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storie

TERESA FABBRINI BALLERINI

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BRUNO FILIPPI (Livorno, 30 marzo 1900 - Milano, 7 settembre 1919)

A Milano, la sera del 7 Settembre 1919, verso le ore 21, mentre la Galleria V. E., il Caffè Biffi e tutti gli altri ritrovi rigurgitavano oscenamente della solita «gente onesta» composta da puttane d’alto rango, ruffiani e simili pesci-canaglia, un giovane dimessamente vestito saliva le scale del palazzo ove ha sede il «Club del Nobili» recando un involto. Improvvisamente una spaventevole esplosione gettava lo scompiglio e il terrore fra i tremebondi eroi dell’«andate e noi vi riforniremo». Una bomba - l’involto che il giovane dimessamente vestito portava seco - era incidentalmente esplosa «prima del tempo» riducendo in brandelli colui che la portava e che veniva poi identificato per l’anarchico diciannovenne Bruno Filippi. Noi che lo avemmo come collaboratore assiduo e lo amammo come compagno, inviamo a Colui che ha gettato «gli atomi della propria vita nella ridda urlante della fiamma» il nostro reverente saluto.

 

Da ICONOCLASTA!

«Quando siamo convinti che lo scudiscio non può più nulla contro la nostra ostinatezza, non lo temiamo più: noi abbiamo oltrepassata l’età della sferza. La nostra volontà ostinata, la nostra audacia, si ergono, più potenti di essa, dietro le verghe».

Così l’UNICO di Stirner.

 

Bruno Filippi fu! Non aveva ancora vent’anni quando cadde fatto a brani dalla sua idea. Figlio della rivolta, atomo della eterna violenza anarchica, è passato nella vita come una folgore. Un grido ed uno spasimo di dolore: si è arso su di un rogo per illuminare d’un tragico bagliore tutta l’iniquità di un mondo che detestava.

 

Chi conosceva Bruno Filippi? Ognuno che lo ha avvicinato può aver la pretesa di svelare il mistero della sua anima tormentata dai brividi e dalle fiamme di un’idea. Ma il mistero resta; lo sguardo dell’indagatore non ha potuto sfondare il riparo che celava le profondità di quell’anima. Ed io che lo conobbi appena adolescente, che lo vidi crescere giorno per giorno, che lo studiai, che ascoltai i suoi pensieri più turbinosi, non riesco a fare l’analisi del suo sentimento. Poichè la sua vita venne dall’ignoto e sparve nell’ignoto!

 

* * * È la psicologia d’un anarchico. Psicologia strana per gli uomini normali. Lapidatemi pure, o credenti nel divenire libertario, ma io affermo che ogni anarchico è un anormale. Tutto ciò che è passionale trascende dal senso comune. I passionali dell’amore come i passionali dell’arte. Gli anarchici sono i passionali della giustizia e della libertà. L’uomo normale è edonista; cerca il bene immediato. L’operaio che si organizza e sciopera cerca ed ottiene un benessere che la classe borghese vorrebbe contendergli, il politicante che strepita nei comizi e sulle piazze cerca ed ottiene la soddisfazione del suo amor proprio: diventa segretario, consigliere, deputato. Ma l’anarchico? È atteso dal carcere, dalla disoccupazione, dalla fame. La sua vita non è che un tessuto di tormenti e di vicende dolorose. Nessun alloro gli corona la fronte, nessuna vittoria gli sorride. Getta un grido: gli risponde il gelo delle manette; urla una protesta: vien trascinato davanti ad un tribunale, seppellito in un carcere. La sua famiglia si sfascia: la miseria dopo la pena, gli abiti a sbrendoli, la persecuzione senza quartiere.

 

E pure lotta e non recede. Passa altero fra lo scherno altrui, nel dolore che è l’unica realtà di tutta la sua vita. E tutto per niente! O credenti nel divenire anarchico, uomini di passione e di fede che soffrite per la vostra idea, ditemi: quale guadagno avete avuto dall’apostolato che vi siete imposti? Quale gloria? Quale vittoria avete ottenuto? Nulla! Ecco perchè, rispetto ai più, noi anarchici siamo anormali. La nostra idea è parte della nostra vita, è il sangue dal quale non potremo liberarci se non colla morte; è passione. Come l’innamorato spasima e soffre pel suo ideale incarnato in una fanciulla, così noi anarchici si spasima e si soffre per un’aspirazione teorizzata in un’utopia.

Ecco la psicologia di Bruno Filippi; venne al mondo portando seco la sua maledizione, e la sua vita non fu che spasimo passionale. Era un precoce e appena adolescente sentì le prime minacce della sferza. Guardava nel mondo con occhio attonito perchè sentiva che tutto gli era ostile. Cercava la libertà nella vita selvaggia e la civiltà gli negava il sole e la foresta. Cercava la dignità di un lavoro umano e la società gli offriva la schiavitù di un lavoro bestiale. La vita in lui era esuberanza ed energia. Il suo imperativo categorico era agire. Detestava l’attesa perchè in lui tutto era folgore.

Ateo, non credeva nelle folle. Le sapeva prone sotto lo scudiscio della legge e sapeva pure che era vano il tentare di rialzarle. Soffriva per sè, per la sua libertà che non poteva essere, per il suo vivere che non poteva affermarsi. A quindici anni la legge penale gli fu sopra con una condanna. Egli sorrise: quella condanna fu il principio della fine. La società credeva di avere impaurito un sognatore ed invece aveva creato un ribelle.

Lo si elencò allora nei registri sociali con l’aggettivo “pericoloso”, e le autorità agirono di conseguenza. Ma egli aveva imparato da Ibsen la dottrina della difesa assoluta di sè stesso, da Schopenauer la fatalità del dolore umano. Così divenne stoico. La morte non era che volontà di vivere annientato; l’oltre tomba non poteva essere che il nulla, dissolvente la materia. Fece suo il motto di Gaetano Bresci: “Quando la vita è impropria è meglio la morte”. E andò verso la morte, serenamente. * * * Così doveva essere, e così fu.

 

L’epilogo della vita d’un anarchico è una tragedia o un abisso di dolore. Si scompare fatti a brani dall’odio compresso nella dinamite, si muore di tisi su un letto di un ospedale,  esauriti in fondo ad un carcere, sfiniti sul marciapiede d’una via, tremanti di freddo fra le pareti squallide d’un tugurio, affamati sull’orlo di un fossato.... E tutto per un gran sogno che non sarà mai!

 

CARLO MOLASCHI

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Erro senza mèta ed osservo l’incessante via vai, il succedersi continuo di fisonomie stereotipate ed indifferenti. Passan donne sgargianti e in tutte le loro movenze e i loro atti più semplici vedi lo sforzo, l’ostentazione, lo scopo unico di stuzzicare il desiderio. E l’uomo si ferma, segue con lo sguardo cupido le figurine chiassose e procaci ed esclama il commento triviale. Ecco uno stuolo di ricoverati, insaccati malamente in abiti mal fatti, procedono, guidati da un prete tozzo e volgare. Poveri bimbi! cresciuti nella bigotteria, nell’ambiente corrotto del collegio, sono i rassegnati, gli iloti di domani. Vedo una chiesa. Un grosso parroco discorre con delle beghine che lo ascoltano compunte e attente, e il pretonzolo agita le mani pelose e sguscia gli occhietti lanciando occhiate oblique. Il ben pasciuto all’ombra del tempio bugiardo sente inquietarsi l’urlo del lavoro e della miseria, che pare aleggi sulla grande città. «Signore, la carità» si lamenta un essere cencioso e sporco.... «Signore, la carità....» E la folla procede indifferente pensando alla minestra della sera, all’osteria, al 28 gioco delle boccie. E il richiamo del mendicante continuando noioso e implacabile, mi trafigge le tempie, mi martella il cervello.

BRUNO FILIPPI - Scritti postumi, 1920

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