto molti libri di poesie e romanzi come; Calla mi amor que vivo , Estar en el mundo , La decisión del capitan , Marcha seca tra gli altri.  
Nel 2002 è stata fondatrice dei diplomi di Filosofia e Storia delle Idee e Letteratura e Creazione letteraria presso l' Università Autonoma di Città del Messico (UACM).
Gargallo è morta il 3 marzo 2022, all'età di 65 anni.
Il giorno prima che Francesca morisse, a Roma è stato presentato il suo libro "La strada è di chi la cammina" (Kairos, Roma 2022). Innamorata delle arti plastiche, ha scritto soprattutto su artiste latinoamericane, cercando sempre punti di vista non misogini sulla realtà. Quasi tutte le sue opere si possono leggere e scaricare gratuitamente nel blog https://francescagargallo.wordpress.com.

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Bibliografia, conferenze, interviste, scritti 

(tradotto dallo spgnolo)

 

Romanzi 

  • Piano delle contadine (Campamocha, Oaxaca, Messico, 2017, 196 pp.)

  • Gli estranei dal piano terra (Ediciones Desde Abajo, Bogotá, Colombia, 2015, 172 pp. ISBN 9789585882683 )

  • Con il passare dei giorni (Editorial Terracota, Città del Messico, 2013, 174 pp. ISBN 97860777130895 )

  • Dry March (Ediciones Era, Messico, 1999, 76 pp. ISBN 9684114540 )

  • La decisione del capitano (Ediciones Era, México, 1997, 181 pp. ISBN 9684114133 )

  • I pescatori di Kukulkan (Aldus, Messico, 1995, 67 pp. ISBN 9686830413 )

  • Essere nel mondo (1994, Ediciones Era, México, 135 pp. ISBN 9684113579 . Tradotto in tedesco come: Schwestern, nel 1996, pubblicato da Eichborn, Francoforte, e nel 1998 in brossura dalla casa editrice Piper, Francoforte)

  • Primavera di due fonti (Michoacan Institute of Culture, Morelia, Messico, 1994, 122 pp.)

  • Calla mi amor que vivo (Ediciones Era, México, 1990, 147 pp. ISBN 9684113277 )

  • Giorni senza Casura (Leega Literaria, Messico, 1986, 90 pp. ISBN 9684950357. Ars Longa edizione digitale, Messico, 2011, ISBN digitale: 6326)

Poesia 

  • Il pomeriggio si prepara alla pioggia (Ediciones sin Nombre, México 2014. 124 pp. ISBN 9786079413026 )

  • Come ritratto, una donna attraversa la strada (Universidad Autónoma Metropolitana. México, 1990, 84 pp. ISBN 9688406295 )

  • C'è una poesia nel mondo (Editorial Oasis, Col. Los Libros del Fakir, Messico, 1986, 29 pp. e in pubblicazione digitale: Ediciones Corcon (Cut and confection), Messico, 2011)

  • Itinerare, Lo Faro, Roma, 1980.

storia

  • Estate con pioggia (Ediciones Era, México, 2003, 89 pp. ISBN 9789684115552 )

  • Le tre Elene (in italiano, Edicoop, Roma, 1980)

Storia per bambini

  • Il rumore della musica (Editorial Progreso, illustrazioni: Efrén Santos, Messico, 2005, 48 pp. ISBN 9789706415905 )

  • Gli amici del coyota ridente e pazzo – Tu'kue bene nha bayix nna bekw'ya nholh xhill'lhall (Editorial Del Rey Momo, FONCA Translation into Zapotec: Marío Molina Cruz; Illustrazioni: Guillermo Scully; Messico, 1996, 24 pp.

  • Paseando con Cayetano – A Walk with Cayetano (Illustrazioni di Georgeanne; Traduzione inglese di Clare Joysmith; Editoriale Del Rey Momo, FONCA, Messico, 1993)

Saggio (selezione)

  • Idee femministe latinoamericane (in italiano, Edizioni Arcoiris, Salerno, Italia, traduzione e cura di Giovanna Minardi. 2016, 204 p. ISBN 978-88-96583-95-1 )

  • Femminismi da Abya Yala. Idee e proposte delle donne di 607 popoli della nostra America (prima edizione di Editorial Desde Abajo, Latin American Thinkers Collection, Bogotá, Colombia, 2012, 295 pp. ISBN 78958845459. Altre edizioni sono state pubblicate in Argentina, Cile, Bolivia e Messico , con diverse prefazioni che seguono i movimenti femminili e femministi. Nel 2015 è stato pubblicato dall'Università Autonoma di Città del Messico, ISBN 978-607-7798-91-0 )

  • Presentazione e coordinamento dell'Anthology of Our American Feminist Thought (2010), che ha raccolto testi dal XV al XX secolo, con la collaborazione di vari autori che hanno recuperato testi dagli archivi nei loro paesi o che hanno fornito i loro testi per formare questa antologia . 14

  • “Cercare di avvicinarsi a una ragione narrativa”, sulla rivista Intersticios. Filosofia, arte, religione , Università Intercontinentale, Città del Messico, Anno 8, n. 19, 2003. ISSN: 1200-16 425. 15

  • Idee femministe latinoamericane (prima edizione: Universidad Autónoma de la Ciudad de México, 2004, 250 pp. Questa edizione è stata seguita da altre che sono state ampliate e riviste in Messico e Colombia. Nel 2014 l'Universidad Autónoma de México ha pubblicato la 3a edizione , 288 pagine ISBN 9786077798842 )

  • Saharawi. Il sorriso del sole (Fondazione editoriale il cane e la rana, Caracas, Venezuela, 2006, 101 pp.)

  • Garífuna, Garínagu, Caribe (Siglo XXI / UNESCO / Governo di Quintana Roo, Messico, 2002, 79 pp., ISBN 9789682323652 )

  • Così diretto e così umano. Manuale etico dei diritti umani delle donne (Accademia messicana dei diritti umani dei diritti umani, Messico, 2000, 119 pp.)

Storia e critica dell'arte (selezione)

  • "La creatività delle donne. Pittura e riconoscimento pubblico", in VV.AA. (2015) Mujeres del Salón de la Plástica Mexicana , volume 2, CONAULTA, INBA, pp. 21-23. ISBN 9786076052556

  • Sette pittori di una generazione senza nome (scritto con la collaborazione di Rosario Galo Moya su artisti visivi: Carlos Gutiérrez Angulo, José Luis García, Gabriela Arévalo, Rafael Charco, María Romero, Guillermo Scully e Sara María Terrazas. Inedito. L'opera ha ricevuto il Luis Cardoza y Aragón Premio Nazionale di Belle Arti per la Critica delle Arti Plastiche nel numero 2010)

  • Intestini di vulcano. Pigmento e sperimentazione nell'opera di Carlos Gutiérrez Angulo (fotografia dell'opera: Irma Villalobos; Instituto Mexiquense de Cultura, Toluca, México, 2004, 106 pp.)

Traduzioni (selezione) 

  • Gioacchino Gargallo Di Castell Lentini, Storia della storiografia moderna , 4 volumi, trad. dall'italiano di Francesca Gargallo, Editoriale UACM, Messico, 2009. Volume I: Il 18° secolo ( ISBN 9789689259206 ), Volume II: Storico di Hegel ( ISBN 9789689259220 ); Volume III: La storiografia del Consolato e dell'Impero ( ISBN 9789689259213 ); Volume IV: La storiografia liberale della conquista franca della Gallia ( ISBN 9789689259350 ).

  • Zuffa, Grazia, “Se il sesso diventa lobbying: diverse scelte e significati della rappresentazione”, trad. dall'italiano di Francesca Gargallo, in Dibattito femminista , Anno 4, Vol. 7, marzo 1993, pag. 96-99. ISSN 0188-9478

Premi

  • Nel 2012, Menzione d'Onore del Premio Liberatore per il Pensiero Critico, Ministero della Cultura della Repubblica Bolivariana del Venezuela, per il libro Femminisms from Abya Yala .

  • Nel 2011, Medaglia Omeccihuatl, Istituto femminile di Città del Messico, governo del distretto federale. 16

  • Nel 2010, Premio Luis Cardoza y Aragón Belle Arti per la critica delle arti plastiche, per il libro inedito Sette pittori di una generazione senza nomi 17 (scritto in collaborazione con Rosario Galo Moya)

  • Nel 2006, Prima Menzione d'Onore del Premio Libertador per il Pensiero Critico (creato nel 2005), Ministero della Cultura della Repubblica Bolivariana del Venezuela, per il libro Idee femministe latinoamericane . 18

  • Nel 2001, Primo posto nell'area della conoscenza storica dei premi del pensiero caraibico, concesso dall'editoriale Siglo XXI, dall'UNESCO e dal governo di Quintana Roo, per il libro Garífuna Garínagu, Caribe .

Interviste e profili (selezione)

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Giordano

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Robert Walser

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Etienne Dolet

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Renzo Novatore

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Luigi

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Giulio C.

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Nancy Cunard

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Paolo

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Voltairine

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Francisco Ferrer

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Francesca

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